Una memoria scritta nella nebbia
di Lea Melandri


 

Al titolo del romanzo di Giovanna Grignaffini, Però un paese ci vuole. Storia di nebbie e di contentezza, manca la proposizione iniziale, Bisogna andarsene, che ne completa il senso, e che compare soltanto nelle pagine interne.
Si potrebbe dire, in altre parole, che per riuscire a volgere lo sguardo verso il proprio passato – un paese, una famiglia, una madre, una generazione, un catalogo di canzoni –, è necessario averne preso congedo.
C’è chi, senza essere partito, «non è già più là», e altri che, pur essendosi allontanati dal luogo d’origine, non sono mai usciti dalla sua «rete vischiosa, magmatica, fluttuante», dalla sua penombra protettiva e al medesimo tempo minacciosa.
Si può tornare solo in «un paese che non c’è mai stato», permettendo alla scrittura di tessere una storia «tutta falsa e piena di dettagli tutti veri», sopportando che l’inizio coincida con la fine, con lo stesso foglio bianco su cui, in anni lontani la bambina, e oggi la donna, hanno tracciato l’incipit di una storia che «sarebbe accaduta come necessaria conseguenza di quella frase: “Fontanellato è un
ridente paesino annegato nella Bassa parmense”».
Se è generale tendenza dei romanzieri voler imitare o rappresentare la realtà, Giovanna sembra preoccupata, al contrario, di scoraggiare lettori e lettrici da qualsiasi illusione mimetica e curiosità autobiografica, e per questo spinge dichiaratamente il viaggio della memoria dentro le potenzialità creative e i procedimenti retorici della scrittura.
«Verso le due cominciai a osservare con attenzione la mia Olivetti Lettera 24. I suoi tasti neri erano perfetti nella loro disposizione e semplicità. Allineavano e contenevano tutto il possibile. Ogni singola possibilità e tutte le possibili combinazioni. Ogni dettaglio vero e ogni falsità».
«Quando le trovai rimasi a lungo sorpresa e incantata dalla loro fragilità, onnipotenza e discrezione. Stavano in prima fila, sotto il 3. Erano le virgolette. Due semplici tratti brevi che non significavano nulla, non producevano suono alcuno, ma parlavano di una distanza. Allontanavano da sé, da me, e da ogni cosa che si agitava intorno, tutto quanto esse erano in grado di contenere».
All’interno del testo saranno i corsivi – per titoli di film, canzoni, luoghi comuni, massime celebri – a dire che, dietro la percezione di unicità e autenticità che ogni singolo ha di sé, ci sono sedimenti di linguaggi e storie comuni, per cui è preferibile «il rispetto per chi ha già detto e il risparmio psichico per chi non saprebbe comunque dire meglio». Questa regola, insieme ad altre massime che contengono la chiave interpretativa del romanzo, è enunciata da Carlo, il personaggio che, non avendo mai abbandonato il paese, ne incarna il fascino e la pericolosità: la persistenza sulla soglia che separa la piazza dalla casa, la compagnia degli amici da quella di una madre, la lucidità dell’osservatore e la “pigrizia” di chi non ha potuto abbandonarsi alla passione collettiva degli anni ’60, rincorrere la realizzazione di un sogno, rischiare che i suoi talenti, una volta mostrati, perdessero il loro splendore.
«Commentatore distratto» di una generazione che, pur avendo il paese come «unica misura del mondo», aveva cominciato ad assorbire con gli occhi e gli orecchi i segnali di cambiamento che venivano «da ogni altrove», Carlo è figura emblematica dell’immobilità inquieta, contraddittoria, che possono rappresentare il Paese, la famiglia, «quel mistero sublime e nefasto che è una madre», per chi è capace di maturare pensieri, sfidare luoghi comuni, giocare con la «nobile arte della conversazione», ma non vivere la vita, se non come eterno rimando «senza l’ansia del risultato».
L’ossimoro, procedimento retorico che permette di accostare parole di senso contrario, come si legge fin dalle prime pagine può avere un effetto terapeutico. Nell’economia generale del libro, verrebbe da dire che è lo stile, la figura che sostiene e alimenta la creazione di memoria, la quiete necessaria per ritornare con la scrittura a camminare, bere, raccontare, nelle vie di paese “ridente” ma annegato dalla nebbia.
Di tratti opposti e contrastanti sono fatte le abitudini: da un lato, vedono la «piccola tribù itinerante» di vite interamente  pubbliche e interconnesse “marcare” la piazza, le strade e i viali come fanno i gatti, sottoporsi a quella «gigantesca camera ottica» che è il controllo anonimo e totale del paese – quel groviglio di imperativi, divieti, richiami che trascinano le vite in «una piena del visibile»; dall’altro, contemplano l’«ottusa contentezza» di chi ha condiviso con altri un’infanzia felice e una biografia unitaria, il piacere dell’eterno ritorno come autodifesa da un’epoca dove tutto accade troppo velocemente.
Non meno ambigua e contraddittoria è la nebbia, compagna di un paese dove trecento giornate all’anno «sempre nascono e muoiono nel grigio».
«Allora ci sembrava tutto possibile. Era tutto possibile. Come nella nebbia –disse Chiara. Sì, come nella nebbia –disse Cinzia. Dentro puoi immaginarci tutto quello che vuoi (…). Nella nebbia ci si sente più soli. E si vive in un mondo piccolo, chiuso. Nella nebbia ci si sente più uniti. E tutti sono costretti a darsi la mano per camminare. Nella nebbia devi stare fermo, immobile. Perché non vedi la strada che hai davanti e, se ti muovi, vai a sbattere –disse Daniele (…) ecco che cosa è la nebbia, un insieme di minuscoli cristalli che, tutti insieme, rendono più pericolosa le strada e più buono il culatello. Che poi è la cosa più buona del mondo. Un pulviscolo fatto solo di relazioni. Un fenomeno assolutamente misterioso».
Lo stesso vuoto, che sembra fatto per essere riempito dalla conversazione ininterrotta che attraversa il romanzo – felice combinazione di pensieri filosofici, excursus poetici, alleggerimenti improvvisi, divertiti e sorprendenti, di affondi emotivi –, lo si ritrova nelle «buste gialle» che ne costituiscono l’esile trama. La lettere vuote, che seguono la protagonista, Francesca, in tutti i suoi spostamenti, controllo o materno invito al ritorno, sarebbero – come l’autrice fa dire a Carlo – «un discreto espediente narrativo», perché consentono, nel mistero che spalancano davanti agli occhi, di «fare accadere molte cose».
Un ossimoro è poi il confluire di vita e morte, inizio e fine, partenza e ritorno, disperazione e necessario sviluppo degli eventi. “Respice finem”, osserva la fine, è la scritta che campeggia nella stanza del Parmigianino, all’interno del castello di Fontanellato, ultimo luogo visitato dai protagonisti e anticipazione del suicidio di Carlo: il distacco definitivo dal paese di chi non è riuscito a lasciarlo con una partenza. «Solo la fine può spiegare l’inizio» è la massima che Carlo lascia come meditazione sulla sua morte, ma è anche il punto di vista da cui rileggere il romanzo: una scrittura che comincia il viaggio di ritorno solo quando si è consumato il congedo dallo sguardo materno che trattiene sulla soglia dell’infanzia e del luogo d’origine; una generazione, quella degli anni Sessanta, che solo nella distanza può riconoscere la sua «stralunata contentezza» nell’aver dato parola, racconto alle proprie vite, nell’aver tentato di aprirsi al nuovo che arrivava dal mondo attraverso i luoghi comuni e la poesia delle canzoni, portando in dote alla travolgente ondata rivoluzionaria del ’68 «un po’ di nebbia e un po’ di mistero» persistenti in un paese della Bassa padana.

 

Giovanna Grignaffini,
Però un paese ci vuole. Storia di nebbie e di contentezza
La Lepre Edizioni, Roma, 2012
pp.398, 18 euro

 

da Gli Altri del 14 dicembre 2012

 

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