La religione e i
vuoti della politica
di Lea Melandri

Bruna Esposito
L'insistenza con cui oggi si torna a contrapporre laicità e religione è il
segnale più evidente della difficoltà che abbiamo a riconoscere che tra
l'una e l'altra una delimitazione netta di confini non c'è mai stata. «Se
vivi nel mondo occidentale - scrive James Hillman nel suo ultimo libro,
Un terribile amore per la guerra, (Adelphi,
2005) - psicologicamente sei cristiano, marchiato indelebilmente con il
segno della croce nel cuore e nella mente e in ogni fibra del corpo. Il
cristianesimo è dappertutto, nelle parole che usiamo, nelle bestemmie che
pronunciamo, nell'eredità di assassinii religiosi della nostra storia.
Siamo cristiani fino al midollo, con l'innata certezza di essere superiori
a tutti, capaci di aiutare gli altri a vedere la luce».
Il paese di Romagna, dove sono cresciuta, è sempre stato amministrato da
partiti di sinistra, ma l'"anima" - tutti gli interrogativi e i tormenti
esistenziali che accompagnano la crescita di un individuo, soprattutto se
femmina - la si dava precocemente al prete e alla cultura dell'oratorio. E
in parte è ancora così.
Intrecci profondi e inconsapevoli potrebbero essere oggi l'oggetto di una
ricerca capace di uscire finalmente da schemi dualistici, astratti, se a
complicare le cose non fossero intervenuti contaminazioni, accorpamenti
paradossali, insospettabili: gli "atei devoti", la "fede secolarizzata",
il "femminismo clericale", la laicità "buona e sana", cioè intrisa di
principi cristiani, auspicata dal cardinale Scola. Di fronte a una Chiesa
aggressiva, che non si rivolge più alle coscienze, sapendo quanto gli
individui si concedano ormai libertà di scelta, e che mira a "fecondare"
direttamente le principali istituzioni della vita pubblica - lo Stato, le
sue leggi, i suoi tribunali - si è portati a pensare al ritorno di un
lontano passato, feudale, che si credeva sepolto. Ma se si resiste alla
tentazione di vedere l'insorgere di una fede d'assalto solo come fenomeno
regressivo, il rimontare di pulsioni oscure e irrazionali, nemiche della
modernità, forse si può pensare, in termini meno fatalistici, che la
religione sia oggi la copertura di una "preistoria" di esperienze,
pensieri, sentimenti, relazioni, che chiede di essere "ripresa" e aperta a
nuove soluzioni.
Il "risveglio religioso" che ha colto di sorpresa l'Occidente, ma che
interessa con evidenti analogie culture e confessioni diverse, è stato da
molti messo in relazione con il riproporsi in forza di un Islam arcaico,
fondamentalista, ostile al mondo cristiano identificato coi vecchi e coi
nuovi colonizzatori. Si è detto anche che poteva essere la risposta a
sentimenti diffusi di paura, insicurezza, precarietà, perdita di
appartenenze identitarie, umori inquieti che chiedono atti riparativi e il
ripristino di valori tradizionali. Ma una delle ragioni principali è senza
dubbio la crisi della politica che, di fronte ai cambiamenti in atto,
sconta la sua "separatezza" storica dalle esperienze che sono parse più
legate alla "persona", al privato, alla vita del singolo, ad aspetti
dell'umano confinanti con la natura e col sacro: l'amore, la nascita,
l'infanzia, le mutazioni corporee, la malattia, la morte, ecc.
Per effetto del mercato, dei media, della sperimentazione scientifica e,
soprattutto, della "rivoluzione" quotidiana che ha visto le donne uscire
dalle case, scostarsi dai ruoli famigliari, affrontare in modo diverso la
sessualità e la maternità, oggi le "questioni della vita" irrompono sulla
scena pubblica e con sorpresa della cultura "alta" conquistano i posti più
in vista, influenzano la politica, diventano oggetto e soggetto di
cambiamenti imprevedibili. Un sottosuolo di "vissuti", che si volevano
immodificabili, rischiano, una volta venuti allo scoperto, di finire
divorati da poteri, istituzioni, discipline che non a caso viaggiano ormai
col prefisso "bio": biotecnologie, biomedicina, biopolitica.
Con la nascita di un'individualità femminile sempre meno adorante del
sacrificio materno, meno incline alla dedizione altruistica che ne ha
fatto finora il sostegno primo, materiale e psicologico, della vita
pubblica, si incrina un ordine dato come "naturale", che la Chiesa si
affretta a riportare in auge secondo i presupposti intoccabili della
Parola rivelata. Anche se gli ammonimenti delle gerarchie ecclesiastiche
si scagliano insistentemente sul "caos sessuale", sul "relativismo etico e
filosofico", sul disfacimento della famiglia, bersaglio primo restano
tuttavia i massimi organi dello Stato, i governi, i parlamenti, che
possono legittimare o frenare il cambiamento, come si è visto a proposito
della legge 40, e ora dei Pacs e della pillola abortiva RU486. Il pericolo
maggiore dunque non è l'Islam. Anzi, come ha detto il nuovo Papa a
Colonia, «la ferma fede in Dio dei musulmani - è - una sfida positiva»
anche per il cattolicesimo. Più temibile è l'eclissarsi di un dominio e di
una genealogia patriarcale che si sono retti finora su un'idea
biologistica e sacralizzata di famiglia, ma soprattutto sull'apparato
sacerdotale rigorosamente maschile che se ne è assunto la tutela.
La fame di spiritualità, di accorpamenti mistici, di "valori"
rassicuranti, di figure carismatiche a cui affidare il destino
dell'umanità, non è solo l'effetto di abili strategie clericali e
conservatrici, ma nasce dal cuore dell'Occidente, dal disagio evidente di
una civiltà che ha perso il rapporto ottimistico con se stessa, con le
proprie mete tecnico scientifiche, con l'idea di un soggetto unico,
portatore di principi universali. Non è la "secolarizzazione", come va
ripetendo Papa Ratzinger, a "disumanizzare l'uomo", ma, al contrario,
quella sorta di ritorno di onnipotenza divina proiettata sul mondo creato
dall'uomo, sulle macchine che sembrano oggi esautorarlo, sottraendogli
controllo e responsabilità. La "religione" del mercato, della tecnica,
della scienza, delle mirabolanti reti comunicative, se ha potuto dare
inizialmente nuovo impulso alla creatività, oggi ne svela vistosamente i
rischi là dove non si vedono più limiti, differenze, alterazione del senso
dell'umano. Il dio delle merci, delle tecnologie, della velocità,
dell'eterna giovinezza, fa dubitare della laicità della nostra cultura
tanto quanto le sue innegabili radici nelle religioni che l'hanno
attraversata. Ma se le chiese avevano a loro vantaggio il sapere e la
lingua dell'interiorità, del sentimento, della sofferenza, del piacere e
dei patimenti del corpo, il dio macchinino e ingegneristico della ragione
scientifica si lascia dietro l'ombra di un immaginario apocalittico, il
sospetto della distruttività che inspiegabilmente ha sempre accompagnato
le più straordinarie costruzioni dell'uomo.
Anziché attestarsi sulla vibrata protesta per l'invasività della Chiesa su
questioni che appartengono esclusivamente allo Stato - smentite peraltro
dal filo mai interrotto della negoziazione -, la cultura politica che si
proclama laica e antitradizionalista, dovrebbe indagare le ragioni di un
consenso che le sottrae terreno penetrando in zone insospettabili,
conquistando cuori e menti che sembravano pulsare in tutt'altra direzione.
I "predicatori d'odio" nostrani, da Oriana Fallaci a Giuliano Ferrara, da
Marcello Pera ai deputati leghisti, trovano molte più orecchie disposte
all'ascolto di quante un'intellettualità aristocraticamente appartata dal
senso comune possa immaginare.
L'inadeguatezza ad affrontare con il patrimonio di conoscenza e di
capacità critica necessaria il profondo rivolgimento in atto, nel privato
come nel pubblico della nostra società, appare evidente nelle linee
programmatiche con cui il centro-sinistra si presenta alla sfida
elettorale.
Nelle "agende politiche" brillano per assenza proprio i temi su cui più si
è dibattuto in questi mesi, le grandi trasformazioni che hanno portato
allo scoperto corpi, sessualità, vita intima, legami famigliari, e
mostrato l'incidenza sempre maggiore che sulle vicende esistenziali
primarie vanno acquistando le istituzioni e i poteri della vita pubblica.
Le analisi di sistema, le visioni più lucide sugli esiti della
globalizzazione economica e del neoliberismo, con le loro implicazioni
individuali e collettive, si leggono nei saggi di sociologi, antropologi,
filosofi, ma, per la tradizionale separazione tra politica e cultura, tra
militanza e ricerca universitaria, le semplificazioni propagandistiche si
allontanano sempre più dall'elaborazione teorica. Anni fa, nel vivo di un
appassionato corpo a corpo tra il movimento delle donne e la sinistra,
pensai che a monte di tanta incomprensibile "afasia" su questioni che
avrebbero dato una radicalità meno parolaia all'idea di "rivoluzione", ci
fosse una sorta di "ascetismo rosso", di malcelato puritanesimo, di
"pulizia razionale", contro l'inquinamento delle emozioni e dei drammi
esistenziali. Oggi, di fronte all'evidenza che ha preso il rapporto
uomo-donna sulla scena del mondo, per effetto dell'incontro-scontro tra
culture diverse, ma soprattutto per il dubbio allarmante che la
tradizionale dedizione femminile alla continuità della specie si stia
allentando, sono portata a credere che si tratti invece dell'estrema
resistenza di una maschera "virile" fatta più di passioni che di
razionalità, di paure più che di certezze.
Inutile meravigliarsi se la Chiesa va a occupare il vuoto che si è aperto
tra le persone, gli interrogativi, i disagi reali del vivere quotidiano, e
chi dovrebbe farsene interprete e portavoce.
questo articolo è apparso su
Liberazione
del 4 ottobre 2005
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