da
D la Repubblica delle Donne del 5-03-05
Insicurezza
e utopia
Come lo sguardo del "diverso" può cambiare la vita
di
Lea Melandri

Donatella
Bassanesi
Se la "minaccia
di disastro", di cui parlano Miguel Benasayag e Gérard
Schmit, gli autori del libro L'epoca delle passioni tristi (Feltrinelli
2004) interessa ormai tutto il pianeta, l'insicurezza come umore esistenziale
diffuso parla soprattutto dell'Occidente: un benessere insidiato dalla
povertà, "valori" universali accerchiati da culture "diverse",
individualismo crescente, tecnologie incapaci di far fronte agli imprevisti
della natura, "mali" che affiorano dietro la maschera della
perfetta salute. Le immagini ricorrenti nelle analisi sociologiche per
descrivere uno stato di incontrollabile mutevolezza sono quelle dei "liquidi",
che "non conservano mai a lungo la propria forma", o dell' "albero"
che può flettersi e riprendere subito dopo la posizione di partenza.
La "modernità liquida" di Zygmunt Bauman, l' "uomo
flessibile" di Richard Sennett, o il San Precario dei Disobbedienti,
sono le nuove icone di una civiltà che sente vacillare le sue fondamenta,
e che ancora non sa se lasciarsi avvolgere dalla "notte apocalittica"
o disporsi verso una trasformazione "epocale" del proprio modo
di vivere.
Nel momento in cui il tempo sembra fermarsi per la perdita del suo orizzonte
futuro, si fa strada, paradossalmente, quella forza insopprimibile nell'esperienza
umana che è l'utopia, sospensione di luoghi e tempi "dati",
che apre la strada a tutto ciò che è ancora "possibile".
E' come se aver intravisto la fine della propria storia e della propria
cultura potesse essere la condizione per riconoscere che altre e molteplici
sono le alternative concesse alla specie umana. Questo spiega perché
la"società del rischio" muova, al medesimo tempo, paure
e speranze, impotenza e dinamismo, nostalgie comunitarie e potenziamento
dell'autonomia del singolo.
Nonostante la frequenza quasi quotidiana di sondaggi e statistiche che
misurano la febbre del nostro tempo, allineando secondo un ordine di maggiore
o minore grandezza le paure ricorrenti, resta il dubbio che l'imbarbarimento
di una civiltà esaurita possa essere la premessa per un suo ulteriore
sviluppo. A farlo credere, o soltanto sperare, è l'aspetto inedito,
per profondità ed estensione, del terremoto che ha aperto crepe
insanabili nelle abitudini, nelle certezze materiali e nelle convinzioni
morali di popoli sicuri di essere centro e misura del mondo, regolatori
del caos, della natura e delle passioni umane. Di due "catastrofi",
come l'attentato alle Torri Gemelle di New York, l'11 settembre 2001,
e lo tsunami, nel Sud Est asiatico, il 26 dicembre 2004, si è detto
che "niente poteva più essere come prima", come se una
faglia gigantesca si fosse aperta tra la ragione storica e le "viscere"
inesplorate che si porta dentro. Ma se dallo scenario mondiale si passa
alla drammaturgia minuta e meno appariscente delle "minacce"
quotidiane -precarietà del lavoro, microcriminalità, scontro
di culture, disastri climatici, ecc.-, non è difficile accorgersi
che a scuotere le certezze è, in tutti i casi, un capovolgimento
imprevisto di prospettiva, l'insorgere di uno sguardo altro, indagatore
e inquietante.
Le fonti "esterne" delle ansie diffuse oggi nel tessuto sociale
non mancano di descrizioni dettagliate, dalla globalizzazione economica
alla ripresa dei flussi migratori, dal deterioramento del clima e dell'ambiente
alla crisi di legami sociali consolidati, dalla guerra e dal terrorismo
alle morti silenziose per fame, depressione e malattia. Più difficile
è fermare l'attenzione su un "nemico" che è, per
altri versi, famigliare, "interno", anche se finora ignorato,
alle nostre vite e alle nostre società. Come nelle eruzioni vulcaniche,
a venire in superficie è il magma delle reazioni incontrollate
che la storia produce nel momento in cui separa da sé tutto ciò
che la ostacola e la contraddice in una fase del suo sviluppo.
Per la forte valenza simbolica che avevano, sia le Torri Gemelle, crocevia
degli scambi commerciali del mondo, sia i paradisi marini del Sud Est
asiatico, meta del turismo internazionale, è diventata trasparente
anche la mano che li ha colpiti, quell'alterità, umana in un caso,
naturale nell'altro, che si era creduto di poter rendere inoffensiva con
il dominio e l'assimilazione. I mondi e le culture che finora sono stati
costretti a misurare le loro possibilità di sopravivenza e la loro
"diversità" sul modello unico dell'Occidente, sono diventati,
insieme alle forze naturali che hanno sconvolto le spiagge dell'Indonesia,
delle presenze che nessuna ragione e nessun sonno potranno più
allontanare. La scelta di farne i fantasmi di un'Apocalisse incombente
o invece l'occasione per riconoscere squilibri, aggressioni fatte e subite,
fragilità e limiti dell'agire umano, non potranno impedire a quel
"terzo occhio" di orientare in modo nuovo la nostra visione
delle cose.
Uno spostamento analogo sembra essere avvenuto nella vita delle persone,
nelle relazioni sociali, nelle normali abitudini quotidiane. A disorientare
e scuotere certezze divenute quasi una "seconda natura", è
lo spettro di una povertà non più riducibile al destino
di una classe sociale, di un "femminile" che interroga le "differenze"
storiche tra i sessi, di una singolarità che si libera di lacci
e soggezioni antiche. Con le categorie interpretative che vanno sotto
i nomi di "precarietà", "mobilità",
"rischio", "crisi", "insicurezza", vengono
elencate prioritariamente le conseguenze di un modello di sviluppo -produzione
e consumo-, ormai fine a se stesso, con un corteo crescente di guerre,
migrazioni, nuove schiavitù e disastri ecologici. Ma se la dimensione
economica non fosse diventata l'unità di misura del vivere umano,
e la "flessibilità" del lavoro l'unico indicatore delle
ansie sociali, non sarebbe difficile accorgersi che, a incrinare un terreno
che sembrava compatto, è il sottosuolo che si è sempre portato
dentro a sua insaputa, quel luogo altro, diverso, destinato a tacere per
sempre, che oggi irrompe sulla scena del mondo, creando figure, passioni,
legami nuovi e imprevisti tra culture differenti, ma anche tra uomo e
donna, individuo e collettività, salute e malattia, libertà
e dipendenza, giovinezza e vecchiaia, vita e morte.
Saltano confini che sembravano tracciati una volta per sempre -privato/pubblico,
barbarie/civiltà, reale/artificiale, ecc.-, false "naturalità,
come quella che ha diviso violentemente il destino dei sessi, lasciando
la donna a garantire la continuità della specie e l'uomo a "progredire"
da solo nel mondo; irrompe, nel teatro che è sempre stato della
razionalità vigilante -del potere, delle sue istituzioni e dei
suoi linguaggi-, il corpo, con la sua memoria arcaica, le sue leggi, le
sue ferite, la sua manipolabilità, ma anche la sua resistenza alle
mire onnipotenti del pensiero. Del corpo parla oggi la consapevolezza
che l'individuo, maschio e femmina, ha di se stesso, quando tenta di piegarlo
a martellanti pratiche salutistiche, quando ne riconosce la fragilità
e il termine, quando interroga ansioso le promesse della scienza e quando,
al contrario, si dispone ad assecondare ritmi più "naturali",
quando si aggrappa a un modello di eterna giovinezza e quando chiede che
sia data cittadinanza a parenti indesiderati, come i malati, gli anziani,
i disabili. Con la corporeità hanno a che fare anche le ansie che
si associano a un colore diverso della pelle, a un taglio diverso degli
occhi, a un abbigliamento che segnali povertà o appartenenza a
culture diverse.
Sono queste "interferenze" che assediano il quotidiano, da uno
schermo televisivo al percorso che si fa a piedi o in autobus, a rinfocolare
"identità" che nessuno si era mai accorto di avere e
che ora si è tentati di impugnare come un'arma di difesa. L'insorgere
di nuove "preoccupazioni" non è necessariamente solo
ansia, impotenza, fatalismo, arroccamento nel proprio utile. L'arretramento
che sembra oggi invertire il cammino di un progresso assicurato, potrebbe
essere visto, come già scriveva Elvio Fachinelli nel suo
libro Il bambino dalle uova d'oro (Feltrinelli 1974) come "un'astuzia
storica di Eros" che, "proprio per salvare la civiltà
ricorre a una nuova barbarie, che è premessa per il suo ulteriore
sviluppo". Come è già successo nel corso della storia,
"questa barbarie proviene dall'esterno della civiltà esausta,
sotto forma di nuove masse alle quali risultano incomprensibili le sue
sottili operazioni".
Nella situazione attuale, questa irruzione di alterità non viene
soltanto dai mondi che l'Occidente ha colonizzato, asservito ai suoi modelli,
e a cui oggi è costretto ad aprire le porte, ma da un "ordine"
politico, economico, sessuale e morale, che si va sfaldando per lasciare
posto a nuovi equilibri, nuove forme di convivenza, nuovi saperi e linguaggi.
Ma per inserire l'esigenza del diverso, per cambiare l'idea di ciò
che è "reale" e "possibile", è necessario
non aver paura di analizzare la "profondità del male"
e cogliere nel medesimo tempo i segnali contraddittori che vengono dai
peggiori disastri. Non c'è dubbio che lo tsunami, sia pure dal
versante di una legge fisica che sfugge al controllo dell'uomo e che lascia
perciò aperta l'imprevedibilità della morte, interroga rapporti
che si sono costruiti nella storia: scambi ineguali, popolazioni povere
che offrono i loro mari al godimento di occidentali privilegiati, promessa
di sviluppo da parte dei potenti del mondo in cambio dello sfruttamento
di risorse umane e naturali. Tra le macerie che si è lasciato dietro
il maremoto, non si è persa solo la possibilità di distinguere
i corpi dei turisti e dei locali, ma anche la linea di demarcazione inconsapevole
che ha portato una parte del mondo ad arrogarsi poteri, valori, condizioni
di superiorità sull'altra. Nuove paure e nuove consapevolezze si
fanno strada insieme, producono arretramenti e, nel medesimo tempo, la
scoperta di forme inedite di solidarietà. Soprattutto aprono la
strada alla prospettiva che si possa andare "alle radici dell'umano",
al di là di quelle "differenze" che nel corso della storia
hanno impedito di pensarsi appartenenti a un comune destino.
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