|   Le cinque vie  di Kaha La scrittura è  il territorio della libertà, per Kaha Mohamed Aden.    
      Da Mogadiscio a Pavia la  storia di un esilio e di una speranza Floriana  Lipparini 
   “Sono nata da una famiglia dove le donne  direttamente, nonna Xaawa e Suuban, oppure indirettamente, vedi nonna Xaliima,  intervenivano su quello che avveniva sotto la quercia, l’albero della  discussione. Sono nata da una famiglia dedita per generazioni allo studio del  Corano ma il mio nome non si trova fra le pagine del Corano. Il mio nome è un  omaggio, una strizzata d’occhio a tanta libertà cercata per l’indipendenza  dell’Africa, agli anni sessanta, quando sono nata. Kaaha: la luce che precede  il sole. Il sole forse sono gli stati indipendenti dell’Africa che dovevono  dare vita ad una storia nuova. Per adesso stiamo sguazzando nelle guerre…”
 Questo è un tema centrale nel racconto di sé che  Kaha Mohamed Aden prova a fare quando le chiedono di autopresentarsi. Ricordare  le sue tre nonne - la terza è una nonna elettiva, un legame importantissimo che  ha aiutato Kaha a porsi fuori dagli schemi tribali - significa rendere omaggio  a una genealogia matrilineare di donne forti per narrare quello che c’era prima  di una storia di guerra e di esilio, di appartenenze e rifiuti, di sogni e  sconfitte, di vite perdute e vite ricostruite.
 
 “Le vicende della guerra mi hanno sradicato  dall’immaginario somalo, dalla logica dei clan. Chi è somalo per nascita fa  parte di un clan, e io paradossalmente  sono  dovuta fuggire perché appartengo allo stesso clan del dittatore, anche se quel  dittatore è stato contestato dalla mia famiglia, e ha incarcerato mio padre.  Fino a poco tempo fa non riuscivo nemmeno a parlarne, era tutto sepolto nel mio  inconscio, e una mediazione col passato era impossibile perché non c’è più  quello che c’era prima”, mi dice Kaha nella sua luminosa casa di Pavia, la  città dove vive fin dal 1987.
 Kaha  ha lasciato Mogadiscio nel 1986, quando suo padre Mohamed Aden Sheikh, medico,  più volte ministro di Siad Barre, e promotore di fondamentali riforme in campo  sanitario e culturale, era in carcere già da quattro anni perché accusato di  dissidenza rispetto alle politiche di potere di un governo che diventava sempre  più autocratico. “Lo arrestarono nel 1982 e lo tennero in isolamento per sei  anni.  Lui faceva parte di quel gruppo di  intellettuali che volevano un vero socialismo africano e avevano sogni di  democrazia, progetti di libertà per le donne… Poi c’è stata la guerra con  l’Etiopia, la guerra per il potere che ha scatenato l’odio fra i clan,  costringendo ogni persona a perdere la propria individualità per identificarsi  a forza in un’identità legata al sangue, e precipitando la Somalia in una  spirale senza fine”, spiega.
 
 Il  sorgere della guerra civile e lo scatenarsi delle persecuzioni politiche contro  la sua famiglia l’hanno costretta a fuggire, a 20 anni, da quella  “somalitudine” in cui, dolorosamente, non era più possibile riconoscersi. Kaha  ha dovuto ricostruire la sua vita nell’esilio, a Pavia, studiando, lavorando e  coltivando anche la sua vocazione di scrittrice e autrice teatrale. Ha  collaborato al libro di Cristina Morini La  Serva Serve: le nuove forzate del lavoro domestico (Derive/Approdi 2001),  ha pubblicato nel 2010 per Nottetempo il libro Fra-intendimenti; tra i suoi testi teatrali ricordiamo Mettiti nei miei panni; memoria, complicità  e legami tra donne attraverso la storia di abiti e tradizioni lontane.
 
 L’ultimo libro, una raccolta di racconti che  s’intitola Fra-intendimenti (Nottetempo, 2010), ha avuto ottime recensioni e viene presentato con successo  in Italia e all’estero.
 In quegli scritti Kaha ha narrato il conflitto che  fa parte della sua vita, tra i due mondi cui appartiene e che le appartengono:  “La Somalia dei miei ricordi familiari, le mie nonne, la mia casa, le  acacie,  il profumo del tè allo zenzero e  al cardamomo, ma anche la guerra tra i clan, le violenze, i bambini soldato… E  l’Italia dell’accoglienza, dello studio, delle amicizie e degli amori, ma anche  l’Italia della cieca burocrazia, dei pregiudizi, dell’oscurantismo e anche del  razzismo legato al colore della pelle. Per quanti uomini una donna nera è  automaticamente una prostituta?”.
 Il passaporto è arrivato nel 2008, ma per molti anni  Kaha ha dovuto affrontare un’assurda trafila di carte e documenti che non  bastavano mai, avanti e indietro dagli uffici immigrazione: “La mia situazione  era assurda. Lo stato somalo era imploso, la mia ambasciata non c’era più,  l’unica cittadinanza che mi veniva offerta con semplicità era quella del clan e  io non la volevo. Di fatto ero apolide, ma l’Italia non mi riconosceva  ufficialmente questo status. Mi sentivo disillusa. Se tua madre non ti  accettasse più, come potresti pensare che qualcun altro ti accetti?”.
         Per fortuna Kaha non ha conosciuto soltanto i  meandri della burocrazia o i corridoi dei collegi. Nella Pavia aperta,  universitaria,  è riuscita a crearsi un mondo ricco di interessi  e rapporti. “Tessere relazioni è la mia specialità”, dice con un gran sorriso.  “A me piacciono gli umani”. Tuttavia nella sua nuova vita manca quell’altrove  indefinibile che è rappresentato dalla condivisione di un passato, di una  cultura, di una leggenda, di una tradizione, di una poetica… Il profumo  dell’aria, una luce speciale, un cibo…         Come uscire dall’esilio e dalla nostalgia, quando si  fa sentire? “Attraverso la scrittura costruisco un mondo insieme a chi mi legge  e mi ascolta. Uso l’italiano, ma con uno stile narrativo somalo molto vicino  alla cultura orale. Così esco dagli schemi che mi vorrebbero divisa in due e mi  creo un’alternativa. La scrittura è il territorio della mia libertà. Decido io  chi sono, anche politicamente”.         Tramite la cultura orale di tradizione somala, Kaha  ha trovato un modo tutto suo per dire chi è lei, cos’è per lei Mogadiscio, la  città dove è nata e che ha dovuto abbandonare, cos’è per lei la Somalia, e in  questo modo è riuscita a costruire un ponte immaginario fra il suo passato e il  suo presente. Tenendo sullo sfondo le mura dell’università pavese e l’immagine  del fiume, ha ideato una performance fatta di parole e immagini, che poi il  ricercatore Simone Brioni ha trasformato in un video, La quarta via (vedi il trailer su youtube), dove scorrono  filmati e foto d’archivio. “Ricostruisco  la Mogadiscio distrutta dalla guerra mettendo insieme geografia e storia. La quarta via è divisa in quattro parti  e quattro colori. Verde: lo spazio, la storia, l’architettura, il passato.  Nero: il colonialismo, il fascismo, l’Arco di Trionfo, il centro all’italiana.  Rosso: le donne, l’indipendenza, la modernità, la via socialista. Grigio: la  guerra civile, le macerie, uomini che decidono che la vita non interessa e  distruggono quel che c’era prima. Ma la storia non si ferma qui. C’è una quinta  via: la speranza, la capacità di vivere di nuovo insieme, come già è accaduto e  come ancora deve essere possibile”.   Intervista pubblicata sul numero 162 di "Guerre&Pace"  17-06-2012
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