da Liberazione del 3 Febbraio 2005


Femminismo: il silenzio delle innocenti?

Maria Grazia Campari


Paola Gandolfi

 


Il mio pensiero è che noi "femministe storiche", rispetto agli attuali assetti del potere, non possiamo dichiararci innocenti
A questo proposito, mi sembra molto interessante il tema del silenzio del femminismo, soprattutto se lo si incrocia con la sordità maschile ovunque collocata, anche a sinistra.
E' per me un'occasione per tornare brevemente su un'esperienza cui ho partecipato nel movimento delle donne che si richiamava al pensiero della differenza sessuale, negli anni settanta/ottanta del secolo scorso.
Io vi mettevo in gioco un interesse per la modificazione dell'ordine giuridico e per la democrazia plurisoggettiva, sviluppando, insieme ad altre, la teoria che dai soggetti sessuati potesse scaturire un diritto sessuato, da rendere vivente attraverso una pratica politica del processo.
L'ipotesi nasceva dall'opinione, peraltro piuttosto diffusa, che il diritto si presenti come un Giano bifronte: nella sua versione statica garantisce l'ordine vigente capitalistico/ patriarcale, ma poiché incorpora nel suo ordine alcuni riconoscimenti di esistenza dell'alterità, come le misure garantiste, l'affermazione dei diritti umani,diritti di ogni persona, di qualunque sesso o razza, reca in sé un principio di trasformazione evolutiva. Di qui la scommessa: le crepe garantiste dell'ordinamento possono (forse) essere usate come germe di consunzione dei valori dati, ciò che avviene principalmente attraverso le pronunce delle corti di giustizia sui casi che vengono loro sottoposti, appunto, la creazione del diritto vivente di origine giurisprudenziale
Nella nostra ipotesi, la pratica del processo si costruiva attraverso una relazione fra donne (cliente/avvocata/consulente scientifica), nel riconoscimento di autorevolezza e nella circolazione di sapere, che consente di dare corso, nel giudizio, ad una pretesa sociale femminile, spunto per regole nuove, segnate dai soggetti dei due sessi.
Alcune significative sperimentazioni di questa pratica si sono prodotte nell'ambito del diritto del lavoro, ove i casi della vita hanno reso chiaro che il conflitto di classe non forniva spiegazione adeguata alla sofferenza sociale femminile e che, per porvi limite, occorreva considerare, intrecciato, spesso preminente, il conflitto di sesso fra donne e uomini per l'attribuzione delle risorse e per l'autogoverno della propria vita.
Ricordo, negli anni ottanta, casi giudiziari nei quali abbiamo potuto conseguire pronunce almeno parzialmente commisurate alle aspettative delle donne coinvolte nelle vicende lavorative, embrionali affermazioni di giustizia sociale femminile.
Tuttavia, come oggi appare chiaro, questa pratica non si è diffusa a sufficienza per produrre le modificazioni dell'esistente che pure stavano a cuore a molte. Personalmente ritengo che ciò sia dovuto, in larga misura, al fatto che apporti autonomi delle donne in conflitti sindacali, che pure le riguardavano, non erano considerati un rafforzamento, ma un dato inquietante dagli esponenti maschili della forza lavoro. Un ostacolo rispetto al quale va chiaramente registrata una inadeguatezza della pratica politica finalizzata al progetto, da parte delle donne che vi erano coinvolte (ed io fra loro).
Si operò, secondo me, se non una complicità inconsapevole, certo una sottovalutazione del fatto che l'irriducibilità dell'alternativa fra quanto le donne ritengono desiderabile per sé e quanto gli uomini hanno stabilito per tutte e tutti, rende inevitabile un conflitto fra i sessi sul nodo essenziale del potere.
Questo conflitto deve essere aperto nei luoghi sociali e politici ove si assumono decisioni destinate ad incidere sulle vite di ognuno, poi può trovare misure di mediazione evolutive e non distruttive, ma sulla necessità del conflitto non può esservi dubbio o mediazione.
In altre parole, si manifesta un contrasto fra pratica politica autonoma imperniata su esperienze, parola, pensiero femminili dotati di autorevolezza sociale e potere maschile che informa di sé l'esistente, affermando l'unicità del suo disegno.
L'apparato regolatore delle relazioni sociali, saldamente in mani maschili, non si lascia modificare facilmente, non registra spontaneamente la parzialità dei soggetti, afferma l'unicità del soggetto maschile, che acquisisce l'esistenza dell'altro solo come parte assimilata di sé.
Le nostre ipotesi sono cadute nel silenzio per mancanza di pratica del conflitto nei luoghi sociali e politici; sono state sommerse dal silenzio perché non le abbiamo rese abbastanza circolanti, non le abbiamo dotate di corpi/menti capaci di una presa sul mondo dove ci troviamo, forse troppo frammentate, ad operare.
Il risultato, sul terreno politico è una notevole mancanza di apertura rispetto alla presa di parola delle donne, una grave limitazione delle capacità di ascolto e di interlocuzione maschile, una sottovalutazione diffusa dell'esperienza e della cultura femminista. Una tensione ad affermare la preminenza di una regola maschile sul mondo che si presenta alquanto autistica e non produce alcuna felicità per nessuno.
Viviamo, all'evidenza, in tempi che nessuno potrebbe definire magnificamente progressivi.
Un ragionamento di banale buon senso è, allora, quello di rompere la tradizione della fraternita maschile che, rispecchiandosi solo in se medesima, ha prodotto l'attuale infelice stato di cose, mettendo all'opera procedure partecipative per cui, nei luoghi della decisione collettiva, si faccia spazio al dialogo fra varie esperienze, principalmente, si faccia giocare e si dia riconoscimento agli apporti di pensiero, cultura, pratica politica del soggetto femminile autonomo, la cui partecipazione è questione di effettività e di valorizzazione della democrazia.