Per Grazia Livi

Liliana Rampello


Stavo lavorando alle bozze di una nuova edizione de Le lettere del mio nome, quando mi è giunta la notizia della scomparsa di Grazia Livi. Negli ultimi mesi l’avevo sentita più volte al telefono, sempre più stanca, ormai con un filo di voce, ma contenta per la prossima uscita del libro, prevista per marzo, per i tipi della Iacobelli editore. Un libro che le era molto caro, ci teneva moltissimo a vederlo di nuovo stampato, mi aveva affidato il testo ma voleva avere l’ultima parola sulla copertina. Ora per me, e credo per molte delle sue amiche più care, la nuova edizione, con la bella postfazione di Liliana Rampello, sarà anche e soprattutto un omaggio a lei e al tanto che ci lascia.
Anticipiamo qui la prima parte del testo di Liliana Rampello.

Anna Maria Crispino

 

Pioniera

Ora che avete finito di leggere Le lettere del mio nome, ora che nessuna sorpresa delle tante che il libro riserva può essere rovinata da una mia indebita effrazione del senso profondo che già ha rallegrato la mente, per ognuno/a in modo diverso, posso provare a raccontare, quasi in punta di piedi, di memorie e novità che mi hanno accompagnato in questa rilettura.

Sì, la prima volta che ho letto queste pagine di Grazia Livi era il 1991, il libro uscì per La Tartaruga, gloriosa casa editrice di Laura Lepetit, e ricordo una voracità rivolta soprattutto ai contenuti, a quello che una scrittrice riusciva a rilevare, come in uno specchio, di altre scrittrici e pensatrici. Stranamente oggi la cosa che mi ha colpito maggiormente è invece l’architettura, la composizione vera e propria delle parti, così che questa seconda esperienza mi ha forse restituito tutto il libro nella sua profonda sperimentazione formale. A conferma ovvia che leggere e rileggere sono attività affini, ma non uguali, simili e diverse perché hanno a che fare con il tempo, quello che è oggettivamente trascorso e quello che abbiamo soggettivamente vissuto.

Prima ancora che nei contenuti, la grande novità di questo libro di critica letteraria, di intervento sulla scrittura delle donne, stava certo nella scelta dei nomi, che rendevano conto di conoscenze profonde e ardite di tutto il Novecento italiano ed europeo, ma soprattutto, come dicevo, nella composizione, che presentava, immediatamente, due segnali fortissimi nel suo indice e nei suoi interludi. Provate e riguardarli, a seguirne il senso, e vedrete sorgere una strana figurazione che porta inciso, nel nome delle altre, il proprio nome, il nome proprio. Inverando allo spasimo il bellissimo titolo, in debito con una poesia di Adrienne Rich. E illuminando un percorso di formazione personale e collettiva restituita attraverso l’invenzione di un’autobiografia politica e letteraria decisamente imprevista. Questo effetto mi era chiaro anche negli anni Novanta (benché non avessi così chiaro il “come” era ottenuto), e per questo ho sempre considerato questo libro di Grazia Livi e Da una stanza all’altra, ristampato dalla Tartaruga l’anno seguente, come caposaldi di un nuovo sguardo sulla letteratura, perché strappavano la critica alla neutralità invalidante delle accademie e liberavano la testa da pensieri consumati e canoni esausti. Aiutando quante di noi si avvicinavano per studio, mestiere, o passione alla critica letteraria a non avere paura di seguire il proprio fiuto, le proprie inclinazioni di piacere, a costruire insomma con lo stesso coraggio quella genealogia femminile cui ci chiamava, già nel 1929, in modo inequivocabile, polemico, ironico e magistrale, Virginia Woolf nella Stanza tutta per sé. Restando “intere”, ovvero non scisse fra corpo e mente, ragione e sentimento, logica ed empatia, imparando a ricomporre alla luce della differenza, quella voragine tra soggetto e oggetto che il pensiero maschile aveva consegnato al mondo come verità assoluta.

Il tempo, gli anni che ci separano dal 1991 hanno dimostrato che non è così e se ne sono accorti in tanti, ma allora non era affatto scontato sfidare la facile accusa di arbitrarietà, irrilevanza, insignificanza. Grazia Livi la ho fatto in assoluta fedeltà al suo stile, di donna e di scrittrice, e questo è uno dei punti di forza del libro, sì che il nitore della sua scrittura è perfettamente mantenuto anche nella densa piegatura saggistico-critica.

La sua mente, come nella narrativa, è abitata dai suoi fantasmi, che qui sono personagge in dialogo fitto e diretto con l’autrice, in un teatro di voci che si fa coro di parole sensate nel disegnare il loro ritratto. Anche questa era una scelta coraggiosa, il ritratto, il profilo critico si presenta nel libro come schizzo, brevissimo a volte, ma perfetto e sufficiente a restituirci il corpo vivo di ognuna, senza eliminare né la grazia né la pesantezza di questa incarnazione. Per nulla “oggettivo” insomma, se penso a come, ai tempi, si presentavano sugli scaffali delle librerie i “profili critici” di scrittori, filosofi e pensatori, tutti solo pura anima e puro intelletto. Un ritratto che affiori da un dialogo autentico è invece sporco della vita, dolente e vera e felice, che lega insieme e insieme mostra lo sguardo differente che ormai si posa sul mondo; questo insegna sapientemente Grazia Livi, sporgendosi sull’impensato in compagnia di grandi donne, insegna a varcare quella “distanza misurabile in silenzi” (Ingeborg Bachmann) che apre il primo degli exergo, proprio Inizio 1947.

Dal 1947 al 1990 si snodano i nomi, i ritratti, le riflessioni, le paure, le scoperte, le allegrie; Grazia conosce e riconosce le altre, quelle che l’hanno preceduta e segnata fino a farla essere quel che ha “deciso” di essere, con la stessa urgenza che aveva portato Simone de Beauvoir a decidere di “dire la verità” inseguendo lo “stile della ragione”, per regalare al mondo il suo scandaloso e ormai classico Secondo sesso. Ma da questo inizio comincia anche la strana storia raccontata dall’indice, scandito secondo date che costruiscono una cronologia speciale, fatta di scarti, rotture, salti e continuità interne, che è insieme personale e collettiva; lei cresce a ogni incontro, lo sbalza e se ne ritrae con il dono sempre rinnovato di una maggiore consapevolezza di sé.

Per questo, mi pare, la scansione si agglutina attorno a parole chiave, che articolano il loro senso segreto affiancando il nome o la data (le avete già lette tutte, nello splendore della loro precisione: La decisione, L’ombra, Il grembo, L’unica, La confidente, L’assente…), e spartisce le citazioni come interludi che incalzano, variano, commentano, legano, slegano, rilavorano le parole prima e dopo il loro senso, aprendole ad altri sensi possibili. Non sono innocenti insomma, anzi, hanno il sapore di quelle di Benjamin, che “balzano fuori d’improvviso e strappano l’assenso al lettore ozioso” e, cosa ancora più importante, danno luogo al montaggio di materiali che possono ora affiorare da un intero scrigno di pensabilità.


20-01-2015

 

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