Oltre duecentomila invadono Milano
il femminismo torna, vince e avverte il palazzo

di Claudio Jampaglia

 
Milano, 14 gennaio 2006

Le streghe son tornate, sono “uscite dal silenzio” (come diceva lo striscione che apriva il corteo di ieri) e non sembrano disposte a tornarci. Una prova di forza ragionevole e festosa di 250mila (forse più) donne, in stragrande maggioranza, che ha riempito il 2006 di libertà e autodeterminazione.

Come una liberazione, come una promessa. Che fosse un appuntamento da non mancare era chiaro a tante, ma così grande nessuna se l’aspettava. E ora i conti si devono fare con loro.

La scale della metropolitana della Stazione centrale rigurgitano manifestanti come un perenne tapis roulant dalle viscere della città. Nella calca, ogni dieci metri, sono cartelli e saluti. Le prime che incontriamo sono le donne di Torino, portano al collo tante immagini della Cesira di Lupo Alberto che dice: “E’ nata prima la gallina”, col tamburello e una voce solista ballano la taranta di “pizzicherella mia” in cerchio.

E tutte sembrano essere state “pizzicate”, è un moto perpetuo che per ora attraverserà Milano fino a piazza del Duomo. Impossibile tenere il conto delle presenze, degli striscioni, degli slogan; c’è tutta l’Italia e ognuna ha il suo cartello. Fiocchi rosa e striscione, “Noi decidiamo comunque”, per il coordinamento donne di Bologna. “Soggetti non oggetti, se come quando e con chi vogliamo”, scrive il collettivo Quarantatette del centro sociale Magazzino 47 di Brescia. “Donne alla riscossa”, “Donne “(r) esistenti” da Milano a Catania (con l’Udi) che cantano: «Ruini, Ruini pensa ai tuoi casini». Per il Vaticano ce n’è di ogni. Oltre all’Unione atei e agnostici che porta decine di cartelli gialli: “Basta col governo del clero, vogliamo Zapatero”, uno degli slogan più gettonati è: «Gridate gridate tutte quante, fuori la chiesa dalle mutande». Ce n’è anche per il ministro della salute: «Storace, babbeo, beccati sto corteo». Ma meno, d’altronde si sa che parla per altri.  Ci sono le donne di Rifondazione sparse (e tanto partito da Milano), moltissime bandiere dei Ds, un blocco compatto di migliaia da Emilia, Romagna e Toscana con la Cgil.

Ma la più parte è slegata, creativa: donne, compagne, amiche. Per fortuna che doveva essere un “rito stanco”, a fine serata qualche migliaio di infreddolite continuavano a ballare sotto il palco in via di smontaggio. Un corteo come non se ne vedevano da mo’, politico, creativo.

Un gruppo non catalogabile, “Prima-vera libertà”, mette in piazza uomini travestiti da corvacci e lupi neri scacciati da donne con rami di fiori di carta. Ogni venti metri si inventano un nuovo slogan: «Libere di scegliere, libere di amare, questo movimento non si può fermare»; «Libere di vivere e di convivere». Libere.

Poco dietro gli striscioni della storia del movimento femminista italiano: le librerie e università delle donne, la rivista “Noi Donne”, i collettivi: «Le donne di oggi hanno memoria»; «Siamo invecchiate, ma sempre più arrabbiate», dicono. Ci sono le operatrici sociali: «Il corpo delle donne non è un contenitore, dai nostri consultori fuori gli obiettori». E tutta l’intelligenza di chi sa.

Malgrado i timori (e i gufi) della vigilia decine di migliaia sono le giovani, organizzate e non. Madri e figlie, amiche e sorelle. Se proprio volessimo cercare a tutti i costi la sfumatura delle assenze, manca un pezzetto della generazione di mezzo.

Ci sono anche tanti uomini, «quelli intelligenti» ricorderà l’attrice Debora Villa dal palco, che non riducono le donne a una cosa da dare o meno come un pacchetto. Gli uomini di “maschile plurale” portano cartelli sandwich, da un lato c’è scritto “vogliamo anche noi uscire dal silenzio”, dall’altro, “liberazione maschile”. Personalmente sottoscriviamo.

Sul palco, condotto da Ottavia Piccolo, non c’è calca e assembramento, qui non si viene per farsi vedere, ma per stare e dire. Così fanno Karina Scorzelli Vergara, mediatrice culturale cilena che racconta i consultori e le donne migranti, vero oggetto di una campagna sull’aborto usato come contraccettivo che grida vergogna. Fiorella Mattio giovane atipica a raccontare tempi e vita per chi rischia che «la precarietà è il contraccettivo del futuro». Assunta Sarlo, ancora incredula di cosa si è messo in movimento a partire da una sua mail intitolata “Usciamo dal silenzio”, è stravolta e scherzando promette di non farlo più. Ma non è vero: «Avevamo bisogno di guardarci in faccia, di sentirci, adesso abbiamo una responsabilità ancora più grande, questa piazza ce la siamo presa e dobbiamo continuare a incontrarci, ragionare, parlare, senza dare nulla per scontato e non lasciandone passare una. E’ ancora tutto da fare». Intanto attorno si balla, si ride. Lea Melandri è frastornata: «Ho dovuto congelare l’emozione, mi verrebbe da piangere per la gioia», dice a un’amica.

Sul palco, grazie alla diretta di Radio Popolare, arriva il saluto dei “tutti in Pacs” di Roma con Lella Costa che ricorderà come «ancora le donne si trovano a difendere il diritto più doloroso, perché a nessuna donna, a nessuna, piace abortire e siamo stanche di misoginia e di sentirci dire come dobbiamo vivere e comportarci con i nostri sentimenti e il nostro corpo in un mondo che ancora ammazza milioni di bambini nelle guerre».

Cristina Granellini di Arci-Lesbica, ricambia da Milano il saluto a Roma: «Le famiglie di fatto esistono, piaccia o no, e la libertà senza diritti è quella del liberismo, di chi può perché non ha bisogno». L’unico uomo invitato a parlare, Paolo Hendel, si conquista la platea con un secco: «Ammettiamolo, le donne sono nettamente più avanti degli uomini (e lo dico in quanto donna ovviamente)», e giù sui cavalli di battaglia sulla relazione tra embrione e Buttiglione, Storace e la Ru486 («crede sia un modello della Renault») e prelati: «Cardinali e vescovi non c’hanno la moglie a farli ragionare e l’uomo da solo non ce la fa». Nel fiume di letture con Maddalena Crippa e tante altre, solo Heidi Giuliani (con Rosa Pilo, madre di Davide “Dax” Cesare) non trova lo spazio di ricordare la vicenda di Federico Aldrovandi, picchiato a morte in un controllo di polizia a Ferrara. Lo facciamo noi.

Chiuderà Susanna Camusso, segretaria regionale della Cgil lombarda, tra le motrici dell’organizzazione: «Le donne non sono mai state zitte, abbiamo solo dato forza a tante voci disperse, continuiamo, con l’autorganizzazione, il lavoro collettivo, la partecipazione trasversale di questi mesi; che nessuno possa dire che è tornato il silenzio delle donne». Dalla resistenza alla riscossa: «Non si illudano che tutto torni come prima, vogliamo la sperimentazione della Ru486, la pillola del giorno dopo, consultori nelle scuole e la libertà delle donne alla base della politica dei prossimi anni».

Che peccato che di questo grande popolo laico e democratico, a maggioranza femminile, ci sia così poca rappresentanza politica. “Attenti le donne votano con la pancia”, scrivono le donne del Sud-Tirolo (su striscione bilingue). Hanno ragione (e vale anche per gli uomini) ma buona parte della politica se l’è scordato.  

 questo articolo è apparso su Liberazione del 15 gennaio 2006