Urlare dai tetti
di Eesha Pandit

 

 

Il primo studio in assoluto che fornisce una graduatoria delle nazioni in rapporto al loro livello di pace, l’Indice Globale di Pace (IGP), è stato di recente pubblicato dall’Economist Intelligence Unit.

Basato sulla nozione che nel concetto di pace vi è di più che la mera assenza di guerra, lo studio usa 24 indicatori per misurare la pace quale “assenza di violenza”. Fra essi vi sono le guerre interne ed esterne, l’instabilità politica, l’accesso alle armi e le spese militari.

Nonostante tale vasto raggio di considerazioni, l’Indice ha una pecca fatale. Com’è stato già notato dal Christian Science Monitor e da Women's E-News, omette di includere la forma maggiormente prevalente di violenza globale: quella contro donne e bambini, che spesso si dà sotto la copertura dell’impunità e all’interno delle loro stesse famiglie.

In effetti, il solo componente dello studio che remotamente richiama lo status delle donne è il tasso di mortalità infantile; poi ci sono, com’è ovvio, altre considerazioni sulla popolazione. Trattandosi di un lavoro che ha lo scopo di guardare oltre le tradizionali conquiste militari come misure di pace, questa è una dolorosa negligenza, perché è nella propria casa che la maggior parte della popolazione mondiale fa esperienza della violenza.
Tale esclusione significa che violazioni dei diritti umani quali i delitti “d’onore”, le mutilazioni genitali femminili, gli infanticidi delle bambine, le violenze del partner, l’abuso sessuale e la cronica mancanza di cure mediche per le bambine non fanno parte del quadro. Un’omissione così significativa non può non essere notata.

E’ l’esempio perfetto del perché le avvocate dei diritti umani delle donne hanno ancora necessità di urlare dai tetti che i diritti delle donne sono diritti umani. La violenza che le donne sono costrette ad affrontare nelle loro case e nelle loro comunità non è separabile dallo status delle loro nazioni. Per questo motivo gli indicatori che lo studio incorpora sono essi stessi incompleti.
Per esempio, nel considerare solo la popolazione, i ricercatori non riescono a comprendere che la collocazione piuttosto bassa della Cina nell’Indice (sessantesimo posto) è dovuta anche al fatto che l’infanticidio femminile è ancora uno dei più gravi problemi del paese. Inoltre, paesi il cui posto nella graduatoria è abbastanza alto hanno un livello di pace che certamente non è goduto da tutti i cittadini: si considerino Romania e Polonia (26° e 27° posto), in cui il traffico di donne e ragazze certamente influisce sul livello di pace goduto all’interno dei loro confini.

Mentre, al primo sguardo, l’omissione della violenza contro donne e bambini dall’Indice Globale di Pace può apparire come un fatto di mera negligenza (è una dimenticanza sin troppo comune), essa è qualcosa di più. Questo tipo di pensiero è sintomatico di un problema più vasto: le questioni che le donne affrontano non vengono registrate sullo scenario internazionale come questioni che in realtà interessano tutti.
Non sono fatti nazionali o internazionali, con questa sensibilità, sono semplicemente casi personali. Abbiamo già sperimentato in precedenza tale tipo di ragionamento: il lavoro domestico delle donne viene a stento preso in considerazione nelle riflessioni su come l’economia capitalista funzioni attualmente; gli stupri non sono visti come crimini di guerra e i crimini che si danno all’interno delle case vanno al di là della giurisdizione statale.

Dall’altro lato, ciò che dovrebbe restare personale viene trascinato nell’arena pubblica. Osservate i pubblici dibattiti attorno al corpo femminile quando una donna decide di avere o non avere un figlio, o il modo in cui le nostre famiglie sono costruite: non sono faccende che si decida di tralasciare facilmente.

I ricercatori ed i finanziatori del rapporto guardano forse a queste istanze come a qualcosa di incorporato negli indicatori da loro scelti, e ad un certo livello ciò potrebbe essere corretto: lo status delle donne sicuramente ha influenza su altri aspetti, come l’entità della popolazione o la sicurezza economica. Tuttavia, non esplicitando le connessioni, essi cadono in una vecchia trappola politica.
Prendono in considerazione i “livelli di crimine violento” senza dar conto del fatto che in moltissimi luoghi la violenza domestica e quella del partner non sono ritenuti crimini. Omettono di riconoscere che la violenza individuale è inestricabilmente connessa alla violenza internazionale.
Non comprendono che il più accurato segnale dello status di una donna in una società è il controllo che essa ha sulle proprie scelte riproduttive. Non riescono a capire che i bambini che crescono in case ove le loro madri, le loro sorelle e loro stessi vengono brutalizzati, non stanno vivendo un’esistenza pacifica.

Riporto dal sito web di IGP, “Vision of Humanity”: “La pace è un concetto potente. Tuttavia la nozione di pace, ed il suo valore nel mondo dell’economia, sono compresi male. Storicamente, la pace è stata vista come qualcosa che si vinceva con la guerra, oppure come un ideale altruistico. Ci sono definizioni contrastanti di pace e la maggior parte della ricerca sulla pace è, in realtà, lo studio del conflitto violento. “Vision of Humanity” contiene i risultati dell’Indice Globale di Pace ed altro materiale interessante sulla pace. Contiene anche una sezione sulle istituzioni che hanno bisogno di aiuto per finanziare iniziative relative alla pace. Questa risorsa verrà aggiornata nel tempo per combinare ad essa materiale più rilevante, che dimostrerà le connessioni tra pace e sostenibilità.”

Noi possiamo solo sperare che nelle edizioni future i supervisori dello studio tenteranno di rettificare le clamorose omissioni, e faranno lo sforzo di capire veramente cosa significa vivere in pace.
 

per Reality Check, luglio 2007
traduzione di Maria G. Di Rienzo

27/09/2007