IMMACOLATA
Una storia di immigrazione ed emarginazione nella 'Milano da bere'

di Tiziana Tobaldi


Kathe Kollwitz

Il contesto nel quale viviamo non sempre include donne che hanno avuti percorsi di vita segnati quotidianamente dalla sofferenza, dal disagio personale e sociale, dalla miseria e dalla degradazione. Conoscere le loro storie, come questa che è rigorosamente vera, ci può a volte avvicinare ad una più profonda comprensione di noi stesse.

Immacolata, la chiamerò così, è nata a Palermo nel 1952. Arriva a Milano nel 1975 da sola e con tre figli: uno appena nato, uno di tre anni e la più grande di sei; è in attesa di un quarto.

Appena arrivata va ad abitare con i suoi genitori ed i fratelli già immigrati a Milano in una casa di proprietà del Comune, in un quartiere periferico ma con un ricco tessuto sociale. In questa casa si trovano a convivere insieme dodici persone. Immacolata inizia a lavorare saltuariamente come collaboratrice domestica e questa sarà l’unica attività che riuscirà a svolgere sino ad oggi.

Le sue condizioni socio-economiche appaiono ben presto precarie, tanto che gli assistenti sociali di zona sono spinti ad intervenire sin dagli anni ’80.

Nel 1983, poiché la coabitazione è diventata impossibile, occupa con i figli un alloggio popolare, sempre di proprietà del Comune di Milano, di 40 mq., nel quale abita tuttora, ubicato vicino a quello dei suoi genitori.

Nello stesso anno si trasferisce a Milano anche il marito di Immacolata, rimasto a Palermo sino ad allora, e va ad abitare con la moglie ed i figli. Nel 1989 nasce un'altra figlia.

Nel 1991 Immacolata si separa dal marito, che torna a Palermo abbandonandola di fatto da sola con i cinque figli e che, come è drammaticamente ovvio in una storia come questa, non le manderà mai un soldo per il mantenimento dei ragazzi. La prima figlia, che è diventata nel frattempo adulta, si sposa ed esce di casa.

Immacolata non riesce a versare alcun canone d’affitto perché il lavoro che svolge è saltuario ed i sussidi le arrivano in modo discontinuo perciò, sempre  nel 1991, riceve la prima diffida da parte del Comune di Milano ad abbandonare l’alloggio.

Immacolata fa allora un gesto assolutamente imprevisto da parte di una donna con la sua storia: scrive. Affida alla carta il suo smarrimento, il suo dolore, ma anche la  possibilità di avere dei diritti e di rivendicarli. Prende dunque carta e penna e compila la prima di una lunga serie di lettere struggenti dove traduce letteralmente in scrittura le parole del dialetto che parla quotidianamente e con le quali racconta la sua situazione. Il Comune non le risponde.

Immacolata precipita in quei mesi in uno stato ansioso-depressivo dal quale non si riavrà più: dal 1994 è in cura presso il reparto psichiatrico di un ospedale milanese e dal 1996 è in carico al C.P.S. (Centro Psico Sociale) della sua zona, dal quale è tuttora assistita. La sua condizione psicologica si deteriorerà a tal punto nel corso degli anni che nel 2000 chiederà il riconoscimento dell’invalidità civile per patologie psichiche: le verrà  accordata con la percentuale del 50%.

Poiché il Comune di Milano continua a rimanere in silenzio rispetto alla sua situazione abitativa, nel 1994 Immacolata inoltra la richiesta di sanatoria della propria posizione di occupante e nel 1996 presenta anche  un impegno scritto a versare un canone annuo. Nello stesso 1996 il Comune comunica l’accoglimento del ricorso ed il “radicamento” (sic) di Immacolata nell’alloggio occupato. A seguito di questo avviso, però, non verrà mai emesso un regolare contratto d’affitto.

Nel 1997, improvvisamente ed ingiustificabilmente, il Comune cambia idea  e la informa dell’assegnazione di un alloggio in un altro quartiere. Immacolata ha ormai capito che di fronte alla cecità delle istituzioni la parola scritta è l’unico modo per rendersi visibile e quindi  risponde con un’altra nota manoscritta, nella quale chiede che la casa dalla quale vogliono allontanarla sia almeno destinata al figlio ed alla compagna di lui e che a lei venga assegnato un alloggio nella medesima  zona. Il Comune rigetta entrambe le richieste.

Immacolata non si dà per vinta e replica con un’ulteriore, commovente  richiesta scritta di rimanere nella zona in cui ha sempre abitato da quando è arrivata a Milano spiegando, con calligrafia e linguaggio quasi indecifrabili, che deve accudire i genitori ormai anziani (il padre è invalido al 100%)  che vivono vicino a lei e che deve essere sottoposta ad una terapia continua presso il vicino ospedale ed il C.P.S. di zona, presso il quale si reca a piedi, e che quindi le sarebbe molto difficile raggiungere se abitasse lontano. “Comune di Milano, endo che voi miavete  asegnato unaltro alloggio in unaltro quartiere putropo io soffro di depressione crisi nevose tanto che non posso andare tanto lontano dal mio quartiere perfavore vorei che voi mi capite perche voi mipotete aiutare di darmi laloggio nel stesso quartiere […]”.

Così scrive Immacolata, ma il Comune rigetta anche questa volta le sue richieste. Nel 1998, anzi, Immacolata riceve da parte del Comune, che si dimostra totalmente indifferente alle sue comunicazioni ed alla situazione rilevata dagli stessi assistenti sociali,  l’offerta di un alloggio fuori zona ed al 12° piano. Immacolata, in piena crisi fobica, rifiuta perché spaventata dall’altezza alla quale si troverebbe a vivere.

Dal 1998 Immacolata accoglie nella sua casa anche la convivente del figlio che attende un bambino, ma nel 1999 la coppia occupa un appartamento vicino.

Sempre nel 1998 un suo zio viene colpito da ictus. Poiché Immacolata è l’unica parente fisicamente autosufficiente a Milano, all’atto delle dimissioni dall’ospedale, lo accoglie in casa sua e lo accudisce per due anni fino a quando il figlio di lui non verrà dalla Sicilia a farsene carico.

Immacolata a questo punto chiede nuovamente al Comune di rimanere nel suo alloggio o che comunque le venga assegnato un altro alloggio ma idoneo ad ospitare lei e tutti i suoi familiari che con lei coabitano. “Avoi concortesia  e gentileza alla Ministrazione Ufficio Alloggi chiedo ugentimente di totere fare  il posibile se potete dami la loggio che miavete  assegnato tanto tempo fa lo chiedo perche io avendo cura di persona che vorei autare […]”

Immacolata, che sta male tanto da essere curata dalle istituzioni, aiuta, soccorre, accudisce, provvede a tutta una rete di persone che da lei a vari livelli dipendono e non si tira mai indietro, sino a chiedere casa non tanto per sé, ma per chi a lei è legato.

Il Comune di Milano rigetta la sua richiesta per l’ennesima volta; ma nel 2000, ignorando con terribile ironia le innumerevoli comunicazioni pervenutegli da Immacolata, la rileva nuovamente come occupante abusiva e le invia una seconda diffida a lasciare l’alloggio, alla quale Immacolata risponde con una delle sue instancabili quanto inutili  note.

Nello stesso anno il Comune dà infine vita all’ultimo atto della vicenda e trasmette ad Immacolata il decreto per il rilascio dell’alloggio applicando al suo caso una legge relativa agli occupanti senza titolo, anche se fin dal 1996 l’aveva dichiarata “radicata” nella casa da lei occupata, addirittura assegnandole formalmente, nel 1997, un’abitazione in un altro quartiere. A questo punto Immacolata decide di opporsi chiedendo aiuto ad un avvocato.

Il Comune giunge all’incongruenza quando, pur non avendo MAI  contestato ad Immacolata nel corso di tutti questi anni il mancato versamento dei canoni dovuti, nell’ultima diffida a lasciare l’alloggio le  comunica di essere debitrice di canoni pregressi per 42 milioni di Lire.

La situazione sconfina nel paradossale perché il Comune di Milano, che ha stabilito 8 fasce reddituali per fissare il canone a carico dei propri inquilini,  inserisce, con l’assoluta insensatezza propria degli apparati burocratici, tutti  gli occupanti senza titolo, quindi anche Immacolata, nella fascia 8°, che raggruppa i percettori di reddito massimo, non tenendo assolutamente conto  del loro reddito reale. In questo modo viene richiesto ad Immacolata un canone pari a 7-8 volte quello che sarebbe di sua spettanza, conteggiando su questa base anche gli arretrati.

Oggi vivono con lei tre figli: uno di 27 anni, disoccupato; un altro di 20 anni, disoccupato ed una bambina. Immacolata è stata assistita da saltuari contributi del Comune di Milano; dalla Provincia, da cui in tre anni ha percepito una somma complessiva di Lire 3.757.000 ed è tuttora aiutata dai gruppi di volontariato S. Vincenzo e dalla parrocchia, che le fa pervenire un pacco viveri ogni mese. Le condizioni di vita del suo nucleo familiare sono palesemente sotto la soglia di povertà. Immacolata si occupa anche dei genitori, dello zio che ora abita in un’altra casa ma sempre vicino a lei, della figlia sposata e dei nipotini.

Ogni commento mi sembra superfluo. Scorrendo le fasi della  vita di Immacolata pare di assistere ad un film d’essai o di leggere un romanzo neorealista dove la protagonista è il paradigma dell’emarginazione sociale e dello sfruttamento a livello familiare. Invece vive la sua tragedia proprio nella nostra “città da bere”, che recentemente si è ben distinta come una delle venti più costose del mondo. Storie come questa non hanno voce dai mass media, sono  solo numeri nelle statistiche ed assurgono agli onori della cronaca tutt’al più quando finiscono tragicamente.

Immacolata nell’intero corso della sua esistenza si è presa cura di tutti quelli che la circondavano: genitori, marito, figli, zio, nipotini, senza mai mettere in dubbio che questo fosse il suo compito nella vita. Ma ha anche percepito che in questo muro compatto che la circonda si potesse aprire uno spiraglio dal quale far balenare la sua voce, non certo contro i familiari, che un’atavica cultura le aveva imposto ineluttabilmente, ma contro l’amministrazione comunale, nell’immaginario di lei quasi antropomorfizzata.

Immacolata non ha accettato il sipario silenzioso che la società cala su simili vicende e sui loro protagonisti ed ha utilizzato il significante 'magico' della parola per scuotere le istituzioni dalla sordità che le caratterizza. Pur deprivata di ogni strumento culturale, in tutti questi anni ha scritto tante e tante volte, non dandosi mai per vinta, per denunciare e chiedere conto alle strutture pubbliche della loro latitanza.

Certamente  ha ricevuto in cambio solo disinteresse ed indifferenza, ma non si è mai arresa e non ha mai taciuto. E noi che le parole le analizziamo, le osserviamo, le studiamo, possiamo imparare da Immacolata come siano anche una reale risorsa di sopravvivenza.
 

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