La storia manichea
di Lea
Melandri
Antonella Prota
Giurleo
Uno dei luoghi comuni, per non dire dei capisaldi, delle analisi politiche
è l'idea di "strumentalità". In un recente articolo di Sergio Romano, sul
Corriere della sera, relativo alle vicende che hanno accompagnato la
liberazione di Giuliana Sgrena, il "rischio" che qualcuno faccia "uso" di
una situazione per i propri fini si moltiplica tanto da coinvolgere in
vario modo tutte le parti in causa, anche se prevale, per nulla celata, la
convinzione che a cadere in questo "vizio" sia soprattutto la sinistra. Il
corrispettivo di questa visione machiavellica, che separa mezzi e
finalità, alludendo indirettamente all'esistenza di un agire politico
"vergine" di compromessi, è, per quanto riguarda il lettore-spettatore,
una non meno radicata sfiducia verso tutti i protagonisti della politica,
accomunati dal sospetto di obbedire all'unico improrogabile imperativo del
proprio utile.
Di Giuliana Sgrena si sarebbero serviti innanzi tutto i rapitori: per
muovere compassione nell'opinione pubblica e per garantirsi risonanza
mediatica, essendo lei donna e giornalista, per mobilitare le piazze
contro gli Usa, in virtù del suo impegno per la pace. Di lei e del tragico
viaggio verso l'aereo che doveva condurla finalmente libera in Italia - in
cui ha perso la vita il suo salvatore, Nicola Calipari- avrebbero poi
tratto profitto tutti quelli che le sono stati solidali, a partire dagli
amici e colleghi del Manifesto, convinti assertori della necessità di
ritirare il contingente italiano dall'Iraq, e, infine, entrambi gli
schieramenti politici, centro-destra e centro-sinistra, decisi a spaccare
il paese in due. Una chiave interpretativa così totalizzante, e così
universalmente condivisa da passare inosservata, meriterebbe quanto meno
una breve riflessione.
Innanzi tutto, la strumentalità è attribuita quasi esclusivamente al più
debole e all'avversario. E' difficile sentir dire che gli Stati Uniti
"usano" della loro superiorità economica e militare per controllare a
proprio vantaggio il resto del mondo. Suona più "naturale" l'opinione che
essi "sono" una grande potenza e che questo li legittima a una "missione"
salvatrice presso tutti gli altri popoli. La stessa distinzione vale
quando si confronta la morte di civili causata dalle più sofisticate
tecnologie belliche, e quella che consegue all' "uso" che un nemico
"barbaro" e spietato fa del suo corpo come arma. Una volta posta un'unità
di misura -ed è chiaro che a porla sono sempre storicamente i più forti-,
la sua credibilità non ha più motivo di essere interrogata, per cui viene
lasciata allo scoperto soltanto la gamma infinita delle trasgressioni
possibili. La scelta della nonviolenza, all'interno di una civiltà che si
sta trasformando in un sistema di guerra, è giudicata, nel migliore dei
casi un'utopia, nel peggiore un espediente al servizio di nascoste mire di
potere.
All'oppositore, all'avversario politico, non si fa mai credito di dire
quello che dice, si sospetta che nasconda dell'altro, che sia
fondamentalmente in mala fede.
In sostanza, l'unico legittimato ad avere una visione del mondo è chi, di
volta in volta, ne decide le sorti, convinto dell'eternità e quindi
immodificabilità del suo potere. Nel conflitto politico, e nelle guerre in
cui finora "fatalmente" ha sempre finito per confluire, non si da mai, a
guardare bene, confronto di analisi, prospettive, opinioni diverse sulla
convivenza umana, né sembra che abbia alcun peso sapere che la storia è
fatta di mutamenti, che il confine tra reale e possibile non si definisce
una volta per sempre.
Tutto ciò che si oppone all'esistente e che preme per il cambiamento si
colora subito come una minaccia; ogni rappresentazione alternativa della
società è sospetta di essere solo la maschera di mire inconfessabili.
La semplificazione con cui si riducono forze avversarie alla polarità Bene
e Male è meno fantastica di quanto sembri, se si tiene conto di quell'azzeramento
che si produce quando si nega all'oppositore di avere una propria visione
di cosa sia bene e male, giusto e ingiusto, utile e dannoso alla vita
collettiva. Tutte le forme di dominio che si sono imposte nella storia, a
partire da quella maschile, che affonda le sue radici nell'enigma delle
origini, sembra che si possano sposare soltanto con la propria ombra, con
l'incubo di una "nemesi" che cova sotterraneamente e che non ha mai il
volto di un proprio simile. Tale è stata per la comunità storica maschile
quella femmina/non-uomo, quel "sesso che non è un sesso", che si è
lasciato a fianco come insidia permanente, memoria di un'"infamia" non
riconosciuta come tale. Le donne non hanno mai avuto finora - come ha
scritto Sibilla Aleramo - un'intelligenza propria del mondo, ma solo il
"riflesso" di una rappresentazione di altri "aprioristicamente ammessa" e
solo in tempi più vicini a noi portata alla coscienza.
Chi ha detto che dopo l'11 settembre 2001 niente sarebbe stato più come
prima confidava evidentemente sulla possibilità che dall'ombra gettata sul
mondo dalle potenze occidentali potessero sorgere immediatamente i volti
riconoscibili dei molteplici "altri" che gli sono stati compagni in un
lungo tragitto di storia. Se questo sta già avvenendo di fatto - la
progressiva perdita di centralità, per non dire la crisi in cui è entrata
la civiltà occidentale -, l'immagine che si continua a darne è diventata,
al contrario, più arrogante, sintesi perfetta e in sé completa di coppie
di opposti: guerra e pace, distruzione e rifondazione, morte e vita,
ferocia e umanitarismo, occupazione e democrazia.
Ritornando alle vicende più recenti, i rapimenti in Iraq, in particolare
quello di Simona Pari, Simona Torretta e Giuliana Sgrena, ciò che irrita
maggiormente i paladini dell'ordine esistente è il sospetto che la
posizione di vittima -incarnata qui alla perfezione dalla figura femminile
sacrificale e muta per sua "natura" - possa essere "usata" per far
risaltare agli occhi del mondo gli orrori della guerra e l'arroganza di
chi pretende di affermare attraverso di essa la sua "superiore" civiltà.
Se si può sopportare che gli apparati dello Stato abbiano contribuito alla
liberazione degli ostaggi, diventa invece inammissibile che siano proprio
quelle vicende drammatiche, vissute da testimoni in grado di raccontarle,
o di mostrarle indirettamente con la loro morte, come nel caso di Calipari,
a orientare diversamente l'opinione pubblica, a imporre uno sguardo nuovo,
più efficace di qualsiasi verità giornalistica.
La vittima che ha goduto di una insperata e, trattandosi di donne ribelli
al loro destino domestico, immeritata salvezza, non può a sua volta farsi
protagonista, se non come "strumento" nelle mani di altri. Non è bastato
evidentemente neppure il documentato impegno politico e professionale di
Giuliana Sgrena, il generoso volontariato di Simona Pari e Simona
Torretta, a dare corpo e pensiero a un dissenso che deve restare, per chi
lo avversa, soltanto un'ombra, un vuoto, un rumore di fondo da tenere a
bada.
questo articolo è apparso su
Liberazione del 22
marzo 2005
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