LE 150 ORE, UN ESPERIMENTO DI VITA E DI CULTURA
di Paola
Melchiori
corso 150 ore a Milano con
Lea Melandri
Gli anni Settanta furono, in Italia come
altrove, momenti di sperimentazione straordinaria sul piano culturale e
sociale oltre che politico. Uno tra questi: il riavvicinamento tra
processi sociali, pratiche politiche e forme d’elaborazione della cultura
e della conoscenza.
Le 150 ore furono una “scuola operaia” di
cui furono protagonisti prima gli operai e poi le donne, insieme alle
avanguardie studentesche e poi femministe degli anni settanta.
Sulla base della conquista sindacale dei lavoratori metalmeccanici nei
contratti di lavoro, erano riconosciute ai lavoratori 150 ore lavorative
retribuite ogni tre anni, ad uso “scolastico e culturale”, purché essi ne
mettessero altre 150 del proprio tempo libero. Il sindacato scelse di dare
la priorità al recupero, per tutti i lavoratori, del diploma della scuola
dell’obbligo; la stessa forza che aveva reso possibile tale conquista rese
anche realizzabile il fatto che lo stato mettesse a disposizione le scuole
pubbliche per ospitare i corsi, pomeridiani o serali, e riconoscesse al
programma presentato dal sindacato il valore equivalente al diploma
ufficiale della scuola elementare.
In due anni 100.000 lavoratori metalmeccanici tornarono a scuola, seguiti
ben presto da altre categorie di lavoratori, poi da disoccupati e
casalinghe.
Non si trattava della scuola per adulti di
modello anglosassone. Si trattava di un esperimento culturale gestito in
prima persona dalle avanguardie del sindacato. Esse avocarono a sé la
scelta d’obiettivi e metodi di studio, contrattarono con lo stato i
riconoscimenti formali per i programmi di studio, formarono gli
insegnanti.
Gli alunni erano le avanguardie operaie che avevano guidato le lotte del
sessantotto con gli studenti e gli insegnanti erano quegli stessi
studenti, che si riversarono in massa in queste scuole.
Fu un serio tentativo di riappropriazione e cambiamento della cultura,
della sua destinazione, del suo uso, del suo senso, da parte delle classi
subalterne, nello spirito della migliore tradizione gramsciana, nel
dibattito aperto dall’arrivo in Italia di
Paulo Freire, nell’incontro tra la tradizione filosofica “classica”
delle classi lavoratrici e quella post-marxista, da
Fanon
a
Lukacs, alla
scuola di Francoforte.
Dicevano gli obiettivi generali dei programmi di studio: “rafforzamento
del controllo collettivo sulle condizioni di lavoro e sul processo
produttivo, recupero dell’esclusione scolastica senza nulla concedere ad
un processo di rincorsa dell’esistente, messa in questione della funzione
sociale della scuola e della sua neutralità; individuazione del ruolo
dell’intellettuale nei confronti delle classi operaie e subalterne”. Non
si trattava di fornire volgarizzazioni facili ad uso dei “poveri” ma di
scegliere il meglio della cultura borghese, ridiscuterla, trovarne il
senso e gli usi possibili a partire da altre posizioni storiche.
Questo processo di riflessione collettiva ebbe il potere di attrarre non
solo gli intellettuali del sindacato, gli insegnanti delle scuole medie e
superiori ma anche molti accademici.
Essi aprirono le porte dei loro istituti agli operai, invitarono i
sindacalisti a tenere lezione all’università, rimisero in discussione
l’uso e il potere sociale del loro sapere. Furono istituiti seminari
monografici a livello universitario, liberi da riconoscimenti formali per
le avanguardie politiche e culturali sui temi considerati più urgenti:
teoria politica, analisi economica, situazione internazionale, uso operaio
della scienza borghese, etc.
Il dibattito interno si focalizzò soprattutto attorno alle questioni
relative alla formazione di una coscienza non subalterna: cos’è la
coscienza operaia? come si forma e si trasforma la coscienza di classe?
Qual è il ruolo della pratica, dei processi sociali, quale quello della
riflessione e della teoria? Quale il rapporto tra ricerca e azione, tra
teoria e prassi, tra le lotte, i cambiamenti che esse provocano e le loro
elaborazioni culturali e riflessive? Che rapporto va intrattenuto con la
cultura borghese: possesso, rifiuto, critica? E ancora: qual è il ruolo
dell’intellettuale/insegnante: “intellettuale organico”, organizzatore
culturale?
Come costruire conoscenza a partire dalla consapevolezza della propria
parzialità, della propria non neutralità? Operai e studenti leggevano
insieme Marx, Engels, Lukacs, Merleau-Ponty, Fanon, insieme a Montaldi,
Revelli, Marcuse...
Ciò che emerse conteneva molti elementi di
sorpresa.
Nelle classi si dette spazio non solo alle
letture dei classici, ma alle esperienze e alle storie individuali. Si
raccoglievano volumi di storie orali, esperienze di vita, storie
d’emigrazione e di vita di fabbrica narrata dalla parte di chi le viveva
in prima persona. Si tentava di vedere come le discipline accademiche
potevano illuminare i disegni delle vite e il loro far parte di contesti
collettivi più globali, renderli comprensibili.
Si discuteva sull’efficacia della comprensione storica versus
l’analisi del presente attraverso le ”inchieste operaie” introdotte dai
Quaderni Rossi. Si dibatteva sul senso della socializzazione nei processi
culturali: sul valore educativo della creazione di legame sociale versus
un’acculturazione più accademicamente rigorosa.
Le classi si costituirono poco a poco in una
zona franca, dove le norme culturali ma anche quelle del dover essere
politico erano sospese a favore di una ricerca e di un ascolto delle voci
degli individui e dei loro vissuti. Ciò significò che alle storie
collettive di una mitica e astratta “entità” chiamata classe si
sostituirono le storie personali, all’ideologia i vissuti reali.
La “compattezza della classe” iniziò a sbriciolarsi in diversità e
conflitti, le “avanguardie” in persone piene di desideri contradditori in
cui i sogni d’integrazione nell’esistente erano altrettanto forti che
quelli di cambiamento e di “rivoluzione”. Si toccava con mano la distanza
tra l’idealizzazione della classe operaia e la realtà della sua
composizione “umana”.
Gli insegnanti toccavano anche loro con mano i loro limiti, la delusione
di non trovare “la guida della classe operaia”, la difficoltà di accettare
la contraddittorietà degli individui. Le “coscienze”, lasciate parlare in
un luogo franco dalle urgenze della politica, della contrattazione, delle
decisioni, delle dimostrazioni di “linea corretta”, esprimevano tutta la
loro complessità.
corso 150 ore a Milano
Nel frattempo, esaurita la prima ondata di
metalmeccanici, i corsi si riempivano di donne, lavoratrici, casalinghe,
infermiere, che portavano nelle classi operaie tutta la voce d’altre
condizioni di vita. Con una differenza: mentre gli operai, una volta
terminato il corso, se ne andavano, diventavano sindacalisti o membri
degli organismi di quartiere, tornavano al lavoro politico e di fabbrica,
le donne, soprattutto le casalinghe, tornavano, anche allo stesso corso.
Si rifiutavano di abbandonare quello spazio dove si lasciavano parlare le
vite, si ascoltava l’esperienza fuori da regole normative politiche o
culturali.
Era chiaro che quel luogo collettivo, dove lo studio si accompagnava alla
festa, -si studiava ma anche si mangiava insieme, si cantava, si ballava
nei corsi, - salvava da solitudini inconfessabili, dava voce a sofferenze
mai ascoltate, diventava costruzione di nuovo senso e nuova vita: luogo
sociale di un’esperienza individuale e condivisa. Il sapere -studiare-
acquisiva un senso legato alla sopravvivenza, si legava alle esigenze
vitali.
La congiuntura storica volle che questo
periodo coincidesse con la seconda ondata del femminismo, in cui, passato
il periodo “claustrale” dell’autocoscienza stretta, si cercavano sbocchi
di maggiore visibilità sociale, contatti con donne d’altre esperienze,
classe, storia. Alcune insegnanti dei corsi 150 ore erano femministe,
altre furono conquistate proprio dalla potenza delle storie individuali di
donne tanto diverse.
Si formò così naturalmente un ascolto diverso delle donne, nacquero pezzi
di corso separati dalla componente maschile, momenti dove le donne si
riunivano da sole, sui loro temi. Ben presto, anche dal punto di vista
organizzativo, si pose il problema dello sbocco di questi corsi delle
donne che crescevano “troppo”.
Nacque così una specie di “women studies popolari”, dove si sperimentava
l’incontro tra ricercatrici, accademiche, insegnanti e casalinghe, donne
colte che si sentivano “addomesticate”, spente dalla loro cultura, e donne
“incolte”, ricche di un’esperienza e riflessione solitaria sulla vita,
quella che si fa di notte, lavando i piatti, stirando camicie, riordinando
la casa quando tutti dormono.
All’interno dei problemi relativi al
rapporto tra esperienza e cultura propria della tradizione gramsciana e
marxista, si delineò un altro paesaggio, un’altra struttura, un altro
disegno e la necessità di un’altra teoria. Nei corsi per lavoratori si era
dovuta affrontare la questione della divisione del lavoro tra lavoro
manuale e intellettuale. Il potere del sapere si giocava tra classi, ma
all’interno dello stesso sesso.
Con le donne il sapere-potere si caricò del fatto che il sapere implica
come condizione d’accesso alle donne una disidentificazione dal proprio
sesso, di diverso grado e natura. Per muoversi con agio, infatti,
all’interno di un sapere bisogna poterne condividere le metafore fondative,
le fantasie di relazione che lo animano dall’origine e invisibilmente,
tutte agite da soggetti maschili su immagini di corpi femminili.
Si era formulata l’ipotesi che l’inclusione delle voci escluse modificasse
la struttura della conoscenza, la sua epistemologia. Ma quando la voce
esclusa è quella di un soggetto già implicato-implicito come oggetto
fantasmatico, necessario proprio in questa sua posizione di alimentante
misconosciuto al suo funzionamento, cosa succede?
Dal tentativo di fare di questo campo un
luogo di ricerca, dalla difficoltà del sindacato di accettare e capire
cosa si stava facendo, dal praticare questa differenza, nacque un altro
pezzo di storia che è quello della necessità e del tentativo di dare
un’autonomia, culturale e organizzativa, ai corsi di sole donne,
culminato nella creazione di quelle libere università che furono il
Virginia Woolf di Roma e la Libera Università delle donne di Milano.
Questa autoproclamazione universitaria voleva affermare il rigore di una
ricerca “altra”, sottostante la scena pedagogica classica, sostanzialmente
centrata attorno alla ricerca della costituzione sessuata delle discipline
e attorno al significato della relazione tra donne nel gesto pedagogico.
Ma questo è già l’inizio di un’altra storia.
Questo scritto è stato
pubblicato in “70 gli anni in cui il futuro è cominciato” n.4/1973.
In edicola con Liberazione a partire dal 1 marzo 2007.
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