I consultori, centri di laicità che danno fastidio

di Bianca La Monica
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Angelica Kauffman


Non stupisce che lo strumento prescelto per ostacolare il funzionamento della legge 194 sia, oltre che una singolare inchiesta governativa, la modifica legislativa della disciplina delle funzioni e dei compiti dei consultori familiari. Perché la disciplina dei consultori, istituiti con legge (29/7/1975, n.405), appare nell’attuale contesto culturale di straordinaria e insopportabile laicità: la legge, favorita dal movimento per la legalizzazione dell’aborto e in generale dall’esito del referendum per il divorzio, fu fortemente voluta dal movimento delle donne, anche sull’onda dell’esperienza dei centri per la salute, diffusi all’inizio degli anni ‘70 e gestiti dalle donne come luoghi di confronto sui temi della sessualità.


Secondo la legge 405/75, i consultori, in tema di procreazione, svolgono attività di assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla "maternità ed alla paternità responsabile" e provvedono anche alla somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile "nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti". La stessa legge 194 pone a carico dei consultori compiti informativi sui diritti spettanti alla donna in gravidanza e compiti di supporto. E considera la possibilità per i consultori di avvalersi della collaborazione di associazioni del volontariato solo per l’aiuto alla maternità difficile “dopo la nascita”, senza allusioni a forzature psicologiche sulla donna nel momento in cui sta decidendo di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza.


Insomma, gli utenti dei consultori sono considerati dalla legge “soggetti”, liberi e responsabili.
Il tentativo di modificare la legge sui consultori non è nuovo (va ricordata la proposta di legge di iniziativa popolare del Movimento per la vita del 1977 che voleva affiancare ai consultori i “Centri di accoglienza e difesa della vita umana), ma oggi il terreno è particolarmente fertile, grazie alle continue interferenze delle gerarchie cattoliche, al clima politico ed alla legge fecondazione assistita (legge 40).


Risale a pochi mesi dopo l’approvazione di questa normativa una proposta che, al dichiarato fine della “tutela sociale della genitorialità e del concepito”, prevede, tra l’altro, il sostegno psicologico delle donne durante la riflessione sulla prosecuzione o meno della gravidanza e la possibilità per i consultori di avvalersi della collaborazione delle associazioni a difesa della vita fin dal suo concepimento (proposta n.5206, assegnata nel 2004 alla commissione Affari sociali della Camera). Ha identico contenuto la proposta presentata alla Camera in data 23 novembre 2005: forse era un giorno particolarmente ispirato perché proprio in quella data è stata presentata, nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio, dal Forum delle famiglie e dal Movimento per la vita un “progetto cattolico di riforma dei consultori”.

Non sappiamo se, quando e da chi, a questo progetto, che ha attualmente solo valore politico, verrà data veste giuridica, ma temiamo che col suo sconcertante contenuto dovremo confrontarci.
La proposta, intanto, costituisce un vero e proprio manifesto dell’etica e del familismo cattolico: la famiglia (naturalmente quella fondata sul matrimonio), cui lo Stato riconosce valore primario, viene definita come "istituzione finalizzata al servizio della vita", sicché lo Stato ne tutela la "fecondità" (art.1); i consultori familiari tutelano la vita umana "fin dal concepimento" (art.9); il medico cui si rivolga una donna che intende ricorrere all’interruzione di gravidanza ne informa immediatamente il consultorio che prende contatto con la donna la quale ha il "dovere morale" di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l’hanno indotta a chiedere l’interruzione della gravidanza (art.10).

Insieme alla tendenza a invasioni autoritarie nel privato (nella proposta vi sono anche spunti preoccupanti in ordine al divorzio), risulta ulteriormente rafforzato il passaggio, già attuato dalla legge 40, dalla tutela della salute della donna (riconosciuta dalla 194) alla tutela del concepito, portatore di una sorta di diritto a nascere quasi contrapposto ai diritti della madre, come se madre e concepito non fossero uniti in inscindibile relazione. Il riconoscimento di questa nuova soggettività all’embrione-concepito, con cinico realismo, non arretra dinanzi a nulla.

Il riferimento è al parere, di recente espresso dal Comitato nazionale di bioetica, favorevole alla adottabilità - anche da parte di donne single - degli embrioni attualmente in stato di oggettivo abbandono (quelli prodotti prima della legge 40, quando non vi era obbligo di produrne non più di tre).

Ricordiamo bene le argomentazioni utilizzate dai sostenitori della legge 40 per impedire l’accesso alla fecondazione assistita alle single o per vietare la fecondazione eterologa: la tutela del nascituro, esposto a gravissime conseguenze se fosse stato privato della doppia figura genitoriale o se non fosse stato figlio biologico dei genitori. Ma ogni timore svanisce di fronte all’embrione abbandonato custodito nella Biobanca milanese perché il suo diritto a nascere "costituisce una priorità rispetto ad ogni altro valore" (così il presidente del Comitato, D’Agostino, in un’intervista). Il poco rassicurante principio che è alla base del parere giustifica molti dubbi sul fatto che si aprano spiragli per le single: non siamo di fronte al riconoscimento di spazi di autodeterminazione, ma, ancora una volta, all’intollerabile idea che il corpo della donna sia contenitore-riproduttore della specie.



*Collettivo Donne Diritto

 questo articolo è apparso su Liberazione del 18 dicembre 2005