Le illusioni perdute di Kiran Desai
di Anna Nadotti


In epigrafe al suo secondo romanzo, Eredi della sconfitta, che le è valso il Booker Prize 2006 e ora negli Stati Uniti il Premio nazionale della critica, Kiran Desai mette una poesia di Borges, Vanteria di quiete, di cui vale la pena citare qui almeno un verso - «La mia umanità sta nel sentire che siamo voci di una stessa penuria» -, quasi una anticipazione programmatica delle vicende del libro. Sebbene sia ambientato alla metà degli anni Ottanta tra Kalimpong, sperduto villaggio indiano al confine con il Nepal, e New York, non è una forzatura leggere Eredi della sconfitta come un romanzo calato nelle atmosfere del mondo globalizzato successivo all'11 settembre.

Attraverso precise scelte narrative, dettate anche dall'appartenenza a una generazione in contatto quotidiano con i conflitti, la frammentazione e la provvisorietà, Kiran Desai fa uso di una lingua composita per raccontare infatti - con una lucida pietas che vale come antidoto alle reiterate umiliazioni della storia - brandelli di vita di persone dislocate dal destino sempre e comunque altrove.
Nessun eroe, nessuna epifania, ma un montaggio di episodi che, distanziati nel tempo e nello spazio, si assemblano a poco a poco in una trama unitaria, nutrita dall'immaginario dei nostri giorni e dalla capacità di guardare e descrivere sia ciò che ci viene mostrato sia ciò che ci viene nascosto: uno sdoppiamento che il sud e il nord del mondo condividono, e che Kiran Desai mette in luce con controllata ironia, facendone il riuscito e dolente leit motiv del romanzo.

A Kalimpong, Sai Mistry «seduta in veranda, leggeva un articolo sui calamari giganti in un vecchio numero del "National Geographic"... Sul retro, nell'antro della cucina, il cuoco tentava di accendere il fuoco con la legna umida». Intanto a New York, «nelle cucine dei seminterrati c'era un universo intero che Biju non era pronto ad affrontare... perfetto primo mondo al piano di sopra, perfetto terzo mondo ventidue gradini più sotto».

Sai ha diciassette anni, parla solo l'inglese e non ha mai lasciato l'India. I suoi genitori, un parsi e una indù che si sono incontrati tra le tombe moghul in un parco di Delhi, sono morti quando lei aveva sei anni. Era l'epoca di Nehru e il padre astronauta, destinato a essere lanciato nello spazio, sarebbe dovuto diventare un eroe della collaborazione scientifica indo-sovietica.
Invece è stato travolto con la moglie da una corriera nelle strade di Mosca e la bambina, dopo qualche anno in un collegio di suore inglesi, vive ora con il Giudice Patel. Mai l'autrice usa la parola «nonno» per riferirsi a questo mimic man che, come certi personaggi di Naipaul, si è al tempo dei suoi studi a Cambridge «esercitato a essere inglese con la passione dell'odio», e tuttora si ostina a esserlo mettendo in atto la stessa rabbiosa meticolosità con cui la nebbia avvolge la sua isolata dimora divorata dalle tarme.

Immigrato clandestino negli Stati Uniti, Biju, il figlio del cuoco, vive e lavora in quel mondo di sotto che rende possibile il mondo di sopra. E lì, negli innumerevoli seminterrati più o meno sporchi in cui è segregato insieme ad altri uomini di ogni colore, Biju comincia a porsi - con il suo inglese stentato, con la sua ignoranza della geografia, con i suoi continui stupori - le molte domande che lo riporteranno a casa.
Tra i vapori spesso mefitici delle cucine, in un mondo attraversato da contraddizioni, stereotipi, violenze, astuzie e solidarietà, Kiran Desai mette a punto un linguaggio rappresentativo delle molteplici provenienze e dei gerghi segreti che proteggono le giornate a rischio di chi è privo di green card: perché a New York «si condivide ogni istante della vita con persone che ti spariscono di torno nel giro di qualche ora: la classe ombra è condannata a muoversi in continuazione. Gli uomini cambiano lavoro, città, vengono espulsi, tornano nel loro paese, cambiano nome».

Dai seminterrati della città viene «l'eco non azzerabile delle lingue indiane», per dirla con le parole di Anita Desai, a cui il romanzo è dedicato. E vengono altri echi, di villaggi lontani, di aspirazioni individuali e sogni famigliari, di rivalità inventate, specchio di confini tracciati «con ben poco talento» dagli inglesi.
E non solo da loro, perché basta cambiare interlocutore, nel mondo di sotto, per trovare testimoni di fratture operate da altri maldestri disegnatori di confini. Nella polifonia linguistico-lessicale franta e insistita di Kiran Desai, in cui qualche critico italiano ha voluto vedere un impoverimento dell'inglese, ritroviamo invece una appropriazione, una intermediazione, che allude a un possibile ricomporsi - quantomeno sul piano narrativo - di soggetti diversi.

Tra il vecchio cuoco e suo figlio Biju c'è un oceano colmato dalle lettere, da una scrittura le cui reticenze non vengono colte come tali e autorizzano non solo sogni ma anche contronarrazioni. Quei fogli di carta leggera, che raccontano un'altra storia possibile, svolgono una funzione non dissimile da quella dei grandi romanzi, inglesi e non, della biblioteca dove Sai si reca periodicamente insieme alle sue anziane amiche, due sorelle bengalesi che da Calcutta si sono ritirate nell'«esotica» Kalimpong.
Ai loro percorsi di lettura - V.S. Naipaul e Trollope, Mahasweta Devi e Agatha Christie, Amit Chauduri e Emily Brontë - Kiran Desai dedica più di una pagina, e meriterebbe di scriverne a lungo, perché le loro scelte e valutazioni evidenziano quanto l'autrice si discosti da altri scrittori della diaspora.

Lontana dalle mode letterarie quanto riservata nella vita, Kiran Desai sembra voler mettere la parola fine non al suo romanzo, bensì alle illusioni del multiculturalismo.
La pioggia stagionale che trasforma Kalimpong in un universo di fango e travolge i titoli dei libri e le storie d'amore (quella appena sbocciata tra Sai e il suo insegnante nepalese Gyan, coinvolto quasi suo malgrado nel movimento di liberazione di quel territorio di confine, e quella trentennale tra lo zio Potty e padre Booty) impone al lettore di accantonare lo sterile ottimismo di alcune semplificazioni interpretative, accogliendo le contraddizioni economiche e politiche e le frustrazioni della storia non - o non solo - come oggetto di racconto ma come strumenti narrativi.

Insieme ai cigolii del cancello che si spalanca per far entrare Biju di ritorno a casa, di ritorno in India, siamo dunque invitati a fare nostre le domande che Sai rivolge a se stessa sotto la pioggia battente, tra l'esultanza di milioni di rane: «Che senso ha tutto questo? Perché non dovrei avere...? Come osate...?».
Ma soprattutto la risposta che infine si dà: «La semplicità di ciò che le avevano insegnato non reggeva. Non sarebbe mai più riuscita a pensare che ci fosse una sola trama e che fosse solo sua, che avrebbe potuto crearsi la sua minuscola felicità e viverci dentro».
 

Kiran Desai,
Eredi della sconfitta
traduzione dall'inglese di Giuseppina Oneto,
Adelphi, 2007, pagg. 391,
€ 19.50

 

questo articolo è apparso su il manifesto del 7 aprile 2007