LA GUERRA E IL SILENZIO DELLE DONNE

INCONTRO DEL 13 APRILE 1999

Serena Io credo che il silenzio in questo fragore di bombe sia di tutti: c’è un silenzio delle donne, c'è un silenzio degli uomini, c’è un silenzio di tutti. È una sensazione che sto provando come donna, che sento in amici uomini, che sento nel luogo di lavoro, in persone che in questi giorni in modi diversi si impegnano. ’è poi un silenzio, a mio parere, ancora più grande, enorme, in coloro che stanno "facendo" la guerra. In questo rumore ci sono vari silenzi. C’è questo silenzio dei guerrafondai: la Nato, per esempio, che ci fa vedere il nulla, il famoso "effetto-Cnn": a Baghdad erano il cielo verde, i tracciati; adesso abbiamo i briefing della Nato con i videogame, con questi luoghi privi di corpi, tracce di territorio, gli esseri umani non appaiono, non camminano, non muoiono.

Il mio silenzio e il silenzio degli altri: il silenzio della Nato, il silenzio di Milosevic, il silenzio di tutti perché noi vediamo i cieli, i bombardamenti, immaginiamo i corpi. C’è un silenzio di tutti noi in cui si mescolano varie cose: allora, ci può essere un silenzio che è produttivo ed è il silenzio in cui io elaboro memoria che mi permette poi un fare; c’è invece il silenzio del rumore o del nulla, di cui parlavo prima, e che è uno strumento straordinario, su cui varrebbe la pena di indagare più a fondo, che produce, nelle sue diverse modalità, indifferenza, adesione, impotenza. Io credo che noi - parlo di noi donne femministe - stiamo pagando lo scotto altissimo di non avere capito davvero la svolta epocale, ma non dall’ottantanove: io credo davvero che non abbiamo capito gli anni ’80, abbiamo sottovalutato gli sconvolgimenti epocali che si stavano creando e non abbiamo fatto i conti con una nostra profonda sconfitta. In questi anni in qualche modo sono riuscita a sopravvivere, al di là degli accadimenti personali, perché ritenevo, negli interstizi che mi creavo - insegno - di riuscire comunque a fare politica. Io insegno Diritto, e sono in obiezione di coscienza con i miei studenti da quando è iniziata la guerra, nel senso che lavoriamo solo su questo. Eppure questa scelta, così come i famosi interstizi, per la prima volta mi danno quasi un senso di fastidio, perché mi sembra di non avere, in tutti questi anni, fatto abbastanza. Mi sembra che i gruppi con le donne, le esperienze a scuola ecc. ecc., in qualche modo mi abbiano gratificata, fatta crescere, mi abbiano dato felicità, anche allegria, pensiero ma, nello stesso tempo, una totale incapacità - e questo riguarda me, non voglio fare un discorso generale anche se ritengo che purtroppo in parte lo sia - di prevedere fino in fondo la gravità di quello che stava succedendo.

Abbiamo il dovere di misurarci, insieme, con quello che sta succedendo e di cercare parole che non siano quelle che stiamo sentendo in questi giorni. Non ho altro che un tentativo di ricerca, ancora; non voglio però che sia l’innamorarmi di altre parole. Mi è capitato in questi giorni di litigare con un’amica: c’è la guerra e lei continuava a parlarmi del "simbolico". Io voglio invece pensare e trovare qualcos’altro, oltre e accanto al simbolico, e anche ad esso collegabile. So bene quanta valenza assume il simbolico negli accadimenti di questi giorni, perché la mia impotenza, ad esempio, è legata anche a questa onnipotenza tecnologica, oppure a questa "spiritualità" che i media affiancano alle armi che così vengono coperte o giustificate. Mi viene in mente in questi giorni la canzone di De Andrè, Domenica delle salme. Guardate quante parole ci stanno prendendo: l’umanità, l’umanitarismo, la missione arcobaleno. Tra un po’ arriveremo a santificare la retorica del soldato, perché l’intervento di terra sarà inevitabile...

In tutto questo orrore c’è quello che Fortini chiamava il rumore. Attenzione, perché noi nel rumore rischiamo il deserto mentale, perché c’è il silenzio che ti permette di costruire pensiero e c’è il silenzio che ti distrugge la possibilità di ragionare e di riflettere.

Gianna La cosa che mi chiedo è perché parliamo quasi sempre di altre parole. Non sento mai nominare la parola azione come se le donne non potessero fare delle azioni significative.

Sandra E’ da quando è scoppiata questa guerra che mi domando quali azioni possiamo fare. Io credo che questo sia un problema molto diffuso, siamo in molti a non riuscire a capire quali strumenti possiamo utilizzare, al di là dell’andare in manifestazione, che non riesco a capire quanto e se è efficace. Io in questo momento sento necessità di elaborazione, che non serve a fermare questa guerra, però forse può servire a capire che cosa succede.

Io credo che ci sia da parte di molte persone un’incapacità di trovare le parole e le modalità per dire il proprio dissenso. Trovo che alcuni modi di obiettare alla guerra siano diventati inutili perché non hanno alcuna possibilità di influire sulla politica alta. Non ho purtroppo nessuna grande idea da proporre, l’unica cosa che mi sono sentita di fare in questo periodo è stato di cercare di affrontare questo argomento da più parti, prima di tutto cercando di informarmi, perché non credo sia possibile affrontare questa cosa soltanto sul piano del simbolico, e che sia necessario anche avere degli strumenti tradizionali, di tipo economico e geopolitico. Ho quindi cercato di recuperare informazioni da più canali possibili e, in questo senso, il mio desiderio è di trovare un raccordo tra l’elaborazione che le donne fanno, che in questo luogo si fanno, rispetto agli aspetti simbolici della guerra e il discorso più politico, di interpretazione dei fatti.

A me è venuta voglia di cercare un raccordo tra l’esterno e le cose che ci diciamo qui, che rischiano di non uscire da qui, perché, io credo, se vogliamo fare politica dobbiamo anche acquisire degli strumenti più politici, non perché siano migliori, ma soltanto perché forse è l’unico modo per entrare in comunicazione con l’esterno. Bisognerà, poi, comunque lavorare sulla multiculturalità in Italia, se non vogliamo permettere alla cultura dominante di trasformare chiunque sia diverso da te nel nemico.

Silvia Volevo partire proprio da come ho vissuto io questi giorni di guerra. Ho delle donne in casa molto forti: mia mamma e mia nonna, con cui mi confronto costantemente anche in questi momenti di grande rabbia, per noi collettiva, almeno tra noi, nel nostro microcosmo (diverso e più difficile è come ciascuna la gestisce col mondo di fuori). Vorrei raccontarvi alcune parole che ci siamo dette e che per me sono state importanti. Mia nonna mi ha molto colpita perché lei (una persona sempre molto presente con la testa, ma non una "rivoluzionaria", una che mai è scesa in piazza a difendere chissà quali diritti, principi e idee), lei questa volta è esplosa, perché era proprio arrabbiatissima e mi ha detto: "Quando tutte le donne del mondo, o almeno del nostro paese, o almeno della nostra città uscissero in strada, tutte insieme, a gridare ‘No!’, sarà un bel giorno". Io so che questo è già successo, io ero piccola, ma è successo in qualche modo, almeno dai racconti che ho avuto da donne più grandi di me. Attraverso le parole di mia nonna ho scoperto che, anche se molte cose sono cambiate da allora, ho bisogno di questa visibilità delle donne come gruppo, che non c’è. Ed è proprio questo discorso del dentro/fuori, del fatto che ci sono associazioni importanti come questa, in cui una donna si può trovare e trovare le parole anche giuste, le proprie parole, specchiarsi o no in quelle delle altre, e confrontarsi; c’è tutto questo, ma manca una visibilità. Poi c’è mia madre, che invece voleva andare a sdraiarsi sulla pista di Aviano, perché lei è un po’ così, è rimasta dura e pura, e io ogni volta davanti a queste cose non so mai cosa dirle, mi sembra sempre fuori luogo, però non oso mai dire niente. E poi ci sono io e le ragazze della mia generazione e noi non sappiamo bene come muoverci - alle manifestazioni si va, in qualche modo politica si cerca di farla, ma trovare un luogo che possiamo sentire come nostro continua ad essere difficile. Vi posso dire quel poco che stiamo cercando di fare noi, e che possiamo condividere se qualcuna di voi lo desidera. Io e Glenda, l’amica che è qui, da varie esperienze comuni, di teatro e di politica diverse, stiamo cercando di fare nascere in questi giorni una specie di coordinamento per attivarci sulla città, per non rischiare di fossilizzarci solo in alcuni momenti di protesta collettiva, a volte anche violenti - come è capitato ad Aviano - ma per partire dal nostro territorio e mobilitare alcuni luoghi vitali o importanti della città, che decideremo insieme. È un’esperienza che sta nascendo, vedremo insieme cosa riusciremo a fare. Non è un’iniziativa solo femminile, parteciperanno gruppi di donne e uomini.

Zina Io pensavo invece che sarebbe anche molto importante creare dei collegamenti con persone, possibilmente donne, per mandare degli aiuti concreti: viveri, indumenti, qualsiasi tipo di cosa che possa servire in questi casi. E comunque creare proprio un collegamento con delle persone che ognuna di noi conosce là, più che la manifestazione qui, che comunque è bene si faccia, perché il silenzio è sempre negativo.

Gabriella Penso che ormai per questa guerra non ci sia più niente da fare, penso sia ormai troppo tardi. Adesso il problema da porsi è: che cosa facciamo per le prossime? Abbiamo una teoria, abbiamo un programma o siamo qui a tappare buchi? Perché quello che fanno l’ONU, gli Stati Uniti e la Nato è tappare un buco, e occorrerebbe che ci sia qualcuno che si muova un poco prima. Il discorso dei media c’entra molto con questo, ed è anche un discorso nostro, specifico, di teoria coerente. Penso ad un discorso sulla vita, un discorso contrapposto a quello cattolico sullo spirito e sull’anima: un discorso sul corpo. Questo cattolicesimo, questa chiesa che si muove in tutti gli angoli della Terra per difendere, in nome dell’anima, i più diseredati, a curare i lebbrosi a destra e a manca, si occupa molto dei corpi. Allora che effetto avrebbe un discorso che si occupa in teoria dei corpi? Un discorso che difenda i corpi contro qualsiasi strumentalizzazione?

Paola La prima cosa che mi è venuta in mente è "Finalmente vado e tiro fuori due rospi". Io mi ricordo una Livia Turco, una Laura Balbo, noi donne, tutte contro, schierate, il femminile, la differenza... oh, non ne ho sentita una! Queste donne che venivano a contarmela su, a me che ero piccoletta, che stavo lì, che stavo lì attentissima sul genere, le parole, la differenza... Luce Irigaray, che palle, peggio del Bignami, la Luce Irigaray… Io la prima mozione, ragazze, scusate se ve lo dico, è di mandarle quantomeno due righette, molto educate, ma dirle: "quant’è bello il cadreghino, il potere è mascolino".

Di concreto io so di sicuro che le "donne in nero" a Belgrado sono un po’ nascoste, non hanno vita semplice. So che a Pancevo la vita non è semplice. A me la cosa che preoccupa molto è che durante la guerra del Golfo facevano vedere le bombe, i bombardamenti, i cieli e tutto, qua fanno vedere questi profughi che camminano mentre a Belgrado hanno bombardato i ponti, la ferrovia e adesso le fabbriche. E queste donne, le poche che sono riuscita a sentire, amiche di Belgrado, stanno nelle cantine. Mentre i profughi scappano al limite anche affrontando strade a 2400 metri, al freddo, queste qua sono lì, cioè il cerchio nel cerchio: dalla dittatura al taglio delle vie di comunicazione e non hanno più economia, e questa gente viene da un embargo. E allora io mi sento sorella. Mi sento sorella delle kosovare.

Sugli aiuti vi dico solo questo: a me piacerebbe riuscire come donne a vedere se è possibile tenere su qualche rete. Vorrei non solo che si raccolgano questi aiuti, come donne subito prese dal fare, dal riempire, dal curare. Mi interesserebbe però che queste cose venissero fatte con un’intelligenza, che ci è nostra, che non è stipare il container, ma piuttosto riuscire a essere collegate e a creare perlomeno una rete. Io pensavo alle "donne in nero" perché, indipendentemente dall’etichetta, mi sembra un’esperienza che funziona abbastanza: noi siamo andate in Serbia, loro sono venute anche qua e tante donne sono state coinvolte in questi scambi. Per noi donne sarebbe interessante avere una presenza nei campi, già ci sono state delle ragazze, essere lì comunque a condividere e cercare di costruire, soprattutto per il dopo.

Mia Non è possibile iniziare un discorso senza almeno il desiderio dell’informazione, la più ampia possibile, e almeno cercare di capire in che situazione ci stiamo trovando. Ci sono vari livelli di discussione. Il denaro, per esempio. Perché tutti questi miliardi per la guerra? Se li adoperavano prima per aiutare questi popoli a tirarsi fuori dei loro casini... Io non so dare delle risposte. Mi pongo però degli interrogativi: perché l’America ha aspettato tanto a prevedere una guerra, perché non ci ha pensato prima a rifiutare questo? Ci troviamo di fronte a situazioni terribili. Questo è un altro piano rispetto agli aiuti. Qui si tratta di gente che non rifiuta la guerra.

Sara Io lavoro tutto il giorno con il computer e per me Internet è stata una fonte notevole di informazione, sia come collegamento con le donne (ci sono diverse mailing liste in cui le donne si confrontano), sia come informazione alternativa, perché è possibile ricevere messaggi dalla Serbia e dalla Jugoslavia in generale. È un modo comunque per entrare in contatto con loro, e anche per confrontarsi con le altre donne un po’ in tutta Italia.

Berta Ma perché io, che sono una donna, devo fare dei figli per mandarli a morire? Questo è ciò che sentivo profondamente, proprio nella pancia, nel cuore, a prescindere dal fatto che una fa o non fa figli. Abbiamo un corpo che è fatto per fare dei figli, se si vuole farli, e io devo fare dei figli per farli morire? Se ci muoviamo sulla logica di chi ha ragione, io mi sento perduta. Ognuno può avere quel pizzico di ragione e l’altro, anche se mi ammazza, anche l’altro ha la sua ragione. L’unica ragione che sento di avere è che non può cominciare una scintilla, perché una scintilla di guerra non sai come va a finire, è la morte. Ed è l’unica cosa che io non posso accettare. Anche anni fa, dicevo: ma se noi, in Italia, ci mettessimo centomila persone, cinquantamila, diecimila, ventimila stesi per terra, per tre giorni, un giorno, sei ore, cinque ore, stesi, a fare una resistenza passiva, senza armi, senza niente, a stare lì, bloccare tutto il traffico di una città enorme, stesi. Voglio vedere se ci ammazzano in cinquantamila.

Wanda Ma se quelle cinquantamila donne albanesi si fossero stese per terra nel Kosovo, Milosevic che cosa avrebbe fatto? Le avrebbe fatte fuori tutte. Io oggi non so dire chi ha ragione. Io so solo una cosa: sono contro la guerra. Mi ha colpito in questi giorni un discorso che ho sentito fare da un giovane, un serbo, che diceva: io credo che sia giunto il momento di dimenticare tutta la questione di "etnicità", dimenticare la storia, visto che tutto sommato non ci ha dato grandi insegnamenti; dimenticare non vuol dire non mantenere la memoria, ma cancellare definitivamente tutto quanto è etnicità, la grande gloria della Serbia, il mio territorio, ecc., e mettere come primo valore il valore della vita. Io credo che bisogna davvero modificare il paradigma culturale rispetto al valore della vita. Finora noi abbiamo fatto un’Europa, un’Europa esclusivamente dal punto di vista economico. Speriamo di arrivare a fare l’Europa anche dal punto di vista culturale e porre come paradigma culturale un’Europa che abbia come prospettiva progetti mondiali, non solo di gente che vive in Europa.

Silvia Mi lascia perplessa il discorso che faceva Wanda, quando ha detto che se le donne albanesi si fossero sdraiate per terra probabilmente Milosevic ci sarebbe passato sopra con i carri armati. Non lo so, magari sì; ma il mio problema non è Milosevic, è qui. E io credo che la maggioranza delle persone che vivono in questa città sia abituata a passare sopra alle persone che vedono sdraiate per terra, occorre un’azione scatenante in grado di coinvolgere seriamente le persone. O c’è un numero altissimo di gente disposta a sdraiarsi per terra, oppure credo che sia necessario fare altro.

Sandra Che questa guerra finisca e che non ci siano più guerre è il grande sogno che tutte quante condividiamo qui. Ma, mi chiedo, se avessi la bacchetta magica e potessi fermare i bombardamenti della Nato domani, lo farei? Presumo di sì, ma quello che mi inquieta è: questo vorrebbe veramente dire meno morti? Non sto giustificando affatto i bombardamenti della Nato, ma per la prima volta mi sono trovata a pensare che la posizione per la quale "le guerre bisogna solo fermarle" non mi sembra più sufficiente. Credo che si debba elaborare anche politicamente qualcosa. Cosa succede dopo? Io non credo che questo sia irrilevante. Per me questo è un problema di coscienza. Che questa guerra finisca domani mi scaricherebbe molto la coscienza, mi farebbe stare molto meglio; credo che sia una sofferenza per tutti sentire quello che sta succedendo, sapere che la gente muore, è umiliata, è massacrata, serbi, kosovari o chiunque. Non credo che sia neanche il caso di cercare i buoni, è veramente un’operazione inutile, hanno tutti certo le loro ragioni, che siano ragioni buone io ho i miei dubbi. Però rispetto al fatto che io ho sempre creduto fortemente alla multiculturalità, ho sempre creduto alla possibilità della convivenza pacifica, adesso io non sto tranquilla, perché non c’è soltanto un Milosevic criminale di guerra o una Nato su cui è meglio lasciar perdere, non c’è solo questo, c’è anche che a questo punto si deve forse fare i conti con una realtà che evidentemente, almeno in quella zona, culturalmente è cambiata in un modo che nessuno di noi si aspettava, e che per me è devastante. È devastante per tutte noi, credo: adesso, quei popoli non vogliono vivere assieme. Non credo che possiamo esimerci dal riflettere anche su questo.

Annamaria A me sembra che qui la ragione non ce l’ha nessuno, e ciò che invece esplode è il fatto che la guerra è assolutamente maschilista. E’ vero, come dice Chomsky, che l’America è un’organizzazione mafiosa, e come tale agisce, attraverso il denaro, il terrore ecc. ecc. Però non c’è alcuna differenza con quello che sta facendo Milosevic. Sono assolutamente simmetrici. Questo da luogo a un insieme di mosse e contromosse che sviluppano comunque il fatto che a una guerra si risponde con la guerra, e questa storia diventa una ripetizione all’infinito. Accettando questa logica andiamo dritti magari non proprio alla distruzione, perché riusciamo a salvarci in qualche modo, ma certo a fomentare gli stati etnici, quelli etnico-religiosi, e un’ideologia di potenza, oltretutto velata da una finta democrazia, perché, a questo punto, la Nato ha buttato a mare tutte le regole. Le democrazie occidentali, attraverso questa guerra, stanno distruggendo le regole della propria convivenza interna, oltre che della propria convivenza esterna. Mi sembra invece che gli uomini siano all’oscuro di questo problema, e che abbiano una falsa coscienza, che io trovo paradossale. Hanno paura di quello che stanno facendo. E, in fondo, sono rincuorati che ci siano tanti profughi, perché, aiutandoli, trovano la bandiera su cui ci si compatta tutti e su cui noi donne diciamo: "va be’, ragazzi, noi siamo con voi", e salviamo per l’ennesima volta le cose. Allora, la complicità che noi mettiamo su questa legittimità è una complicità sulla sofferenza che abbiamo provocato e che poi dovremo lenire. Per cui, quando si dice: "portiamo gli aiuti", io rimango perplessa, a meno che questi aiuti servano effettivamente a creare delle possibilità di esistenza. Ma adesso noi, se portiamo degli aiuti, portiamo la devastazione. In Sudan gli aiuti fanno spostare centinaia di persone come mandrie umane a raggiungere del cibo, morendo per strada. Questa è la realtà degli aiuti dell’Occidente. Quindi non ci facciamo intorbidire dalla faccenda dell’aiuto. Bisogna questa volta strapparsi dal cuore l’idea che noi ci salviamo e salviamo gli altri attraverso l’aiuto, perché questo crea una legittimazione della distruzione. Io credo che noi donne (e uomini) dobbiamo fare una critica seria su questo approccio alla guerra, basato su chi ha ragione e chi ha torto, e che cerca di creare schieramenti sulla miseria. Bisogna che ci si chiarisca su questi aspetti, bisogna svelarli, denunciarli, per togliere la possibilità di portare avanti una guerra sulle presenti motivazioni. Se noi siamo capaci di dirla, questa cosa, abbiamo fatto un passo in avanti. Fermare questa guerra, e basta, non serve, nel senso che intanto non so se ci riusciremo e comunque di guerra se ne procura sempre una successiva, se non si capisce che cosa significa questo impasto e questa complicità dentro cui siamo costrette.

Rosalba Più che il silenzio delle donne, è il silenzio del movimento delle donne, che io registro. Il perché di questo silenzio ha in fondo una risposta per me tautologica: silenzio del movimento delle donne perché un movimento delle donne non c’è più, da parecchi anni, né in Italia né altrove, perché i movimenti sono una realtà storica, sociale: appaiono, scompaiono, forse riemergono. Il movimento delle donne è uno di questi. Per me non è particolarmente doloroso dire questa cosa, lo riconosco. Se non c’è un movimento delle donne, c’è invece, paradossalmente, una negoziazione delle donne, a volte a bassissimo livello, con le istituzioni. Ma di questo è meglio tacere. Quello che mi sembra più interessante analizzare è invece il pensiero femminista: dove è finito? C’è un pensiero femminista che ancora attraversa gli scenari veramente orrendi della produzione culturale, politica, sociale, ecc. ecc., oggi? Io credo che un pensiero femminista in parte ci sia, è confluito in alcuni casi nel postmodernismo, in alcuni casi nella teoria critica, in altri casi cerca di fare i conti con la realtà anche politica quotidiana, ma non ha, oggi, una specificità. Non c’è una specificità del pensiero femminista rispetto alla guerra. Forse qui stiamo cercando in qualche modo, non di "ricostruirlo", ma, probabilmente, di "prendere" alcuni elementi e mi sembra una cosa molto interessante. Ci sono temi, e sicuramente questo della guerra è uno, che fanno suonare dei campanelli di allarme. Questo significa che, se non altro, c’è la sensazione di un’appartenenza, per una storia passata in alcuni casi e per una speranza futura in altri. Io credo che tutto questo vada profondamente però verificato, ripensato. Ho trovato delle sintonie con l’intervento di Annamaria, ma non mi ritrovo su questa sua definizione di "guerra maschilista". Io direi che la guerra è una guerra occidentocentrica, come del resto anche Annamaria implicava quando ha detto che questo è l’intervento con cui l’Occidente sta proprio distruggendo le sue stesse ragioni d’essere. Ecco, allora, questo è il punto: guerra maschilista, guerra occidentocentrica. Per me è molto interessante il confronto di questi due elementi. C’è però un nodo fondamentale, che bisogna far emergere più fortemente qui, ed è il nodo che questa guerra (maschilista o occidentocentrica) è una "guerra di aiuti umanitari": così viene presentata, così viene percepita. E così noi stesse qua dentro la stiamo riproponendo, se l’azione che si è proposta e su cui ci siamo anche un po’ entusiasmate è l’azione di portare degli aiuti, cioè di entrare esattamente nel meccanismo che questo intervento ha creato. E’ importante definire questo sfondo, riconoscerlo, perché dentro di esso noi, in quanto occidentali, siamo collocate. Non leggere questo elemento, nella guerra presente, è per me colpevole. Parlo di una responsabilità politica, di azione, di interpretazione. Noi non possiamo qui ripetere: siamo contro la guerra perché siamo donne. Questo è per me veramente spaventoso, perché rischia di azzerare un vero confronto sul valore delle cose, sul significato che loro diamo, sui messaggi che formuliamo. Siamo per la vita? Sì, ma quale vita? Non mi riferisco adesso al cattolicesimo o alle campagne antiabortiste, non voglio che ci intrappoliamo nella logica degli schieramenti, da cui dobbiamo invece uscire, se vogliamo fare qualcosa di nuovo, in questa vergognosa vecchiezza che ci viene riportata, che è la "vecchiezza della modernità", la vecchiezza dei nostri gloriosi duecento anni di sviluppo, di progresso, di tecnologia, di grandi successi, di "civiltà".

La nostra cultura occidentale ha annegato la propria coscienza in una sorta di buonismo. E sulla retorica dei Diritti Umani. Su questi Diritti, presunti universali, cerchiamo di riflettere. Da dove vengono, chi li ha fatti, quando sono stati dichiarati, chi erano le nazioni che vi partecipavano. Insomma, chi stabilisce cosa è "umano"? Lo abbiamo visto: La Nato ha stabilito che quello era "dis-umano", ed eccoli qui, con le bombe, a stabilire il loro "umano". Questi sono i nodi. Certo, è anche questione di avere maggiori conoscenze e informazioni Ma questa non è che la punta dell’iceberg. Dobbiamo indagare quello che c’è sotto, se non vogliamo che ci siano altre guerre, o comunque se non vogliamo essere complici, se vogliamo cominciare a porre degli elementi di riflessione, di pace, ma la pace vera, non quella a cui ci hanno abituato, quella che noi, occidentali e civili, "portiamo". Io sono stata cooperante, vengo anche da lì - un’esperienza per me interessante, che sto ancora vagliando, sono tutte cose su cui da anni rifletto. E per questo dico: accidenti! Se la cosa che qui proponiamo sono gli aiuti umanitari, io sono veramente spaventata. La mia proposta è di riflettere su queste cose, diritti umani, umanitarismo, guerra che porta aiuti umanitari, guerra per ragioni umanitarie, e che quindi poi sviluppa tutta la gamma dei buoni sentimenti. Alla radio ti dicono che sono partiti settanta missili da Aviano e contemporaneamente poi musica e "operazione Arcobaleno": potete adottare un bambino a distanza. Veramente, ragazze, questa è la vendita, la vendita della sofferenza e la vendita anche delle nostre coscienze.

Elisabetta Trovo interessante questo rifiuto per l’aiuto umanitario che viene proprio da persone che hanno avuto esperienze di cooperazione. Anch’io lavoro nella cooperazione. Mai come in questo momento ho avuto orrore per l’aiuto umanitario. Da anni sono molto in crisi rispetto al mio lavoro e adesso mi sta venendo il desiderio di mollare tutto perché non ho mai visto così negativamente questo aiuto che diventa una forma di giustificazione. Per cui alla fine non si capisce nulla della guerra, anzi si è contro la guerra, poi li si aiuta e così si giustifica tutto. Usciamo quindi da questa logica degli aiuti, anche se io stessa sto male e vorrei fare qualcosa. Però questo è l’errore che non dobbiamo fare. Seconda riflessione: sono abbastanza in crisi rispetto al pacifismo "buonista", secondo il quale siamo donne, siamo pacifiste e quindi siamo contro la guerra. Io sono contro la guerra, ma sono contro questa guerra. Credo che in questa guerra ci siano abbastanza motivi, proprio da un punto di vista politico, per essere contrari, non a questa guerra in quanto guerra, ma a questa guerra qui, per come è stata dichiarata, per i motivi che ci sono dietro, per le conseguenze che ha portato. È su questo che dobbiamo confrontarci: sul discorso del nazionalismo, sul discorso della cittadinanza universale, sul discorso della democrazia a livello planetario. Tutti temi che sono emersi con grandi contraddizioni in questo momento e che ci chiamano a rivedere e a riprendere tanti discorsi e tanti dibattiti che pure tra noi ci sono stati. Quello che mi dispiace vedere qui, è che io rivedo tante cose che sono accadute quando c’è stata la prima guerra in Jugoslavia, quando c’è stato il movimento delle "donne in nero", e non solo, tutta una serie di iniziative, di confronto e di dibattito soprattutto tra le donne italiane: penso a Trieste, alle esperienze che alcune di noi qui hanno avuto con l’Associazione di donne per la pace, un progetto di scambio multietnico con un gruppo di donne che c’era in Croazia, e tutto quello che è accaduto. È come se tutto questo non ci fosse stato. È come se questa guerra, lo vedo anche nei giornali, fosse una guerra nuova, come se non fosse invece un esito di tutto un meccanismo, di tutta una sequela di errori politici e di incapacità di comprendere una determinata situazione, che è partita dalla dissoluzione della Jugoslavia. E questo lo vedo un po’ anche fra di noi. Ci sono state delle esperienze anche molto significative ai tempi della guerra in Jugoslavia, con incontri di donne dei vari gruppi etnici, in cui questi temi, di cui discutiamo oggi, sono stati sviscerati anche con grande intelligenza. E tutto questo però è come se fosse semplicemente cancellato. L’esperienza dell’Associazione donne per la pace - lo dico con grande rammarico - è naufragata, con conflitti interni terribili, che mi hanno messo in discussione il fatto che lavorare con le donne sia diverso. Io nelle donne purtroppo non ho visto, nel concreto, una cultura del superamento del conflitto, anche interno. L’ho teorizzato, l’ho letto, l’ho sperato, ma non l’ho ancora visto. Infine vorrei fare un invito a riprendere i contatti che c’erano stati e che magari si possono attivare e a fare una riflessione a partire da quello che già è stato maturato.

Gabriella A me sembra che, nell’uomo e nella donna, ci sia una differenza nell’approccio verso l’azione. Il riferimento alla violenza sessuale, e all’uso del sesso e del corpo dell’altro, deve farci riflettere. Violenze sessuali da parte delle donne non mi risulta che ce ne siano. L’uso del corpo dell’altro, per quanto riguarda un uomo, significa strumentalizzazione e stop. L’uso del corpo dell’altro, per una donna, non può essere solo strumentalizzazione. Non dimentichiamoci che a noi resta il frutto di questa strumentalizzazione. Quindi il concetto di "usa e getta", che è così frequente negli uomini, non credo che possa essere riproducibile nella vita femminile. Questo è un dato di fatto. Allora, se da una situazione individuale concreta di questo tipo si va a costruire una filosofia personale, e poi questa filosofia personale diventa una filosofia collettiva, è molto facile probabilmente che si arrivi all’uso delle armi e poi all’uso della guerra, con molta allegria. Questo forse per noi è molto più problematico. Mi sembra che questo passo logico siamo tenute a farlo e a tenerlo presente.

Luisa Sono preoccupata per alcuni discorsi sentiti finora sul buonismo, sull’essere non contro la guerra ma contro questa guerra. Per quanto riguarda me, io sono contro la guerra, come strumento violento di annientamento dell’altro e come modo di risolvere i conflitti individuali e tra popoli e tra nazioni. Questa è per me una posizione di partenza di fondo, dopo di che tutti i ragionamenti e i pensieri che possiamo fare per articolare una nostra riflessione su questa guerra vanno bene e sono necessari. L’altra cosa che mi ha colpito è il dire che, rispetto alla guerra, non possiamo fare nulla e che quindi, vada come vada, ci penseremo alla prossima. Io sono terrorizzata, perché se inizia un intervento di terra, non so come va a finire, non so che cosa sarà dopo. La mia paura è che le nostre vite ne saranno coinvolte comunque. Fino ad ora siamo state spettatrici di guerre che non ci hanno toccato così da vicino. Io mi sento minacciata personalmente, e la cosa che mi meraviglia, anche di me, è che la difesa è la quotidianità. L’unico livello, quindi, su cui noi possiamo incidere è cercare di fare una controinformazione per togliere alla guerra questa patina di quotidianità. La mia proposta è che l’Università delle donne dedichi il prossimo anno di lavoro a questo tema: cosa noi possiamo dire sulle regole di una convivenza civile, non solo tra individui, perché questo è il grosso salto che facciamo fatica a fare, ma anche tra popoli diversi. Dire insomma una nostra parola su quali posso essere, anche a livello collettivo, alcune regole di civiltà, che partano dalla nostra esperienza di donne, ovvero dal presupposto che, per dirimere i conflitti inevitabili che ci sono, è necessario trovare altri strumenti che non siano l’annientamento dell’altro.

Laura Questa guerra ha messo in mostra una cosa: la mia generazione, che è venuta subito dopo la seconda guerra mondiale, in un certo senso è vissuta pensando di poter essere in qualche modo arbitra del proprio destino, e, pur stando sempre all’opposizione e sempre "perdente", ha sentito di stare dentro in un gioco in cui in qualche modo noi eravamo anche arbitri. Questo tipo di guerra mi ha fatto ricordare che, in realtà, per tutta un’altra serie di persone, la soluzione dell’uso della forza è rimasta una delle ipotesi realistiche, da utilizzare quando la realtà lo richieda. Quindi si sta profilando una possibilità che cessino questi splendidi quarant’anni di discorsi in cui molta gente si è sentita padrone di sé, in cui noi donne siamo cresciute perché, in qualche modo, c’era spazio per questa crescita, anni in cui si usciva da una necessità e si arrivava in una leggera e migliore libertà. Ecco invece questa guerra, come logica conclusione di una dimensione economica occidentale, come logica conclusione di una cultura razzista… Tutto questo intreccio fa sì che in certo senso è come se ci si dicesse: guardate che si può tornare molto indietro, ma molto indietro, a quello che noi pensavamo, appunto, superato: il regno dell’arbitrio, senza punti di riferimento (compresi i diritti umani). Io sono abbastanza d’accordo che questa parte della storia è più maschile che femminile. È certamente un’opzione maschile, è certamente un’opzione delle forze economiche che la prevedono. Credo dunque che sia importante intervenire su questa guerra e dire chiaramente non solo che non ci sono "i buoni", e che non si è contrari alla guerra in generale, per una sorta di pacifismo, ma per denunciare che questa è una guerra, una guerra, per di più, che utilizza un discorso "umanitario".

Beatrice Ho visto che forse questa sensazione di silenzio, di fronte a una cosa che sentivo troppo vicina, è condivisa da molte donne, perché nei giorni prima della guerra, nella mia mailing list mi arrivavano lettere su argomenti poco significativi, ma costanti. Nei giorni della guerra la parola delle donne ha cominciato a essere meno forte, a ridurre i propri interventi, forse perché tutte ci stavamo interrogando su che parole darci, come comunicarci quello che stavamo provando. C’è una difficoltà delle donne, oggi, ad elaborare qualcosa di nuovo, che non rimandi a elaborazioni fatte in anni passati (la guerra nel Golfo, a quelle successive in Jugoslavia), qualcosa che comunque sedimenti e segni anche un cambiamento culturale. Si dice sempre che il movimento delle donne è un fiume carsico che poi riemerge, però io credo che questo fiume deve essere invece un fiume grosso, che sia visibile sempre e che non può nascondersi e riapparire nei momenti di crisi, anche perché dobbiamo cominciare a creare delle reti forti. Credo che questa guerra sia la dimostrazione che noi attualmente stiamo vivendo non in una democrazia, ma in una omocrazia, come dice Maria Grazia Campari sul Paese delle Donne. Se ci sono ancora delle guerre, fatte in questo modo, decise con questa violenza, con questa arroganza, evidentemente il patriarcato non è morto, e noi viviamo ancora in un universo deciso dall’uomo, dove noi comunque non partecipiamo. Oppure partecipiamo comunque con ruoli subalterni e completamente asserviti al pensiero maschile. Le varie ministre, Laura Balbo, Livia Turco, ecc., oggi non sono con noi, sono dall’altra parte, e, condividendo i meccanismi dei luoghi del potere, in cui sono entrate, non creano con noi reti, alleanze; e poiché non fanno del sostegno delle donne la propria politica, ma portano avanti la politica del pensiero universalista maschile, forse queste donne ci allontanano ancora, ci indeboliscono ulteriormente. Quindi credo che forse dovremmo ricominciare dal basso, per costruire un qualcosa che si sedimenti, che diventi forza. Se riusciamo a rimetterci in gioco, se riusciamo a rielaborare pensiero, poi questo pensiero dovrà segnare un cambiamento culturale, un cambiamento di prospettiva.

Lea Io credo che non sia inutile dirsi qui la difficoltà che abbiamo a parlare della guerra. Per me, il poterne discutere insieme ad altre donne, significa quanto meno che non devo presentarmi forte, agguerrirmi mentalmente, per trovare subito delle ragioni. Qui posso dire senza vergogna che la ragione e la parola, di fronte a questi avvenimenti, subiscono una specie di paralisi, ma posso anche chiedermi il perché di una emotività cosi forte da far sentire inutile tutto quello che abbiamo fatto finora. Se di fronte alla guerra abbiamo la sensazione che ci sparisca alle spalle quel poco di storia, frutto di una coscienza diversa, che abbiamo prodotto, questo è già un effetto terribile di devastazione. Che dopo trent’anni di femminismo le donne non riescano a prendere la parola, a intervenire con una loro analisi e una loro iniziativa, è di per sé il segno distruttivo di una guerra, della guerra che c’è sempre, quotidianamente, tra i sessi (e non solo, ovviamente), e che nella guerra in senso stretto si manifesta in modo vistoso. Abbiamo provato un senso analogo di smarrimento per la guerra del Golfo, ma questa, al confronto, è anche più scoperta nel suo aspetto "inattuale", in quelle modalità elementari che sembrano ripetersi invariate in ogni conflitto, anche se oggi le tecnologie avanzatissime danno la possibilità di fare delle armi un uso cinico e particolarmente crudele, inimmaginabile nel passato: ad esempio, poter bombardare senza perdere una vita umana da una parte, e producendo, dall’altra, un enorme quantità di morti, devastazione dei luoghi e delle risorse di un paese.

Ma volevo dire qualcosa sul silenzio. La parola "silenzio" l’abbiamo usata volutamente, io e Anita, quando abbiamo chiesto questo incontro. Io non intendevo dire che le donne non parlano - anche se effettivamente quelle che leggiamo e ascoltiamo sono pochissime e preferiremmo magari non sentirle. Accorgersi che agiscono e ragionano secondo le peggiori logiche maschili è una desolazione in più. Per silenzio intendo, innanzi tutto, la difficoltà ad esprimersi, l’impressione che dicevo prima di saccheggio interno, come se tutti i nostri ragionamenti di fronte a questo evento sparissero. Non mi riferisco alle donne in generale, ma al femminismo (le associazioni, i centri, in cui si scrive, si pubblica, si fa ricerca), che in questo momento non riesce a produrre alcuna analisi specifica. La consapevolezza del rapporto uomo-donna noi l’abbiamo rivolta negli anni ‘70 al "privato": il corpo, la sessualità, la maternità. Abbiamo fatto politica per una diecina d’anni su questi temi e siamo andate anche in piazza, discutendo di volta in volta il significato che aveva il pensare e l’agire insieme all’esterno. Poi, da un certo punto in avanti, ci siamo arrestate, là dove si trattava di estendere questo tipo di analisi a tutte le forme che ha preso la civiltà, a partire dal dato più evidente: che la comunità storica, che ha occupato da sempre la vita pubblica definendo i ruoli e le identità di un sesso e dell’altro, è una collettività di uomini. Che la donna si sia andata a collocare inconsapevolmente dentro una rappresentazione data dall’unico protagonista della parola e della legge, non c’è dubbio. L’avevamo allora molto chiaro. Ma non è detto purtroppo che una volta che un cosa è venuta alla coscienza, ci rimanga per sempre; si possono produrre sempre nuove cancellazioni. Ciò non significa necessariamente un arretramento, ma che alcune acquisizioni fondamentali non vengono più nominate, e che, nel migliore dei casi, continuano a muoversi soltanto dentro di noi. E inoltre: non è automatico, partendo da un punto di vista così radicale sulle vicende considerate storicamente "personali", il passaggio ad un’analisi dei legami tra privato e pubblico, sessualità e politica. Quel famoso e di congiunzione che mettevamo, sperando in un allargamento di orizzonte della nostra pratica, non ha avuto seguito. Applicare la coscienza acquisita intorno all’origine, anche inconscia, del rapporto tra i sessi alle problematiche sociali, richiedeva un’elaborazione enorme, che ciascuna di noi avrebbe dovuto fare nei propri campi di competenza e di sapere (che negli anni ‘70 avevamo messo tra parentesi, perché pensavamo di dovere costruire un sapere nuovo sulla sessualità e la vita personale), nell’ambito del lavoro e della propria formazione. La grande scommessa era, non che le donne continuassero a fare gruppi di autocoscienza, ma che nelle università, nei partiti, nei sindacati, nei giornali ecc. - dove tra l’altro si è allargata la presenza femminile - comparissero analisi con questa angolatura, capaci di nominare il rapporto tra i sessi e di vedere come la sessualità attraversi tutte le istituzioni. La virilità e la femminilità hanno creato quei famosi poli contrapposti che conosciamo - individuo/collettivo, natura/cultura, sensibilità/intelligenza. Sono luoghi comuni che abbiamo incorporato e che applichiamo come strade obbligate della sopravvivenza o anche del farsi amare o ascoltare. Costatavo in questi giorni il silenzio dentro di me, la difficoltà, nonostante siano anni che penso e scrivo, a uscire dalle categorie interpretative date come neutre, che sono quelle su cui si basano pressoché tutti gli articoli che ho letto. Si parla di ragioni economiche, politiche, giuridiche e storiche, ma nessuno dice l’aspetto evidente della guerra e della civiltà che la prepara. Non sono solo le ragioni contingenti a rendere di volta in volta la guerra "inevitabile", ma il fatto che la guerra è la struttura portante della civiltà e dell’identità storica dell’uomo, cioè della "virilità". Di fatto non si è mai voluta la pace, non è vero che si prepara la guerra per vivere in pace. La guerra esalta lo spirito maschile. Questo non impedisce a molti uomini di non condividerla, e che anche gli uomini siano prigionieri di modelli che si trasmettono di generazione in generazione. Quanto al discorso "pensare o agire", io credo che riflettere insieme sia una pratica che modifica le coscienze. Non è un semplice esercizio verbale o un processo di conoscenza, ma la possibilità di spostare equilibri già dati tra inconscio e coscienza. Io considero già un’azione questo incontro. Penso che sia molto importante perciò che, insieme ad altre possibili iniziative, si facciano circolare scritti, pensieri, meno esitanti nel dire gli aspetti della realtà che ci premono.

Elena Il solo fatto che si parli di ragioni, di schieramento, questo significa che anche le donne che ci sono qui si sono lasciate influenzare dal modo di pensare maschile. Io credo che la donna sia contro la guerra, ma non contro la violenza. E’ contro la guerra di stato, di stati contro altri stati, la guerra della Nato. Questo non vuol dire essere contro la violenza di un popolo che reagisce e vuole la sua libertà; in quel caso si tratta di una guerriglia, e un popolo che fa una guerra ha ragione, ma uno stato che fa la guerra contro un altro stato non ha ragione, mai. Questo è il momento in cui un gruppo di donne ha senso, e deve tirare fuori l’essenza femminile; e non per l’aiuto umanitario o per le manifestazioni contro la guerra, perché alla fine in queste manifestazioni i pacifisti sembrano sempre quelli contro l’America, contro la Nato… Dobbiamo fare capire che in questa guerra non ha ragione nessuno; dobbiamo fare capire questo all’uomo, o alla donna che pensa come l’uomo, uomo come mentalità maschile, che ha creato le guerre, gli aiuti umanitari.

Luciana Mi occupo di teatro e questo senso di impotenza che ho sperimentato anche a scuola tra i ragazzi l’ho trasformato in un senso di grande potenza, negando la "prepotenza". Il disagio è forse più facile rappresentarlo con atti creativi, che forse ci corrispondono di più, corrispondono di più alle emozioni che stiamo provando. Forse non serve fare uno sforzo di razionalizzazione. La strada dell’arte, come espressione, è forse quella che ci è più vicina.

Serena Quando all’inizio dicevo "scontiamo un ritardo e un deficit di lavoro" intendevo dire che il nostro fare non mi pacifica, perché anche se stare qui ha un grande valore – mi dà qualcosa che io "spendo" (per usare un termine economicistico, orrendo) tuttavia in questo spendere c’è il famoso deficit. Per anni abbiamo lavorato sulla soggettività, a partire dalla nostra esperienza. Io ricordo a Milano, primo gruppo femminista di autocoscienza femminista al manifesto, anni ‘72-‘73. E abbiamo lavorato, lavorato, lavorato… C’era una grande creatività. Ma da dove nasceva, questa "creatività", che non era l’intruppamento nella manifestazione, ma era anche all’interno della manifestazione, con questa sua capacità estremamente "teatrale"? E mentre oggi tu fai teatro, ma devi essere in un gruppo di teatro, lì invece nasceva spontaneo. E se è vero che i movimenti sono come gli innamoramenti, nascono muoiono, fiume carsico, ecc., è altrettanto vero che questa creatività nasceva da un lavoro condotto in profondità. Così, adesso, se non ho dietro un lavoro femminista, quando vado a insegnare, io non "spendo", lavoro tantissimo, ma da sola. Ritengo di avere bisogno di un confronto femminista; non "tra donne", ma femminista. Io credo che abbiamo tralasciato questo lavoro, perché lavorare su di noi forse comportava scoprire le differenze e forse anche le complicità – di ricchezza, di potere, di essere bianche e nere, del Nord e del Sud (d’Italia), quando iniziava il periodo in cui si scopriva l’anima padana.

Noi siamo terremotate, perché ci si è rotto il giocattolo, il giocattolo è qualcosa che si chiama democrazia. Noi ci infiammiamo per la libertà e per la democrazia, ma nei diritti umani c’è l’orrore. La barbarie ha bisogno della democrazia e dei diritti umani per essere tale. Su questo, sulla dinamica della sopraffazione, come femministe noi non stiamo lavorando.

Silvia: Si è molto detto "io non voglio fare, c’è bisogno del pensiero". Io credo che non sono cose separate, se lo sono, è l’inizio della fine. Salta subito all’occhio che qui siamo tutte bianche, e che poche siamo le giovani. Allora, se, contro la guerra, dobbiamo creare una cultura differente, femminile, e vogliamo che questo abbia una valenza politica, e che rimanga, che non venga cancellata, due strade importanti sono il passaggio generazionale, necessario, e la azione che tenga conto che proprio qui c’è una "guerra", tra noi, donne bianche, occidentali e benestanti, e le donne che vediamo sulla strada, le donne chiuse nei vari "centri d’accoglienza", che invece tanto bene non stanno. Ci sono azioni importanti, che vanno pensate e condotte insieme.