Gli integralismi e la fuga dal mondo

di Donatella Bassanesi


Attualità di Hanna Arendt nell'aver individuato nella fuga dal mondo l'alienazione del nostro presente.
Oggi ci sono guerre sotterranee che tendono a diventare guerre palesi. Fronti sono contrapposti, ma che sembrano rappresentare qualcosa che rimane nascosto, che usa della rappresentazione per nascondersi.
Si direbbe che oggi il capitalismo scricchioli più che mai. E nella sua identificazione con il capitalismo la stessa idea di occidente (e di occidentalizzazione del mondo) scricchiola.
Il mondo compatto e omologato della società di massa, subìto per ideologia (la sua ineluttabilità) e per assuefazione, si direbbe non possa più contenere le contraddizioni che sono interne, attraversano ciascuno.
La società di massa, satura, sembra avvicinarsi in modo preoccupante alla sua esplosione. L'impressione di essere sul punto di sfiorare la catastrofe nasce da quel senso generale di impotenza, una specie di impossibilità a ribellarsi, mentre prendono corpo regressioni, un tornare indietro e perdite che assomigliano molto a sconfitte. Perdite che aprono un vuoto. E in questo vuoto allignano gli integralismi che si propongono proprio in quanto integralismi come modello universale.
È l'universale in quanto tale a prestarsi come modello attraverso il quale cancellare ciò che è relativo (parziale, ciò che si determina come parte) per sostituirlo con un assoluto. I capi delle religioni dominanti oggi sono diventati i capi di questo assoluto che tende a pervadere le fibre della società, e si impongono agli individui attraverso gli usuali meccanismi autoritari. In questa unificazione fra 'uguali' (resi 'uguali' per appartenenza al gruppo, non per diritti riconosciuti) si perde non solo il relativo ma le differenze, e con le differenze le relazioni. Questa è essenzialmente l'alienazione del nostro presente.
Partendo da questo nostro 'catastrofico' presente è utile la riflessione di Hanna Arendt sulla nostra interpretazione del mondo, perché mette in relazione l'idea di mondo che continua ad agire su di noi (il pregiudizio da cui siamo determinati) e quello che cominciamo a conoscere dell'universo (che sta progressivamente agendo come nostro mondo).

Hanna Arendt individua la condizione in cui ci troviamo, l'alienazione del nostro presente, come quella della "duplice fuga dalla terra all'universo e dal mondo all'io" (H. Arendt, The Human Condition, Chicago, 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1994, p. 6).

Cosa significa la fuga dal mondo all'io?
È cancellazione di quello spazio comune che è spazio vitale tra l'uno e l'altro, il luogo della libertà, è cancellare il sesto senso (che riassume, unifica i sensi, è common sense).
Così "nella condizione della lontananza", mentre "ogni insieme di cose è trasformato in una mera molteplicità astratta" (H. Arendt, Vita activa, p. 198), ci troviamo in una "situazione di radicale alienazione dal mondo" (H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. p. 128). Pensare il mondo è riconoscere "l'alienazione del mondo" (H. Arendt, Vita activa, cit., p. 6).
Vediamo "la sfera sociale, dove il processo vitale ha stabilito il suo dominio pubblico" che si realizza come "crescita innaturale, per così dire, del naturale". E, di fronte a questo innaturale, "la sfera privata e dell'intimità, da una parte, e quella politica (nel più stretto senso della parola), dall'altra, si sono dimostrati impotenti" (H. Arendt, Vita activa, cit. p. 35).
La società di massa riporta a un io schiacciato e senza possibile mondo comune, senza possibilità di stare veramente (liberamente) con altri (ossia su un piano di pari dignità). Così "un'umanità che, priva di un mondo comune che insieme metta in relazione e separi gli uomini" vive "in una disperata solitudine". Che significa anche vivere "pigiati insieme in una massa. Giacché la società di massa è appunto quel tipo di organizzazione che si determina automaticamente tra gli esseri umani ancora legati l'uno all'altro ma privi ormai di quel mondo un tempo comune a tutti" (H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. , pp. 128-129), o forse si potrebbe dire: che potrebbe essere comune a tutti.
Perciò, in presenza di una crisi di libertà, alla virtualità di un pensiero unico, corrisponde un'atmosfera globale di incertezza, la precarietà crescente per l'esistenza materiale, la negazione dei diritti.
Ossia la coincidenza di forme di dominio che aspirano alla globalità (alla quale vediamo cooperano attivamente le religioni, le loro gerarchie, e non solo) producono distruzioni, e rendono il mondo più fragile.
Finita "la presenza di altri, che vedono ciò che vediamo e odono ciò che udiamo", che "ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi", ci troviamo oggi sottoposti ad un dominio pubblico. E questo dominio pubblico, che ci riporta continuamente alla "scala delle emozioni soggettive e dei sentimenti privati", ci allontanano dalla "certezza della realtà del mondo" (H. Arendt, Vita activa, cit. p. 37).
E anche. Perdute le libertà del soggetto, mentre "l'uomo come animale sociale" "domina supremo", e questo significa che "la sopravvivenza della specie potrebbe essere garantita su scala mondiale", contemporaneamente è esso stesso una potente minaccia "di estinzione" del nostro pianeta stesso (H. Arendt, ibid. p. 34). Poiché "non si può negare che oggi l'umanità si trovi di fronte a rischi creati dall'umanità stessa e mai affrontati in passato" (H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. p. 96). E la questione dell'azione come risultato del passaggio dal pensiero al giudizio diventa primaria.


Cosa significa andare oltre la terra per fuggire verso l'universo?
È il tentativo di costruire un'idea di una nostra centralità come motore universale. Vuole dire cercare di ripristinare (e proprio nel dibattito contro il relativismo) un concetto di assoluto (nonostante lo spostamento di punto di vista dalla terra verso l'universo corrisponda alla caduta di qualsiasi idea di una nostra centralità in un'universale sintesi).
Come argomentare l'inattualità di una nostra centralità in un universale-assoluto?
Sappiamo che l'immane sforzo di uscire dalla nostra orbita non è servito a trovare una nuova 'casa' (e il concetto stesso di natura che si modifica, non corrispondendo, al di fuori della terra, che marginalmente alla formazione di viventi). Perciò non possiamo ignorare che il soggetto umano si colloca in un punto di osservazione dove la sua 'casa' (il mondo che ci ha creato, cioè la Terra) appartiene a un luogo più ampio caratterizzato per noi da inabitabilità. E di conseguenza (noi sulla Terra) apparteniamo marginalmente a un sistema (di cui ci è concesso solamente di frequentare il limite, affacciarci ai confini).
Perciò, in questo mondo, ingrandito per uno spazio che esorbita la terra, e insieme rimpicciolito per la velocità dei mezzi che producono una accelerazione del tempo (e non solo delle comunicazioni), il punto di vista soggettivo si trova impreparato e insieme pronto ad acquisire una qualsiasi prospettiva riassuntiva (una religione universale, un'economia totale, una società globale…) che dia l'illusione di un fondamento generale, dia inquadratura, controlli, rassicuri intorno all'esistente (visibile e virtuale) come il solo possibile.

Abbiamo capito che l'universo non ha un centro intorno a cui tutto ruota, il concetto di universale non può fungere da criterio ordinatore, non è più possibile "pensare in termini universali, assoluti" (H. Arendt, Vita activa, cit. p. 200). L'universalità stessa (come la Verità) non può essere fondativa.
Così possiamo vivere unicamente in un mondo che è parte di un insieme (che non possiamo frequentare, che ci è 'ostile'), e dobbiamo riconoscere parzialità e marginalità della Terra (dove, d'altra parte ci sono le possibilità di vita, ciò che chiamiamo natura).
In quanto Terra siamo un frammento, e appartenendo come frammento a un insieme molteplice.
Dobbiamo perciò considerare il molteplice in generale come necessità.
C'è chi vorrebbe vedere ordinato questo molteplice. Farlo ricadere "in determinati modelli e configurazioni" (H. Arendt, Vita activa, p. 198). Farne costruzioni che ripristino credenze, fondamenti unificanti (e universali).

Andare oltre la terra allora è sapere che, a considerare i processi che avvengono nell'universo, "il formarsi della terra (nel corso dei processi cosmici"), della "vita organica (che si forma partendo da processi inorganici), e infine la nascita dell'uomo (dai processi della vita organica)", sono "l'infinitamente improbabile" (H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. pp. 225, 226).
Noi siamo arrivati alla conoscenza di ciò che non è riferibile al concetto di esperienza ereditata, siamo in grado di misurarci con ciò che va oltre l'ambiente terrestre, possiamo porci 'fuori dalla terra'. Questa capacità è necessità di affacciarci ai margini.
Spostare il nostro punto di vista sul mondo, è sapere la casualità che lo regola, sapere che il caso è la regola.
Andare oltre la terra è essere consapevole della relatività del nostro tempo. è sapere che il tempo relativo è il tempo della terra. Ossia, rispetto al tempo dell'insieme dei sistemi stellari, il tempo della terra è un altro tempo, e sta in rapporto con altri tempi.
Così, per noi adesso c'è un tempo nuovo, quello che si è prodotto nel momento in cui il nostro punto di vista non è più sulla terra si, è spostato al suo esterno, progressivamente sempre più lontano.
Dal momento che abbiamo sperimentato il distacco dalla terra, la terra stessa è diventata più piccola. È più facilmente attraversabile. È più uguale.
Contemporaneamente a questo nostro mondo diventato più piccolo, lo spazio di riferimento è diventato più grande. Va al di là della terra, può essere attraversato (ed è stato attraversato), ma non può essere abitato da noi.
È il frammento ciò che ci da la possibilità di nuovamente originarci.
Per noi, porci dal punto di vista della parzialità e relatività, è porci nel punto di nuovo principio (e nuovi principi), è sporgerci ai margini, allontanarci, metterci nella condizione di riconoscere le differenze (etimologicamente è spostarsi, che è poi de-centrarsi).

21- 02 -06