“L’infanzia è un coltello piantato in gola che non si tira via facilmente”. Lo lascia scritto nel suo testamento Nawal Marwan, interpretata da una magnifica Lubna Azabal. Nawal ha cambiato vita, è in Canada, lontana dal Paese che l’ha segnata, ma il passato non si cancella e si trasforma in un silenzio di dolore e rimorsi che la accompagna alla morte. E il passato e le sue tracce di orrore tornano fuori poderosi nelle vite dei suoi figli, i fratelli gemelli Jeanne (Mélissa Désormeaux-Poulin) e Simon (Maxim Gaudette), quando vengono incaricati di cercare un padre che pensavano morto e un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Struggente, potente, evocativo, intenso, il film del giovane canadese Denis Villeneuve racchiude in sé tanti aggettivi, positivi. Tanto che il film è entrato giustamente nella lista dei nove candidati a Oscar 2011 come miglior film straniero. E nonostante le atrocità, la guerra e le spietate torture che narra, ha con sé anche un messaggio di amore, nonostante tutto. “Niente è più bello dell’essere insieme” dice Nawal. Per tutto questo alla pellicola si perdona senza pensarci troppo la poco realistica ridondanza di coincidenze. “1 + 1 può far 1?”, si chiede sgomento Simon, il figlio di Nawal? In fondo anche l’aritmetica perde il suo rigore nell’odio. E forse anche nell’amore. La donna che canta è tratto dalla pièce teatrale di Wajdi Mouawad, scrittore e regista canadese di origini libanesi. Era stato presentato alla Mostra di Venezia 2010, alle Giornate degli autori, e ha vinto il premio del pubblico al Festival di Toronto.
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