IL RISCHIO E L'ANIMA DELL'OCCIDENTE
un Convegno a Venezia di quattro giorni

Promosso dalla Associazione Culturale-Nemus, in collaborazione con il Comune di Venezia, la Società Filosofica Italiana (Sede del veneto e Sede di Venezia), l'Associazione Culturale Esodo, si è tenuto a Venezia nel mese di maggio, al centro Culturale Candiani (Venezia-Mestre), il Convegno: Il rischio e l'anima dell'Occidente.

Programma

I giornata: Dimensioni del rischio - il rischio nell'ambiente, la scienza e le sue prerogative
Coordina: Nives De Meo. Introduce: Stefano Maso.
Interventi: Elio Canestrelli (matematica), Francesco Macaluso (geografia), Gianni Moriani (ecologia), Antonio Rusconi (ingegneria ambientale).
II giornata: Rischi dell'anima, piccole e grandi ferite - il rischio come condizione vitale
Coordina: Alberto Tacco. Introduce: Ruggero Zanin.
Interventi: Luigi Boccanegra (psicoanalisi), Angelo Favero (teologia), Nadia Lucchesi (filosofia), Enzo Rullani (economia), Gianni Tamino (biologia).
III giornata: Culture a rischio - il rischio nelle scienze umane, nella comunicazione, nell'arte
Coordina: Michele Zaggia. Introduce: Tony Toniato.
Interventi: Donatella Bassanesi (pensiero femminista), Gianfranco Bettin (sociologia), Massimo Donà (estetica), Roberto Ferrucci (giornalismo e scrittura), Gianluca Ligi (antropologia).
Seminario conclusivo: sintesi, approfondimenti, espansioni
Coordina: Laura Soave. Introduce: Alberto Madricardo.
Partecipano: Giuseppe Goisis (filosofia politica), Arnaldo Petterlini (filosofia delle religioni).

In-contro-luce
Una lettura di genere

di Donatella Bassanesi


Un arco di discipline per tentare una lettura articolata di una questione che appartiene al soggetto, proprio per l'essere il soggetto, insieme, singolarità e suddito, sottoposto, condizionato da.
Per l'ambito del pensiero-pensieri-pensare delle donne, il tracciato di due decostruzioni (che corrispondono a due figure, a due donne: Penelope e Antigone)

C'è uno scritto in cui Hanna Arendt prende il pescatore di perle come figura di un certo pensare. Lo chiama pensare poeticamente, per una concretezza materica che si distanzia dalle rarefazioni filosofiche.
Hanna Arendt lo riferisce a Walter Benjamin, ma per essere, frequentemente, i nostri pensieri, fondati su decostruzioni di stereotipi, per essere attraversati da contraddizioni, materiali magmatici da cui emergono, a volte, perle, è possibile ritrovare qualche assonanza.

Pensare poeticamente. "Questo pensiero, nutrito dell'oggi, lavora con i 'frammenti di pensiero' che può strappare al passato e raccogliere intorno a sé. Come il pescatore di perle che arriva sul fondo del mare non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per rompere staccando nella profondità le cose preziose e rare, perle e coralli, e per riportarne frammenti alla superficie del giorno, esso si immerge nelle profondità del passato non per richiamarlo in vita così come era e per aiutare il rinnovamento di epoche già consumate. Quello che guida questo pensiero è la convinzione che il mondo vivente ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione sia insieme anche un processo di cristallizzazione; che nella 'protezione del mare' - nello stesso elemento non storico cui deve cedere tutto quanto si è compiuto nella storia - nascono nuove forme e formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono e aspettano solo il pescatore di perle che le riporti alla luce: come 'frammenti di pensiero', come frammenti o anche come eterni 'fenomeni originari'" (H. Arendt, Il futuro alle spalle, Bologna, 1981).

La decisione di rischiare

La "decisione originaria di esporsi e di arrischiarsi è quella che possiamo definire come rischio esistenziale, quel rischio cioè essenzialmente appartenente al soggetto in quanto consente al soggetto di essere appunto soggetto che esiste come soggetto: insomma, più radicalmente, è il rischio 'essenziale'" (S. Maso, Rischio, Venezia, 2003).

Io rischio. Deriva da una decisione, colloca il soggetto tra intenzione e caso.
Rischiando, si intende modificare la realtà. Per fare questo ci si gioca qualcosa per raggiungere qualcosa d'altro. Uno scambio, ma non di equivalenze. Trasgressivo. Apre uno scontro tra volontà (desiderio) e necessità (realtà data), ponendo il caso al centro.
Una trasgressione ha rotto l'equilibrio della simmetria. Ha modificato "il contesto di riferimento", ha stabilito una "differenza tra il prima e il dopo", ha prodotto "una diversione, rispetto al ritmo dell'azione" (S. Maso, cit.).

Il soggetto sa di entrare in un movimento prodotto da asimmetria, che è tensione vitale, "eccentricità del pensiero a se medesimo destabilizzante". Che è apertura all'altro, "capacità di rivelazione del discorso e dell'azione (…) quando si è con gli altri" (H. Arendt, La vita della mente, Bologna, 1987).

Ma il soggetto non sa esattamente cosa rischia nel momento in cui rischia.
Poiché il rischio (che è parte essenziale dell'azione, e dell'iniziare) non è possibile misurarlo prima. E' possibile misurarlo dopo: dalla prospettiva del pericolo (dalla fine perciò, quando si è perduta gran parte della percezione del rischio ed è rimasta quella del pericolo, sopraggiunto o evitato).
Possiamo pensare, dunque, che ci sia - tra rischio e pericolo - una forma di opposizione. E quindi, una sorta di 'consanguineità'.

Così sembra di vedere un gioco di opposizioni, un luogo dell'essere in cui si affrontano rischio, pericolo, paura (paura che deriva dal rischio e dal pericolo, ma non ne è la misura), coraggio, sicurezze (che attenuano le paure, riducono i pericoli, bilanciano i rischi).
Se fosse un gioco di scacchi, la 'mossa', il movimento rischioso, per il suo aspetto spiazzante, sarebbe la mossa del cavallo, che cambia il gioco.

L'azzardo di Antigone

 

Antigone è la tragedia che conclude il ciclo di Edipo, ma Sofocle la scrive per prima (nel 442). Procedendo a ritroso, indica Antigone interprete, segnale ultimo. Così ritorna ne La tomba di Antigone di Maria Zambrano (M. Zambrano, La tomba di Antigone, Milano, 1995).
Antigone e la sorella Ismene, giocatrici: "Era da giocarsi, da giocare, il nostro gioco interminabile", "il nostro segreto" (e il segreto, lo sappiamo, vale per coloro che unisce),"non è cosa da dirsi", "era da farsi" (ibid. p. 75).

Delira Antigone, lei che perdeva al gioco: "Io sono passata sulla riga e l'ho oltrepassata, l'ho di nuovo passata e ripassata, andando e venendo dalla terra proibita" (ibid. p. 76).
Ma trapassando, lei "si conduce più in là al di sopra di se stessa" (ibid. p.62).
Perché "nel momento in cui li raggiunge, infatti, la morte occulta certi 'esseri' e altri ne rivela rivelando l'inestinguibile della vita" (ibid. p. 60).

Così Antigone che ha inscritto nel suo nome il senso (è anti-genos: da lei non nascerà direttamente una nuova Antigone; ed è anti-agon: il conflitto non si risolve con l'eliminazione dell'altro), interrompendo l'ordine di Creonte non è l'opposto simmetrico della città. Rovescia le regole del gioco, sottopone quell'ordine al nostro giudizio, lancia il suo avvertimento (la sua vita) oltre la città.

L'oscurità ricercata da Antigone le deriva da Edipo, che le è padre e fratello.
Edipo che, esperto in giochi sapienziali, era caduto nella trappola della Sfinge, aveva sciolto l'enigma ed era diventato re della città, amante e figlio della regina.
Edipo che, in qualche modo, si era liberato dalla trappola. Come la volpe che per liberarsi si strappa la zampa, Edipo si era strappato gli occhi.
Così i suoi occhi diventati quelli di Antigone, rendono gli occhi di Antigone lo sguardo di Edipo (che intende l'oscurità). Antigone ascolta, in quel luogo tra essere e non-essere.

"Il mondo sotterraneo dello sprofondamento, simbolizzato dall'oscurità fredda della tomba" contrapposto a "uno spazio lontano e sommo della luce" (M Foucault, Il sogno, Milano, 2003); e i sotterranei che spaventano Medea, dove vive la regina di Corinto "avviluppata dentro una fitta rete di voci terribili, nascosta efficacemente dietro la sua inavvicinabilità", e il suo respiro sembra "un guaito appena udibile ma penetrante, poteva essere anche una bestia" (C. Wolf, Medea.Voci, Roma, 1996, p. 20, 23) non sono l'oscurità di Antigone che dice: "Dovrei arrivare ancora più in basso e sprofondarmi fino al centro stesso delle tenebre, che chissà dove si estendono, per accendermi dentro di esse. Perché io ho fiducia solo in quella luce che si accende dove maggiore è l'oscurità, facendo di essa un cuore" (M. Zambrano, cit. p. 118).
(Sofocle qui dà ragione a M. Zambrano: Ismene dice alla sorella Antigone: "hai cuore ardente per cose che raggelano". Ma poi, M. Zambrano non dà ragione a Sofocle quando pone Antigone in un non-luogo tra vita e morte, mentre Sofocle la fa suicida: l'ordine di Creonte, alla fine, per Sofocle, vince).

Il rischio di Penelope

Un tempo apparentemente uguale, ininterrotto, rassicurante quello di Penelope che non varca le mura della casa.
Accorrono i pretendenti a Itaca, si sfidano, competono, la posta in gioco: Penelope, e il governo sulla città.
E Penelope bara. Non rispetta gli ordinamenti della città che pretendono la presenza di un re. Rimanda la scelta attraverso la tela che ogni notte disfa.
Ogni notte Penelope disfacendo il lavoro lo annulla come lavoro, non ci sono frutti di quel lavoro. Sempre nuovamente iniziando, non si produce il tempo oscillante delle stagioni.
La sua azione non è operare. Non serve a nulla.
Ma proprio perché non c'è vera finalità, la sua attività in-definita ha un senso suo proprio.
Perché in-definita, la sua è creazione. E in quanto creazione conduce all'annientamento temporale. (H. Arendt, La vita della mente, Bologna 1987).
In questo tempo-non-tempo Penelope, azzardandosi dal passato (quasi dimenticato) verso il futuro (incerto) ricreando continuamente, rendendo presente ciò che è assente, trasformando ciò che non è più in ciò che non è ancora, pensiamo potrebbe perdersi. Modernamente: "dover sempre e radicalmente cominciare da capo, come impone l'imperturbabile mondo reificato" (Th. W. Adorno, Dissonanze, Milano, 1979, p. 50).
Penelope, colei che ad-tende, agendo l'attesa rischia la sua vita (mette in gioco la sua vita): il suo vivere an-nientato (la tela continuamente distrutta), si dispone ad ascoltare appunto il niente.
Ad-tendendo l'in-atteso (un tempo nuovo?) lo schema omologante si è rotto, gli equilibri precedenti finiti, si è prodotta un'asimmetria. Il futuro della città potrebbe infine essere diverso. Itaca una città nuova.
Favorita dal Caso, per il quale aveva potuto frequentare quel luogo del silenzio che accompagna uno spazio altro, un possibile diverso futuro, cade nella trappola proprio quando crede di uscire vincitrice: riconoscendo Ulisse, contenta di tornare a essere regina.
In quel punto Ulisse ha dimenticato il canto che scorre per i viaggiatori sul mare, il canto che commuove gli dei sotterranei, gli dei del nulla (d'altra parte lo sapeva che avrebbe potuto e dovuto dimenticarlo, quando si era fatto legare all'albero della nave).
Simmetrici, il re e la regina, impermeabili l'uno all'altro, si affrontano come due tori, sicuri della loro forza, scrive Savinio (nella sua opera teatrale Il capitano Ulisse). Caduti nella stessa trappola, si finiranno reciprocamente.

Ai limiti del bosco

Bisognava avere il coraggio di avvicinarsi al bosco.
Che sta ai limiti delle città. E nelle città deterministicamente ordinate, il bosco deve necessariamente comprendere il caos (ciò che è stato rimosso, espulso dalle città stesse).
Bosco che "prende forma, più che dai sentieri che vi si perdono, dai chiari che nel suo folto si aprono, pozzi di chiarore e di silenzio" (M. Zambrano, cit., pp. 60-61), ma della cui forma abbiamo un'impressione vaga, perché i sentieri vi si perdono, e noi non possiamo che seguire i sentieri.

Bisognava avvicinare quelli che "portano qualcosa che né lì né altrove, dove che fosse, nessuno aveva; qualcosa che quanti abitano stabilmente in una città non hanno mai; qualcosa che solamente ha chi è strappato alla radice, l'errante, colui che un giorno si ritrova senza nulla sotto il cielo e senza terra; colui che ha provato il peso del cielo senza terra che lo sostenga" (M. Zambrano, ibid. p.119).

Si doveva rischiare di"scoprire lo straniero dentro di noi, attraverso cui si rivela un paese di frontiere, di alterità incessantemente costruite e decostruite, inquietanti estraneità, perturbanti alterità (…) condizione ultima del nostro essere con altri" (J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Milano, 1990).

Scoprire il luogo che sta infra: luogo che continuamente si origina tra l'uno e l'altro, luogo originario che precede gli ordinamenti e le stesse strutture fisiche delle città. Attraversare il conflitto tra passato e futuro, che si agisce nella fondazione del presente (H. Arendt, Vita activa, Milano, 1964, e La vita della mente, Bologna, 1987).

Intorno a questi luoghi, di ascolto, di silenzio, potremmo azzardarci.

Una domanda, infine

Una domanda è ritornata più volte. Dunque, la presenza di torturatrici nell'esercito americano non rende forse irreale, superata, una specificità (una distanza da) delle donne?
Come rispondere?

È possibile rendere il rischio-io rischio chiave interpretativa di questo particolare evento?
È innegabile: donne si sono decise per questo orrendo gioco della guerra e delle torture (in posizioni subalterne, a volte di comando, sempre complici).

Per ottenere cosa?
Possiamo pensare che siano sostenute da una passione per le arti marziali? Per le conquiste? Ci sembra di riscontrare passione per la guerra?
Non si sottolinea sempre la fulmineità dell'intervento militare (in un'enfasi, d'altra parte, teatrale, che rimane parallela, per le esibizioni di parate)?
La guerra oggi meno che mai vocazione, è una opportunità di lavoro.
C'è uno stile unico che accomuna questi operaie-operai del crimine, una sorta di indifferenza annientata-annientante verso l'oggetto del loro lavoro.
La complicità si rivolge fuori, verso la telecamera, una sorta di messa in scena dell'orrore e della morte. E internamente per una sorta di adesione a regole di gruppo, che il gruppo non vuole siano trasgredite.

Cosa hanno messo in gioco di sé, queste donne?
Apparentemente poco. Sono donne forse, probabilmente accettate, integrate tra i colleghi maschi.
Ma, rimovendo e spostando le loro annientate identità (le loro paure, l'orrore di sé) sull'altro da annientare, si giocano l'anima.
Un presente di guerra (rimosso) misura il tempo - tra il "non più" della memoria (il passato, nel quale l'Angelo della Storia di Benjamin, di Klee vorrebbe arrestarsi, destare i morti, ricomporre l'infranto, ma quella che vede non è una catena di eventi, è una sola catastrofe che accumula rovine su rovine) e il "non ancora" dell'attesa (il futuro).
Nell'incrocio il "non-tempo". Nel quale si situa quella linea sottile che è vuoto, quando i tempi bui annientano il ricordo e distruggono il futuro. Quando: "il passato ha cessato di far penetrare la sua luce nel futuro e la mente dell'uomo si muove nell'oscurità" (H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit..).

I versi di Rilke: "e quanto tempo abbiamo, noi gettati nell'azzardo infinito! / chi siamo, lo sa solo la morte taciturna, / e sa quale guadagno ne trae quando ci presta" (R. M. Rilke, Sonetti a Orfeo). Potrebbero essere l'inizio.
Posti qui, ci indicano, del cerchio le infinite variazioni, intorno alla nota.