Biografia
di una comunità scientifica femminile, Ipazia
di Gabriella Lazzerini
È
il 1986. Ancora sgomenta l'episodio di Chernobyl, ultimo atto di tante
catastrofi apparentate con la scienza. Mai come in questo momento l'universo
scientifico è apparso tanto vicino al vivere quotidiano, e insieme
tanto distante, con i suoi codici incomunicabili, il suo futuro greve
di
imprevisti. Alcune donne della Libreria di Milano vogliono rispondere
alla paura trovando un modo per far entrare la loro politica nella cittadella
della scienza. Nessuna di loro è scienziata, ma tutte possiedono
un sapere: il semplice fatto di essere corpo - che si muove, osserva,
respira, si
ammala
- ha a che fare con la scienza. Abituate a
chiedere conto prima di tutto alle donne, si rivolgono a donne che conoscono
competenti in qualche disciplina scientifica, per interrogarle e interrogarsi.
Le scienziate parlano della loro passione della ricerca e della fatica
che costa in quei
luoghi il tagliar fuori l'essere una donna: smorza le pretese e fa tacere
domande che dalla propria esperienza di donne hanno origine e che potrebbero
se portate alla luce far più grande la scienza che circola.
Da
questo incontro inusuale nasce la comunità scientifica femminile
Ipazia. Il nome viene da una scienziata astronoma, matematica,
filosofa vissuta ad Alessandria nel IV secolo dopo Cristo.
Una comunità scientifica non è un gruppo, è innanzitutto
un luogo simbolico. Permette di porre questioni che altrove non avrebbero
legittimità, autorizza a scegliere come indirizzare la ricerca,
stabilisce a quali vincoli ci si deve attenere, giudica che cos'è
buona scienza: in una parola costituisce autorità.. Quello della
neutralità del soggetto è un vincolo inutile, un pregiudizio
radicato nel modo in cui la scienza si è costruita. Sarà
da questo momento in poi il fare riferimento ad altre donne, in Ipazia
o nel mondo, a dare legittimazione alla ricerca di ciascuna, forti
dell'autorità che la comunità produce. Autorità
scientifica autorità femminile si chiama il nostro primo
libro.
Considerando l'appartenenza al genere femminile fondante per la conoscenza
e rompendo la soggezione verso uno specialismo che pietrifica e non
orienta, nel libro si racconta il vantaggio che donne che vogliono fare
scienza traggono reciprocamente nel costituire le une verso le altre
metro di misura e giudizio, Ad esempio Marina Pasquali: aveva sperimentato
nel suo lavoro di biologa alla Divisione di Immunoematologia quanto
fosse ambiguo rispondere con percentuali sulle probabilità di
trasmissione del virus HIV alle donne sieropositive a rischio di maternità
e quanto questa impostazione non le fosse d'aiuto nel cercare la risposta
giusta con la donna che le era di
fronte. Del suo problema ha investito per prima le donne di Ipazia,
ricevendo da loro il coraggio di nominare nel contesto del suo lavoro
una differente cultura della maternità e della sessualità,
e di sostenere nel caso la rinuncia a una maternità a rischio.Si
mette in moto un laboratorio di ricerca. Alcune chiedono di entrare,
alcune se ne vanno, qualcuna bastandole di aver capito come spostarsi
dalla diffidenza che genera paura avendo fiducia in qualche donna che
pratica la scienza, qualcun'altra delusa che il lavoro non si indirizzi
tutto verso la critica alla scienza. La comunità non è
cieca nei confronti dei malanni e dei rischi del progresso scientifico
e tecnologico, ma sceglie di
intervenire laddove si aprono spiragli, dove si manifesta una contraddizione.
L'indagine ha inizio quando una di noi solleva una questione che le
sta a cuore, nata nel suo contesto di lavoro, da una circostanza che
si trova a vivere, da qualcosa che la tocca e la appassiona, e che sollecita
le altre. Convinte che i dati abbiano un senso, cerchiamo un ordine
che ci soddisfi: partiamo dalla nostra esperienza, leggiamo, interroghiamo
esperte, e talvolta esperti, di cui ci interessa il punto di vista originale
e libero. Ma soprattutto discutiamo, diamo ascolto a ciò che
sembra non adattarsi all'ipotesi e quindi spinge a interrogarsi ancora,
senza fretta di arrivare a una conclusione. E' la comunità
quella o quelle che si scelgono nel momento per fare comunità
- a dare la misura, a dire che c'è materia sufficiente per presentare
la questione al mondo, per verificarla chiamando altre e altri a discuterne.
Da qualche anno stiamo indagando le scienze che studiano gli esseri
viventi,
attirate da una contraddizione che le attraversa. Ogni vivente
è unico, irripetibile, si evolve nel tempo e non è mai
uguale a se stesso, si modifica nelle relazioni e negli scambi. D'altra
parte la scienza è nata per il bisogno di generalizzare, di trovare
un ordine, una regolarità nei fenomeni che studia, di cercare
le qualità comuni, intercambiabili, stabili, di ciò che
osserva. Come tener ferma questa esigenza senza cancellare l'unicità,
la variabilità e la mutevolezza che caratteristica gli esseri
viventi, la soggettività di ciascuna e di ciascuno che domanda
ascolto?
Questa
contraddizione - come tante altre che riguardano il nostro vivere di
donne nel mondo non ci interessa affrontarla da un punto di vista
astratto, ma perché nella ricerca siamo implicate a partire dalla
nostra esperienza. Pensiamo che sia ineliminabile, ma che sia possibile
articolarla, farla giocare, usarla come strumento di conoscenza. Abbiamo
chiamato questa questione la misura del vivente e
per ora costituisce il filo della nostra ricerca. Il nostro primo
laboratorio, per un desiderio di una di noi che era insegnante, è
stata la valutazione a scuola e nell'università. Noi riteniamo
che l'insegnamento sia una ricerca, infatti ogni insegnante si trova
davanti sempre nuovi soggetti, e deve continuamente adattare il
sapere alle loro domande e alle loro necessità. Per portare nella
scuola ciò che ritiene veramente significativo, rispetto alla
grande massa di conoscenze oggi disponibile e rispetto al senso che
intende dare al suo insegnamento, e per valutare quanto questa operazione
sia efficace, ha bisogno di una comunità scientifica, di
costituire luoghi di scambio con altre e altri in cui portare i propri
dubbi e ricevere autorizzazione e giudizio. L'insegnamento è
una relazione tra soggetti che all'interno di essa si modificano; ciò
che si misura, valutando, sono gli spostamenti e quindi è la
qualità di questa relazione. Abbiamo esaminato questa nostra
ipotesi all'interno di un convegno intitolato La misura del vivente
(di cui abbiamo pubblicato gli atti) con insegnanti, docenti universitari,
ricercatrici e ricercatori. Il progetto di autoriforma della scuola
è iniziato da quel convegno. Il secondo passo è stato
indagare che cosa voglia dire una medicina scientifica, e come
questo giochi con il dolore, la speranza e l'attesa di chi si trova
a vivere la malattia sulla propria pelle. Il sapere medico accumulato
in studi e ricerche sempre più sofisticate deve trovare
la risposta efficace per la singola o il singolo malato. Il Quaderno
Due per sapere, due per guarire dà conto di quel
che abbiamo saputo interrogandoci e facendo parlare mediche, ammalate,
infermiere, ricercatrici. Noi sosteniamo che solo mettendo al centro
la relazione tra chi cura e chi ammala e ciò che all'interno
di essa di unico si produce è possibile fondare la medicina come
scienza. In un rapporto dispari, tra chi ha dalla sua l'autorità
del sapere medico e chi d'altra parte è ben competente del proprio
corpo, se c'è incontro e disponibilità ad ascoltare, si
dà non solo la possibilità di una guarigione ma anche
l'avanzamento della ricerca medica. Siamo uscite dallo specialismo:
ci conforta il fatto di aver ricevuto ascolto e attenzione.
Questa presentazione della Comunità Ipazia
è apparsa nel volume
"Duemilauna. Donne che cambiano l'Italia.
A cura di Annarosa Buttarelli,
Luisa Muraro, Liliana Rampello
Pratiche Editrice, Milano, 2000