Incubi a occhi aperti


di Lea Meandri


Esther Mahlangu


Nell'arco di una decina di giorni, tra il 12 e il 22 febbraio 2001, si sono susseguiti tre omicidi che avevano in comune la giovanissima età dei protagonisti, un legame stretto d'amore e di parentela tra le vittime e i loro assassini, e il fatto di essere avvenuti in luoghi e con strumenti consuetudinari. In un Istituto magistrale di Sesto San Giovanni, nell'ora di ricreazione, un ragazzo diciassettenne uccide l'ex-fidanzata provocandole una lesione alla giugulare con un coltellino, tipo temperamatite; a Padova, lo stesso giorno, viene trovato il cadavere di un uomo che risulterà essere un professore di chimica dell'ateneo, ucciso e poi bruciato dal figlio con materiale infiammabile preso dallo studio del genitore; una settimana dopo, a Novi Ligure, Erika, 14 anni, insieme al suo compagno Omar , di 17, accoltella nella propria casa la madre e il fratello più piccolo colpendoli ripetutamente con un coltello da cucina. Per quanto diverse possano essere le motivazioni -un amore respinto, il senso di inadeguatezza rispetto alle richieste di un padre autoritario, il controllo oppressivo di una madre troppo “perfetta”- per tutti e tre i casi sembra valere la frase annotata sul diario da Erika: “Tanto lo sappiamo che si chiude tutto con la morte”. Dare la morte sembra la via obbligata per liberarsi di una realtà che appare altrimenti insormontabile, sia che incomba dall'esterno come ostacolo a un bisogno di autonomia, sia che prema dal di dentro come pulsione angosciosa di odio. La percezione di un conflitto, anziché spingere al distacco necessario per esprimere contrarietà e dissenso, sembra far precipitare il rapporto con l'altro in una sorta di primordiale, selvaggia lotta di sopravvivenza - morte tua, vita mia-,un residuo arcaico presente in tutte le guerre, anche quelle che si vorrebbero “umanitarie”. D'altra parte non è difficile riconoscere in questi tragici fatti le figure e i drammi che la mitologia e l'analisi della vita psichica hanno collocato all'origine della specie e di ogni essere umano: figli che uccidono i padri, le madri , i fratelli, con l'unica variante che la donna esce dalla condizione fatale di vittima per impugnare a sua volta un'arma, e non è certo un progresso. Anche i luoghi in cui sono avvenuti appartengono alla sfera che si continua a pensare più intima, che si vorrebbe al riparo dalla socialità allargata, dai suoi imprevisti, dalle sue influenze, dai suoi disastri. La famiglia e la scuola, nonostante le più evidenti smentite, continuano a rappresentare nell'opinione corrente come in quella colta riserve di innocenza e di incivilimento. Ciò spiega perché una delle principali ragioni dello sgomento prodotto da questi delitti sia la loro “imprevedibilità”. Per quanto la storia del secolo appena concluso ci abbia abituato a crimini inimmaginabili, la ferocia di cui gli umani sono capaci appare “possibile” soltanto quando compare nel luogo e nella mano in cui non era prevista. “Quelle 97 coltellate e quel bambino inseguito e affogato nella vasca dalla sorella -scrive Pintor (Il Manifesto, 25.2.2001)- mi fa paura perché mi fa pensare che questa 'possibilità' esiste nella nostra natura”. Se ne deve dedurre che non si è saputo leggere a fondo nel consenso di massa su cui si sono retti e legittimati i peggiori crimini della storia collettiva, che manca ancora un anello per capire come le pulsioni distruttive dell'individuo, i suoi incubi, le sue paure possano estendersi, conformarsi, mimetizzarsi dentro comportamenti socialmente condivisi. Un altro aspetto della “paura” suscitata da questi fatti nasce dall'impossibilità di circoscriverli in una vicenda di privata follia. “Ci riguardano”, hanno scritto molti, intendendo perlopiù funzioni legate ad ambiti specifici, come la famiglia e la scuola, isolati, ancora una volta dal contesto sociale e politico più generale. Il neuropsichiatra Massimo Ammaniti, rispondendo a un'intervista (La Repubblica, 26.2.2001), descrive l'opposizione violenta ai genitori da parte dei figli adolescenti come effetto dell'alleanza e complicità tra pari, il gruppo dei coetanei dove andrebbero a collocarsi “naturalmente” quando si staccano dalla famiglia. Ma se c'è un “passaggio” che l'essere umano sente come “innaturale” è proprio quello della sua individuazione, che, mentre lo separa dall'appartenenza al nucleo famigliare, lo lascia solo di fronte a un mondo sconosciuto, da cui si affacciano altre dipendenze, incomprensioni e conflitti. Gli omicidi di Sesto, Padova, Novi ligure sono opera di singoli. Neppure Erika e Omar hanno potuto trovare un'unità di coppia, tanto che si sono accusati a vicenda, e se c'è un “branco” da cui hanno cercato copertura, è quel “sociale impazzito” a cui sapevano di poter consegnare facilmente un “capro espiatorio”: gli immigrati albanesi. Nella prima versione data dei fatti, Erika non esita a sovrapporre alla sua guerra personale quella della collettività in cui vive. Il terribile persecutore che bisogna uccidere per salvarsi ha indifferentemente il volto di una madre apprensiva e quello dello straniero che insidia il benessere del mondo privilegiato. Oggi la saldatura tra privato e pubblico, saltati i confini tradizionali, sembra avvenire sul riflesso più arcaico della storia della specie: l'eliminazione di un “nemico” divenuto ricettacolo delle proprie paure, del proprio malessere, della propria mancanza di libertà, e perciò stesso pericoloso.
Di questa brutale semplificazione dei rapporti ci sono tracce vistose in tutti i linguaggi e i comportamenti della nostra società, dalla fiumana ininterrotta di “vita personale” che va ad alimentare gli spettacoli televisivi ai dibattiti politici, dall'insofferenza che si tocca con mano in un affollato autobus cittadino agli effetti devastanti della competizione economica, dello squilibrio tra povertà e ricchezza su scala mondiale. Ma più preoccupante, sotto quest'aspetto, è la contraddizione apparentemente senza via d'uscita che vive oggi l'individuo, maschio e femmina, consapevole della sua singolarità e desideroso di sciogliersi dai vincoli tradizionali, eppure disposto a lasciarsi prendere da una rete sempre più fitta di controlli e di modelli, espropriato del proprio mondo interno e costretto a rincorrerlo dentro le maschere di uno spettacolo televisivo o di uno spot pubblicitario. La società industriale, al suo livello più alto, notava Elvio Fachinelli già nel '68, “tende a presentarsi come un complesso di sistemi la cui regolazione è già prevista in anticipo”, dove non sono più contemplati né i cambiamento né la rottura, solo una buona funzionalità, dove la promessa di liberazione dal bisogno si accompagna a una prospettiva inaccettabile: “la perdita di sé come progetto e desiderio”. Per paradosso, questa condizione sociale “tende ad essere assunta dal singolo come la ripetizione, nei suoi punti cruciali, della relazione più 'naturale', più 'biologica' esperimentata all'interno della famiglia” (E:Fachinelli, Il bambino dalle uova d'oro, Feltrinelli 1974). La freddezza, l'indifferenza, il cinismo, il “deserto delle emozioni”, di cui si è parlato molto, hanno senso solo se messi in relazione col pieno intollerabile di umori informi -nervosismo, eccitazione, depressione, allergia - , con l'assorbimento quotidiano indifferenziato di violenze e amori, veri o simulati, intrattenimenti e catastrofi, corpi martoriati e sensualmente esposti. Non è un caso che la morte, annullamento di ogni alterità, sia la protagonista indiscussa del teatro mediatico, e che proprio per questa trasposizione immaginaria possa apparire più praticabile, irreale ma insieme raffigurata quanto basta per dare contorni pacificanti a un odio sconfinato. Ammazzare, come nel lucido e minuzioso racconto di Erika, non sembra molto diverso che produrre incubi a occhi aperti, quando la paura è già passata. I riferimenti cinematografici diventano allora quasi ovvi, e nessuno fa più caso al fatto che il ragazzo di Sesto avesse visto la sera prima il film Hannibal, che la studente padovano avesse deciso di bruciare il cadavere del padre pensando a un documentario sui riti crematori degli indu, che la mattanza descritta da Erika sia uno dei luoghi comuni dei film dell'orrore. La morte oggi entra in noi attraverso le abituali operazioni della vita: mangiando, respirando, viaggiando, facendo l'amore; è morte subìta e morte inflitta, sia pure indirettamente, a chi ha meno possibilità di sopravvivenza. Eppure è solo quando si ricolloca nel suo tessuto originario –il legame con un genitore, un figlio, un innamorato- che abbiamo l'impressione di vederla e sentirla, tragicamente legata com'è da sempre alla vita e all'amore.