Tremate, le artiste son tornate

di Alessandra Mammì

 


Kiki Smith

 

 

Volevamo tutto e abbiamo usato tutto. Tutti i linguaggi, tutte le tecniche. Il nostro spazio, la nostra vita, il nostro corpo. Ed ecco cosa è successo: a quarant'anni di distanza noi 'artiste degli anni Settanta', femministe o meno, siamo studiate come un fenomeno... Lo dice Kiki Smith, tra questi 'fenomeni', uno dei più riusciti. Basta guardarla nella galleria di Lorcan O'Neill a Roma: tutti affaccendati dalla mostra in allestimento e lei paciosa a ricalcare in punta di pennello un mazzo di fiori che galleggia nella grande carta paglierina, stazzonata come un cencio di lino grezzo.

Talmente presa dai suoi fiori che non si è neanche sicuri stia ascoltando la domanda: Signora Smith, che cosa hanno di tanto speciale le donne artiste della sua generazione? Queste signore nate come lei nel dopoguerra ed esplose sulla scena post Sessantotto in nome di una rivoluzione nell'arte e nella vita? Perché tutti all'improvviso si occupano di loro? È cronaca recente: il Centre Pompidou che dedica a 'Elles@centrepompidou' un anno e mezzo e un intero piano (il secondo del Beaubourg; da maggio 2009 a febbraio 2011). 'L'avanguardia femminista anni Settanta' che si trasforma in una mostra itinerante e viaggia nel 2010 toccando Vienna e la Galleria nazionale d'Arte Moderna di Roma. Il Moma a New York che da mesi sta facendo partire, in varie rassegne, una ricognizione a tutto tondo sulle pioniere creative: artiste plastiche, fotografe, filmaker.

Macché distratta. Kiki intinge il pennello nella tempera nera e correggendo lo stelo di un fiore risponde puntuale: 'Abbiamo aperto gli occhi, ci siamo guardate intorno, abbiamo parlato della vita che ci circonda e della nostra vita dimostrando che la creatività non è manifestazione solo mentale o ideologica, ma anche fisica. Penso alla fotografia. Considerata arte minore per molto tempo. Sono le donne che l'hanno usata come strumento di indagine sui loro spazi e sui loro corpi. Penso al disegno, quello che si compone da solo quasi automaticamente su un quaderno. Foto, disegni, decorazioni sono state le donne a OAS_RICH('Middle'); tirarli fuori dai cassetti e trasformarli in un diario di vita da tramandare ai figli'.

Figli spirituali, s'intende. Ovvero gli attuali trentenni creativi che passano dal disegno al video, dando forma ad amori e ossessioni molto private. Decisamente più vicini alle madri che ai padri, artisti più concettuali e algidi. Kiki di algido invece non ha proprio niente. Dipinge, scolpisce, disegna con una sapienza artigianale rara e grande cultura visiva. Da dove arriva tanta esperienza? Il pennello scivola sui contorni di una corolla e lei racconta.

Racconta la storia di una bimba prodigio, cresciuta in una famiglia cattolica di artisti e artigiani. Figlia di papà Tony Smith scultore minimalista, mamma Jane Lawrence cantante lirica, sorella Seaton anche lei artista visiva, ma soprattutto nipote di un nonno irlandese intagliatore di altari che conosceva tutte le storie di santi e martiri e le trasformava in favole belle e terribili. La creativa famiglia Smith era molto unita. Come nelle tradizioni da epopea americana, viveva in una grande casa del New Jersey, con giardino, soffitta e cantina piene di cose. Ma soprattutto una grande cucina con grande tavolo sempre pieno di donne sgonnellanti e indaffarate: ora a cucinare, ora a stirare, ora a rigovernare. Non esisteva la televisione e nessuno portava i bambini al cinema. In compenso si imparava a disegnare, cucinare, impastare tanto il pane che la creta. A volte una dopo l'altro sullo stesso tavolo. Da qui che arriva il mondo di Kiki, fatto di immagini costruite con le mani, come gli oggetti dei primi coloni. Quilt e mobili rustici, un gusto sofisticato e primitivo insieme, un mondo di incubi e di fate. Zucche di Halloween e marmellate di lamponi. Chimere, arpie, uccellini, coniglietti, stelle, sirene e tante bambine. Un mondo fatto di gesso e vetro, matita e bronzo, legno e carta. Un universo ancorato nella memoria che affiora dalle ombre di una casa dal tetto aguzzo da Settecento americano. 'Quella casa e tante altre case come quella sono la fonte del mio vocabolario. Si possono amare le decorazioni e usarle per scrivere in un altro linguaggio', dice lei. Ovvero: il linguaggio alto delle avanguardie, precisiamo noi.

Lei insiste nel ricalcare il fiore e nel ribadire il principio che sono le arti popolari a custodire la verità: 'Per esempio la verità semplice di una vita quotidiana, fatta di gente che lavora, si affanna, costruisce cose, fa gesti. Sono rimasta incantata da un piccolo quadro del Settecento che ritraeva una donna stanca. E ho pensato a quante donne esauste incontravo

da L'Espresso di 1 ottobre 2010