Simboli e magia nelle arti delle donne kabyle

Makilam


Coltivare la terra

L’antica Kabylia è una tipica “società chiusa”, e ciò significa che la sua economia cerca solo di produrre ciò che è necessario per la sussistenza vitale degli abitanti. Ciascuna comunità vive con i prodotti della terra che è all’interno dei confini del villaggio, ed è dipendente dall’andamento delle stagioni. Produttività, profitto, competitività non sono le loro preoccupazioni, come non lo sono le esportazioni e le importazioni di “prodotti stranieri”, a meno che si vi sia un pesante periodo di carestia. E’ all’interno del gruppo familiare, che è esteso all’interno del villaggio, che si svolge il commercio, che si basa sul baratto. Il villaggio è il luogo della produzione, del consumo e della riproduzione. E’ quindi necessario evitare di proiettare la nostra concezione di epoca industriale basata sul profitto, sulla società tradizionale, rurale e pastorale della Kabylia. Non è corretto basare la nostra descrizione solo sulla struttura visibile della sua cultura materiale, per le seguenti ragioni. In questa società arcaica, rurale e agraria, la proprietà privata non esiste. Lo spazio e le terre dove vivono appartengono a tutti i membri della famiglia, perché la terra è una ricchezza sacra ereditata dagli Antenati/e e deve essere ritrasmessa ai discendenti. Inoltre, la coltivazione delle terre è un’impresa rituale che si svolge in accordo con il ciclo delle stagioni, in modo da evitare di forzare i raccolti e di disturbare l’evoluzione naturale. La terra è abitata dai guardiani tutelari e vive di una sua invisibile vita.

Pratiche rituali: circoscrivono tutte le attività di una società tradizionale. Ciò significa che le donne realizzano delle terrecotte fatte a mano, tessono o trasformano i prodotti della terra in cibo per gli esseri umani ripetendo gesti rituali e pratiche ancestrali, trasmesse di generazione in generazione, dalle madri alle figlie. In queste pratiche, i riti organizzano il procedere di un’attività, dalla sua preparazione fino al suo completamento. Non esiste alcuna “divisione del lavoro”, quanto piuttosto un insieme di fasi che si succedono una dopo l’altra nel tempo, in sintonia con il ciclo del sole e della luna nel cielo. Per avvicinarsi alla dimensione magica e spirituale di un’attività materiale, si deve prendere in considerazione la sua qualità complessiva per poter definire lo spirito della persona che è al centro del suo compimento. In sintonia con questo spirito, lo spazio e il tempo fanno parte di una sola unità, che è unica e unificante.

Queste tecniche (dell’Invisibile) derivano da una singola concezione di spazio e tempo, che sono in realtà, nelle menti di tutte le civiltà tradizionali, una sola e una stessa dimensione, mentre noi in Occidente le percepiamo come due diverse.

Gli abitanti della Kabylia vivono ogni giorno in simbiosi con la Natura e svolgono le attività che permettono la sussistenza corporea e spirituale seguendo il tempo dei cieli. Le relazioni tra gli esseri umani e l’ambiente naturale sono vincolati da una visione globale di unità cosmica. Ne consegue che l’essere umano considera se stesso o se stessa come facente parte integrale del macrocosmo; non sono dissociati da esso, come avviene secondo la nostra visione moderna. La magia dipende dalla posizione di ogni essere umano nel suo universo naturale, come pure dalla sua unità di tempo e spazio. Come conseguenza delle pratiche rituali, le relazioni di un essere umano sono determinate da un tipo particolare di associazione che collega ogni iniziativa un insieme cosmico. In base a questa concezione spirituale della vita, non è solo il risultato finale che conta, ma anche il rituale con il quale è stato eseguito, i mezzi sono importanti come la conclusione.

Siamo in presenza di un continuum di tipo spirituale. Ogni operazione tecnica è anche un’attività a livello dei simboli connessi con il lavoro - la “magia”, se si vuole.

Il culto della famiglia e degli Antenati

La distribuzione degli esseri umani della antica società kabyla sulla terra può essere vista come un mosaico di piccole comunità, ciascuna “straniera” rispetto alle altre. I villaggi sono liberi e indipendenti a tutti i livelli: politici, giudiziari, economici, e quindi sociali. Ogni villaggio assomiglia a una piccola repubblica governata dai suoi anziani. E’ l’assemblea che delibera e poi decide in base a “leggi orali”, chiamata anche legge non scritta kabyla, trasmessa dagli Antenati/e (quanuns). In questa organizzazione politica, non esistono giudici, non esiste una polizia, e non esistono prigioni. Un villaggio non ha mai cercato di soggiogarne uno vicino. L’organizzazione sociale di un villaggio tradizionale è basata sulla famiglia, non sugli individui. E’ formata dalla giustapposizione di cellule familiari, e ciò significa unità già organizzate. Le relazioni all’interno di questa società sono regolate dalle abitudini della endogamia di villaggio, che favorisce i matrimoni tra membri dello stesso villaggio. Le relazioni sociali sono quindi basate su legami di rapporti di sangue e sull’appartenenza a una terra comune. Ogni cosa è decisa in base alla parola data e non sulla carta, e per questo motivo non esiste un’amministrazione, un ufficio del registro o un catasto. L’identità sociale dei Kabyli consiste nel vivere come parte di un gruppo. Femmine e maschi si sentono responsabili dell’intera famiglia e c’è sempre un clan per difendere un uomo o una donna. Come risultato della coscienza collettiva degli Antenati/e kabyli, i membri di un gruppo non si sentono mai isolati, ma piuttosto si percepiscono ben protetti da tutti gli altri membri.

Tra i vivi e i morti della stessa famiglia non c’è una chiara divisione: gli uni e gli altri sono unità appartenenti a uno stesso insieme, che rappresenta tutto ciò che ha importanza. Una ragione in più, quindi, per cui non vi è alcuna distinzione tra i membri viventi della stessa famiglia.

Ciò che è tradizionalmente sacro: l’ambito del sacro è basato sulla famiglia che si estende in tutto il villaggio, in connessione con le relazioni determinate dallo spirito della responsabilità collettiva. E questa si trova negli esseri viventi e insieme anche negli Antenati/e. Questa è la ragione per cui possiamo parlare di una “religione” degli Antenati, o, più specificamente, di un culto. Secondo questa concezione spirituale della vita sociale, la persona umana è soltanto il veicolo con il quale gli antenati morti sono connessi con le loro conoscenze, vite e terre, che quindi devono essere trasmesse ai discendenti.

Questa coscienza religiosa condiziona tutti gli aspetti della vita delle persone e del gruppo. La sfera del sacro non si basa su una religione organizzata e sulle sue ideologie e nemmeno su delle sue istituzioni visibili, ma su pratiche sociali e rituali. In questa dimensione religiosa non esiste alcuna divisione tra il sacro e il profano. Il culto degli Antenati/e, non essendo oggetto di dogmi, è espresso in tutte le pratiche sociali, in relazioni rituali con la terra, con gli esseri umani e con tutta la Natura. L’Islam è riuscito a entrare nella Kabylia soltanto integrandosi con il culto degli Antenati/e. Nella sua forma marabutica, è assimilato con il culto dei Santi.

Nel lungo periodo iniziale, l’Islam ha solo aggiunto qualcosa ma non ha distrutto nulla, come avvenne poi.

E’ importante notare che l’Islam, basato sui testi sacri del Corano, è una religione degli uomini. Non ha avuto alcun effetto sulle donne kabyle della società tradizionale, che sono state tenute lontane dai testi scritti arabi e francesi, che non sono in grado di leggere. La “religione” delle donne si esprime nel culto della famiglia, in pratiche religiose attuate nel loro ambiente e nella gestione della chiaroveggenza e della cura all’interno del “sacro tradizionale”. La dimensione magica della loro esistenza, fisica, reale e ritualizzata, si manifesta costantemente nella vita quotidiana, dalla nascita alla morte. Può essere definita come una spiritualità che comprende l’unità della vita umana all’interno del macrocosmo. Corrisponde anche alla dimensione religiosa delle relazioni tra le donne e il loro ambiente naturale.

I segni magici e il ciclo della vita femminile nella tradizione kabyla.

La descrizione preliminare della società kabyla tradizionale ci ha permesso di far emergere una caratteristica fondamentale. I Kabyli appartengono a una civiltà basata sulla tradizione orale e sulla coltivazione della terra all’interno del villaggio di famiglia. Questi dati rappresentano la base dello spirito magico delle donne. In questo contesto, hanno creato le condizioni per la crescita di tre sequenze, su tre temi corrispondenti che, pur nella loro complessiva unità, determinano lo spirito magico della vita pratica e rituale della tradizione kabyla. Queste tre parti e i loro tre temi corrispondono anche alle aree scientifiche, nelle quali i metodologi del ventesimo secolo, come Dumézil, Levi-Strauss ed Eliade, hanno collocato i risultati delle loro ricerche sulle realtà umane delle altre società. Nella nostra civiltà, basata sulla parola scritta, non riusciamo più a percepire la dimensione unitaria e invisibile del mondo magico che ci avvolge nel suo insieme visibile, come invece fanno i popoli vicini alla Natura e come può fare una Kabyla. Di conseguenza, noi abbiamo distrutto l’unità di tutti gli elementi che compongono la vita, isolando ciascun pezzo d’informazione secondo un solo criterio. Questo fatto può essere osservato in tutta la letteratura sull’Altro. Lo studio di Levi-Strauss è basato sul criterio del pensiero mitico, quello di Dumézil sui fattori sociali e quello di Eliade sul sacro. All’interno dei limiti definiti dalla scrittura lineare, la ciclica e invisibile unità della dimensione magica nel pensiero e nelle vite delle donne kabile ci ha costretto a sviluppare una metodologia originale attraverso cui studiarle, secondo un modello orizzontale e verticale che unisca forme e contenuti. Queste tre sequenze, con i loro temi maggiori, rappresentano il progetto di questo libro, al pari del metodo ciclico basato sui dati raccolti nella ricerca … (pp.11-14)


Makilam, Symbols and Magic in the Arts of Kabyle Women, Peter Lang, New York 2007

 

La ricerca di Makilam sulla storia delle donne e della cultura berbera, una delle più antiche civiltà dell’Africa, dimostra che le pratiche magiche, i simboli grafici e i riti di passaggio delle donne kabyle permettono una nuova interpretazione della loro identità culturale, diversa da quella attribuita loro tradizionalmente dagli studiosi occidentali. Questa visione completamente nuova della grammatica simbolica delle “decorazioni” mirabilmente espressa sulle terrecotte, i tessuti, i tatuaggi e le mura di casa ci porta a riconsiderare il significato dell’arte kabila e arricchisce la conoscenza delle culture del Maghreb e del ruolo delle donne nelle società “tradizionali”.

Antropologa e storica, laureata all’università di Brema, Germania, Makilam è una nativa kabila, cresciuta in un villaggio berbero nel nord dell’Algeria fino all’età di diciassette anni. Da allora vive in Europa ma ha mantenuto un legame molto forte con le sue radici e la sua testimonianza, mescolata con le sue esperienze dirette, getta nuova luce sui miti e i riti di questa società che sta lentamente dissolvendosi.


18-02-2016

 

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