Lea Melandri I corpi
di Lea Meandri

Parlare di un protagonismo del corpo significa, per un certo verso, riconoscere l'ovvietà. Se la storia documentata non bastasse, le testimonianze di arte figurativa che emergono da epoche remote, come i dipinti del Paleolitico appena ritrovati nelle Grotte di Fumane, vicino a Verona, dicono che l'uomo, dal momento in cui è stato in grado di pensarsi e rappresentarsi, è il corpo che ha dipinto, scolpito, indagato con mezzi sempre più raffinati. Né poteva essere altrimenti: il corpo è ciò che ci è più proprio, è la nostra esistenza nel mondo. Eppure non c'è dubbio che questa componente indisgiungibile del nostro essere ha preso una rilevanza in sé, come se fosse altro da noi, straniero pur nella sua estrema vicinanza. “Il corpo nasce, invecchia e muore -scrive Rossana Rossanda (Lapis, 1990)- e noi nasciamo, invecchiamo con lui, nostro malgrado; è lui, il corpo, che ci trascina nei suoi ritmi, programmi, disastri”.
Se è arrivata fino a noi la convinzione che si tratti di un luogo misterioso e muto, è perché la verità di cui appare inequivocabile portatore ci inquieta, tanto da costringerci ad alzare barriere, confini, occultamenti di ogni genere. Il corpo, come è stato detto da molti, è il prodotto che la nostra cultura ha più “depurato, raffinato, montato e rimontato”, nel tentativo di liberarlo dai limiti che porta inscritti nella sua “opaca, terrosa” consistenza. La nudità, riscoperta ed esaltata dalla pubblicità e dalla moda come il ritorno a un “io” più vero e più libero, assomiglia essa stessa a un involucro: la pelle su cui vanno a modellarsi tutti gli altri rivestimenti. Oggi il corpo è mostrato in ogni suo aspetto: scomparso il pudore che faceva da velo all'erotismo e alla sessualità, cadute le riserve morali che potrebbero opporsi a una illimitata sperimentazione nella scienza del vivente, vinti gli ostacoli alla circolazione delle notizie e delle immagini da un capo all'altro del pianeta. Di questa sovraesposizione abbiamo avuto un saggio negli ultimi mesi: dal concorso per Miss Italia alle sfilate di moda, dalle prime prove di eugenetica a Minneapolis, il bambino nato in provetta per donare cellule sane alla sorella, alle sequenze ormai abituali di corpi violati, denutriti, devastati dalla guerra, dalla fame, dalle malattie. Ma, paradossalmente, sono proprio i volti teatralmente accesi e contrastanti con cui la fisicità viene allo scoperto a rivelare la zona d'ombra che si lascia dietro, il cumulo di esperienze che non possono più essere dette, la cancellazione che ancora subiscono i corpi e gli individui. Liberato da vincoli etici, ristrettezze economiche, timori sociali, il desiderio fa proprie le logiche del potere e della sperimentazione, attratto, qualunque sia il suo oggetto, da un unico miraggio: “avere un corpo nuovo”, svincolato dai suoi limiti biologici, dalla storia e dall'immaginario che gli ha dato forma. La “riappropriazione del corpo”, intesa come cura di sé, insediamento consapevole nell'interezza del proprio essere, sembra portare a esiti opposti: oggettivazione, mercificazione, smembramento, identificazione con un modello, odio per la corporeità, via libera a tutte le manipolazioni: dall'ibrido uomo-macchina della cultura cyborg al “nuovo Adamo” nato nei laboratori del Minnesota, “capostipite di una nuova razza umana, selezionata geneticamente” (La Repubblica, 5 ottobre 2000), al volto perfetto di una Miss virtuale, ottenuto attraverso un referendum di Internet dalla combinazione di pezzi anatomici di precedenti reginette. La costruzione del modello, destinato a respingere fuori scena i corpi particolari, con le loro imperfezioni, si applica indifferentemente alla bellezza, alla salute, alla riproduzione, e comporta in ogni caso il duplice movimento del frammentare e del ricomporre, decostruire e rimontare. Ma è soprattutto la moda, arte combinatoria per eccellenza, a offrire oggi campo libero all'onnipotenza del desiderio. Nelle testimonianze degli stilisti le contraddizioni saltano, corpi descritti pezzo a pezzo -“occhi luminosi, colli affusolati, caviglie sottili, armonia delle proporzioni”- si pretende che siano, al contempo, espressione di ciò che più sfugge alla misurazione: carattere, intelligenza, personalità. (Moda & pudore, supplemento di La Repubblica, 30 settembre 2000). Sulla strada che porta a una progressiva smaterializzazione dei corpi, la sensualità, la forza evocativa , il potere di far sognare, sembrano già essersi spostati altrove: nella voce suadente della “prima personal virtual assistant” (Blu), nei vestiti di Armani esposti al Museo Guggenheim di New York, “sospesi nel vuoto”, divenuti essi stessi, come ha detto il loro creatore, “personaggi di un racconto che ognuno può immaginare”. Caduti antichi tabù, la frattura che c'è sempre stata, tra le persone reali e i modelli che di volta in volta si sono date, può disporre oggi di potenti mezzi interessati ad amplificarla: il mercato, la pubblicità, la cultura di massa. La sorte toccata alla natura non poteva risparmiare il luogo ad essa imparentato in cui cresce l'essere umano, con la differenza che ciò che viene espulso e marginalizzato in questo caso non è solo il sostrato biologico della vita, ma il patrimonio psichico e culturale che passa e si trasmette attraverso i corpi. Ma come tutto ciò che non viene visto, e quindi sottratto alla possibilità del cambiamento, anche la storia che sorregge la civiltà in cui viviamo finisce per diventare, come gli eventi naturali, fattore imprevedibile di disastri. Così, mentre ci si affanna a prevenire le malattie e l'invecchiamento, le cause di morte si moltiplicano e vanno a colpire sempre più spesso la popolazione giovane.
Su quel palcoscenico spalancato al mondo che sono i mezzi di comunicazione passano oggi i corpi centellinati e infinitamente perfettibili delle società ricche, così come le concentrazioni informi di carni mutilate, prostituite, infette che vengono dall'altra faccia della terra. Il 6 ottobre scorso, i cadaveri di sei profughi kurdi, morti asfissiati tra balle di cotone nel camion che doveva portarli clandestinamente in Italia, sono stati gettati sul bordo di una strada, nei pressi di Foggia, vicino a una discarica. “Rifiuti organici”, titolava Il Manifesto in prima pagina, o forse soltanto corpi spudoratamente nudi per la verità che esponevano alla luce del sole, sulla pubblica via, agli occhi di una civiltà che preferisce nascondere i suoi disastri e che potrebbe tuttavia, di fronte a immagini così drammatiche, trovare la forza di ripensarsi e darsi una speranza di cambiamento.