Il primo studio in assoluto che fornisce una graduatoria delle nazioni in rapporto al loro livello di pace, l’Indice Globale di Pace (IGP), è stato di recente pubblicato dall’Economist Intelligence Unit. Basato sulla nozione che nel concetto di pace vi è di più che la mera assenza di guerra, lo studio usa 24 indicatori per misurare la pace quale “assenza di violenza”. Fra essi vi sono le guerre interne ed esterne, l’instabilità politica, l’accesso alle armi e le spese militari. Nonostante tale vasto raggio di considerazioni, l’Indice ha una pecca fatale. Com’è stato già notato dal Christian Science Monitor e da Women's E-News, omette di includere la forma maggiormente prevalente di violenza globale: quella contro donne e bambini, che spesso si dà sotto la copertura dell’impunità e all’interno delle loro stesse famiglie.
In effetti, il solo
componente dello studio che remotamente richiama lo status delle donne è
il tasso di mortalità infantile; poi ci sono, com’è ovvio, altre
considerazioni sulla popolazione. Trattandosi di un lavoro che ha lo scopo
di guardare oltre le tradizionali conquiste militari come misure di pace,
questa è una dolorosa negligenza, perché è nella propria casa che la
maggior parte della popolazione mondiale fa esperienza della violenza.
E’ l’esempio
perfetto del perché le avvocate dei diritti umani delle donne hanno ancora
necessità di urlare dai tetti che i diritti delle donne sono diritti
umani. La violenza che le donne sono costrette ad affrontare nelle loro
case e nelle loro comunità non è separabile dallo status delle loro
nazioni. Per questo motivo gli indicatori che lo studio incorpora sono
essi stessi incompleti.
Mentre, al primo
sguardo, l’omissione della violenza contro donne e bambini dall’Indice
Globale di Pace può apparire come un fatto di mera negligenza (è una
dimenticanza sin troppo comune), essa è qualcosa di più. Questo tipo di
pensiero è sintomatico di un problema più vasto: le questioni che le donne
affrontano non vengono registrate sullo scenario internazionale come
questioni che in realtà interessano tutti. Dall’altro lato, ciò che dovrebbe restare personale viene trascinato nell’arena pubblica. Osservate i pubblici dibattiti attorno al corpo femminile quando una donna decide di avere o non avere un figlio, o il modo in cui le nostre famiglie sono costruite: non sono faccende che si decida di tralasciare facilmente.
I ricercatori ed i
finanziatori del rapporto guardano forse a queste istanze come a qualcosa
di incorporato negli indicatori da loro scelti, e ad un certo livello ciò
potrebbe essere corretto: lo status delle donne sicuramente ha influenza
su altri aspetti, come l’entità della popolazione o la sicurezza
economica. Tuttavia, non esplicitando le connessioni, essi cadono in una
vecchia trappola politica.
Noi possiamo solo
sperare che nelle edizioni future i supervisori dello studio tenteranno di
rettificare le clamorose omissioni, e faranno lo sforzo di capire
veramente cosa significa vivere in pace.
per Reality Check, luglio 2007 27/09/2007 |