Inquietudini

di Nicoletta Buonapace


Gertrude Kasebier


La teoria che dà un primato al valore simbolico del materno semplicemente m’inquieta.

Anche perché se è vero che l’esperienza del materno e della visceralità del rapporto madre/figlia è spesso annodata nel silenzio o nel balbettio, cancellata nella dimensione del “naturale”,  non è certo con delle parole e dei pensieri che stanno sopra l’esperienza che si può trovare la complessità di una relazione spesso difficile e irrisolta.

Il fatto che non ci sia un simbolico non significa che se ne debba costruire uno artificiale.

Perché dovrei volere un matriarcato al posto di un patriarcato?

E’ esistito, non è esistito? Cosa cambia nella percezione di me, cosa cambia in quel che comunque ho ricevuto e mi ha formata ponendomi per sempre di fronte a un mondo già pensato e che mi esclude?

L’esperienza della maternità è particolare, anche se comune a moltissime donne, voglio dire dotata di esemplarità; non so niente di cosa porti il vissuto di tale esperienza, ma quel che penso è che per ciascuna abbia una sua singolarità.

L’universalizzare una relazione tra donne attraverso il recupero di un rapporto madre/figlia gerarchicamente strutturato, con lo scopo di farne il fondamento di un pensiero forte femminile in grado di dare sovranità, autonomia e valore alla propria differenza sessuale, vuol dire ripetere la stessa operazione che ha fatto il patriarcato quando ha nascosto il volto maschile dietro l’universale neutro, su un altro livello.

Inoltre si dà ancora una volta un valore simbolico e culturale a un dato biologico, quello della differenza sessuale.

Sempre di una mistica della maternità si tratta, anche se di segno opposto.

In realtà, la cosa che in tutta onestà dovremmo fare è svelare cosa sta all’origine di questa mistica e dare una voce autentica, seppure parziale, a un’esperienza sicuramente potente dal punto di vista dell’esperienza umana e  che soltanto la donna vive.

Per il tipo di pensiero che prediligo preferisco il frammento, o la poesia, o il conflitto, o la confusione, a un pensiero che dispiega un mondo senza scendere nella concretezza dell’unicità e della consapevolezza della propria parzialità.

Il femminismo mi ha insegnato a diffidare di un pensiero slegato dal vivere, e il vivere non è un puro vivere materiale, ma il costruirsi di una consapevolezza profonda.

Ho imparato a capire che nella consapevolezza ci sono molti vuoti e contraddizioni e paure, così che se il sapere non affonda le radici anche in questo caos oltre che nell’ordine provvisorio delle parole  non è  un sapere connotato di autenticità.

Un esempio banale: condivido, con la riflessione femminista più recente  l’idea che il concetto di identità sessuata sia un concetto in realtà costruito, che noi donne impariamo fin da bambine ad essere e identificarci come femmine, che la continuità tra sesso biologico e identità sia un paradigma culturale e un insieme di norme imposte, di fatto smentito spesso dalla realtà dell’esperienza, creando conflitti e sofferenze a non finire.

Così come sono convinta che questo sia necessario, direi essenziale, a una società che deve funzionare secondo il modello eterosessuale.

Modello in cui la donna è un meno rispetto all’uomo (al massimo può divenire nella migliore e più auspicabile delle ipotesi un “come un uomo”) e sottoposta al suo controllo.

Pensiamo per un attimo al fenomeno transgender: che identità afferma un uomo all’anagrafe maschio ma che vive e si sente donna, o una femmina che al contrario vive e si sente uomo?

Quanto il genere sessuale, di appartenenza biologica, riveste ogni essere umano come una seconda pelle che non può strapparsi di dosso?

Madre/figlio, madre/figlia, che tipo di relazione prevede? Che cosa c’è davvero in questo esser due in uno? Che cosa significa, che cos’è questa esperienza così “biologica” e nello stesso tempo paradigma su cui si è costruito un intero universo culturale e religioso?

Cosa vuol dire quando una donna si chiede: sarò una buona madre? Ma anche: sto tradendo mia madre?

Capisco che sia, quello della madre, l’unico valore riconosciuto alla donna dalla società patriarcale, ma proprio per questo va smascherato, riportando questa relazione tra due esseri separati e una volta biologicamente uniti alla sua verità, anche profonda, se vogliamo, di esperienza originaria, immersa nell’inconscio dell’infanzia e ormai perduta, presente probabilmente nei sogni di tutti e di tutte come nostalgia, come l’unica forse esperienza umana di pienezza, probabilmente all’origine di ogni desiderio di fusionalità nell’amore tra due, o di unità spirituale nell’esperienza mistica, ma anche di dipendenza e impotenza e che bisognerebbe forse far parlare con altri linguaggi “tra il sonno e la veglia”…

Sono tutti intrecci mi viene da dire di natura e cultura, ma in cui la cultura ha completamente sacrificato l’aspetto istintivo, materiale, fondando un pensiero piuttosto raziocinante come quello di alcune filosofe o quello opprimente della Chiesa, del patriarcato e delle sue leggi per controllare il corpo delle donne, o quello illusorio di altre pensatrici su una supposta superiorità femminile nel relazionarsi e creare armonia umana nel mondo.

Mi piace pensare che possiamo accedere a un diverso sapere, più intimo, più nostro, che viene da una regione remota, sicuramente non universale ma che ci possa fare vivere meglio, renderci più libere, darci la forza di creare un’alternativa ai dogmi e le appartenenze.

Gli  uomini non rinunceranno a quel che hanno creato attraverso i secoli, soltanto perché glielo chiediamo.

Dobbiamo essere noi a forzare la storia, il sapere, a dare una svolta ai nostri pensieri ascoltando quanto di più lontano e profondo si agita nei nostri sogni, a compiere atti di libertà in grado di modificare la realtà.

 

27 aprile 2006