Senso di questo metodo

Il modo che abbiamo utilizzato nel corso del 1° Laboratorio (che si svolse nel corso del 2001, centrato principalmente su un dialogo tra presentazione di relazioni tematizzate e narrazioni di vite vissute.) è stata la narrazione autobiografica. Il racconto dell’esperienza quotidiana alle prese con l’esercizio – o l’esclusione – del potere, con il denaro, con le relazioni con capi, colleghi/e ci ha permesso di costruire un nostro sguardo su questo oggetto, di dargli dei confini, di renderlo visibile per ciascuna e per le altre.

Nei mesi l’esigenza si è trasformata nella ricerca di forme più strutturate per organizzare il racconto e lo scambio di esperienze. Un metodo che ancora ci riguardi, che mettiamo a punto per scompaginarlo, e inventarlo diverso, che non diventi una gabbia. Un metodo e non le regole del gioco.

Il tema del rapporto con il lavoro è per tutte molto denso di materia (quella corporea e di quella “di cui son fatti i sogni”), va dunque avvicinato sciogliendone i vincoli che lo stringono, distanziandone i componenti, creando lo spazio e la distanza tra questi per poterli comprendere, affiancandolo alle narrazioni che avevamo creato e raccolto in precedenza. Abbiamo tutte da inventare uno stile che si confronti con bisogni descrittivi, senza scivolare nel rischio dell’oggettivazione, della presunzione di neutralità, o dell’anonimato di un resoconto.

Costruire degli strumenti conoscitivi avviene in piccoli gruppi, mantenendo il senso di una pratica collettiva, degli scambi orizzontali tra donne, partecipi a partire dal coinvolgimento di ciascuna e non da una padronanza tecnica. Confermando il senso di una scelta che è tra i fondamenti di questo laboratorio, si è ipotizzato che la costruzione degli strumenti di conoscenza, prima ancora che il loro utilizzo, sia centrale in un processo di ricerca che voglia mettere in evidenza un’ottica, una prospettiva soggettiva e di genere. Non saranno finalizzati a raccogliere dati quantitativi, ma a rappresentare, a dar corpo in anticipo ad una flessibilità utilizzabile per le nostre esigenze conoscitive. Testati prima all’interno del gruppo, e proposti già intrisi di una storia.

A lungo ci soffermiamo a condividere un ‘immaginazione sull’uso possibile, sull’accessibilità, l’agilità, la gradevolezza da parte delle altre a cui proporre di usarli. Acquistano sempre più importanza e spessore. Diventa sempre più chiaro che vogliamo degli strumenti che non siano finalizzati alla vivisezione, ad aprire corpi e menti da osservare dall’esterno, ma che invece mantengano un respiro, una traccia dell’intenzione, del progetto, del contesto in cui sono nati.

Strumenti in qualche senso già “animati”, non così inerti come lo sono gli utensili.