Roma
6-7 marzo 2004:
Seminario Femminismi di ieri e di oggi
(Casa internazionale delle donne)
Il femminismo è ancora una pratica di modificazione
di sé e del mondo?
di
Lea Melandri

Lea Melandri
Ho dato come titolo alla mia relazione una domanda che, per amore di pace,
in incontri allargati come questo non dovrebbe essere posta, e che può
generare equivoci: bisogno di centralità, proposta di linee politiche
unificanti. La pongo ugualmente perché dice, in sintesi, alcuni
dubbi che si sono andati rafforzando in me negli ultimi anni, ogni volta
che mi sono trovata in situazioni collettive -convegni, seminari-, ma
anche all'interno delle associazioni di cui faccio parte.
Un aspetto innegabile è la grande diversificazione che caratterizza
oggi il femminismo, tanto che molte giustamente preferiscono parlare di
"femminismi". Mi piacerebbe capire che giudizio ne diamo: per
alcune è ricchezza, per altre frammentazione, dispersione o frustrazione,
quando si verifica l'impossibilità di convergere al momento opportuno
su questioni su cui ci premerebbe arrivare a una presa di posizione collettiva,
come per esempio sulla guerra o sulle biotecnologie.
Anche in passato il movimento delle donne ha avuto anime diverse, ma erano,
mi verrebbe da dire, passionalmente in contrasto, spinte a incontrarsi
dal bisogno di trovare un "punto di vista", un'angolatura da
cui analizzare il rapporto tra i sessi, e soprattutto una pratica capace
di produrre effettivi cambiamenti al riguardo.
Rileggendo il libro appena ristampato nella collana "Letture d'archivio"
(Fondazione Badaracco-Franco Angeli, Milano 2004) -Anna Rita Calabrò,
Laura Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e
percorsi a Milano dagli anni '60 agli anni '80-, appare chiaro che la
differenziazione ricalcava allora i poli opposti e complementari di una
dialettica nota: sfera personale e sfera sociale, sessualità e
politica, psicanalisi e marxismo. A tenere insieme le donne in convegni
nazionali affollatissimi si può pensare che fosse il bisogno di
interezza: non si poteva dividere il corpo dal pensiero, il privato dal
pubblico, l'amore dal lavoro, la famiglia dallo Stato, il conflitto tra
i sessi dal conflitto di classe, e così via. Le tante diversità
si potevano ricondurre essenzialmente ai due poli di una dualismo astratto,
da cui tentavamo di prendere distanza. Ci si muoveva, in altre parole,
dentro una complementarietà rivisitata criticamente, che ci rendeva
necessarie le une alle altre. C'era un corpo a corpo fatto di frequentazioni
quotidiane, di scontri violentissimi, di prese di posizione diversificate,
di avvicinamenti e allontanamenti. Tutto fuorché l'indifferenza.
La possibilità di giudicarci, di contrastarci, non era solo tollerata,
ma ritenuta indispensabile per intaccare ragioni inconsapevoli di consenso,
adattamento a modelli imposti e interiorizzati come propri.
La diversificazione andava allora a toccare due realtà - la sfera
privata e quella pubblica, l'ordine sessuale e quello sociale-, che, pur
essendo da sempre intersecate, sono arrivate a noi come poli divisi, asimmetrici,
disposti secondo una precisa gerarchia, segnati da una alterità
irriducibile.
Portarle allo scoperto, mostrarne le implicazioni reciproche, prospettare
cambiamenti, aveva allora una evidente forza rivoluzionaria, che le toccava
entrambe. Oggi le differenze, all'interno del femminismo, si sono moltiplicate
ma stanno sullo stesso piano di realtà, hanno un denominatore comune
che è la vita pubblica, i suoi saperi, i suoi linguaggi, le sue
professioni, le sue gerarchie. Il denominatore comune è una cultura
che ha integrato nuovi contenuti ma che conserva in parte il suo impianto
tradizionale, le sue cancellazioni, le sue cesure, rispetto alla soggettività
incarnata.
Si ha l'impressione che, pur mantenendo ferma la presunta neutralità
del loro pensiero, gli uomini siano andati molto più avanti nell'analisi
del rapporto corpo-pensiero, individuo-collettività.
I diversi "femminismi" oggi non configgono tra loro, né
sentono il bisogno di confrontarsi, perché riproducono nel loro
insieme quel mosaico o quella babele che è la società attuale,
con le sue molteplici funzioni.
Oggi ci sono gruppi, centri, associazioni della più varia specie
-la Società delle storiche, delle letterate, delle giuriste, delle
scienziate, ecc.- che lavorano bene in ambiti specifici, ma mostrano tutta
la loro debolezza quando sono costrette a incontrarsi intorno a un fenomeno
che le implica tutte, come ad esempio la legge appena approvata sulla
fecondazione assistita. E' in queste occasioni che noi sentiamo di girare
intorno a un vuoto, dovuto al fatto che non riusciamo più a far
parlare la soggettività nella sua concretezza -l'esperienza personale,
il "vissuto", il modo con cui ognuna sente, rappresenta se stessa
e il mondo-, per capire quanto divario ci sia ancora tra razionalità,
convinzioni ideologiche e desideri, sogni, comportamenti.
Noi possiamo fare sapienti analisi economiche sul lavoro non pagato delle
donne (lavoro domestico, lavoro di cura), ma se non interroghiamo i pensieri,
i sentimenti, il vissuto che lo accompagna, non capiremo mai perché
le donne si sobbarchino questa fatica, che investimento vi fanno sopra,
quali contropartite si aspettano. Ci sfuggirà sempre quello che
resta un caposaldo del potere materiale e psicologico delle donne -quello
che appare loro come il più direttamente accessibile-, e cioè
il rendersi indispensabile all'altro, vincolarlo a sé con la dipendenza,
infantilizzandolo.
Possiamo difendere, per quanto riguarda la procreazione assistita, il
"diritto" della donna a procreare, ma non sapremo mai perché
si accetti di procreare a quelle condizioni, martoriando il proprio corpo,
perché ci si abbandoni con tanta fiducia a una scienza che mira
inequivocabilmente a spostare il processo generativo fuori dal corpo femminile.
Non sapremo neanche che rapporto passa tra donne che oggi sono molto dubbiose
sul fare figli e altre che sopporterebbero di tutto per averli.
La mia impressione,
parlando di "femminismi", è che tra tanto vociare, scrivere,
parlare, ci sia comunque un grande silenzio: per tutto ciò che
delle nostre vite, dei nostri rapporti con l'uomo e con le altre donne,
della nostra quotidianità, delle nostre ansie, sofferenze o felicità,
non riusciamo più a nominare, se non con qualche amica, per paura
di ulteriori divisioni, o per paura di perdere anche le persone più
vicine. Siccome non posso pensare che siamo tornate tutte a fare cultura,
politica nel senso tradizionale, cioè rimuovendo corpo, sessualità,
sentimenti, devo concludere che la reticenza è somma: vediamo tutto
quello che passa in noi e tra di noi, ma preferiamo attenerci a un prudente
silenzio. Pensiamo cose spiacevoli le une delle altre, un gruppo di altri
gruppi; io penso, per esempio, che le istituzioni (partiti, parlamenti,
università, ecc.) abbiano un forte potere di assorbimento e di
omologazione rispetto a quel sapere nuovo di sé che si era profilato
nella pratica dei gruppi femministi, soprattutto se non si riesce a mantenere
quel "pendolarismo" tra esterno e interno che si augurava già
vent'anni fa Annarita Buttafuoco. Ma riconosco anche che le associazioni
autonome, come la Libera Università delle donne a cui appartengo,
corrano il rischio opposto, che è l'autoreferenzialità,
il distacco dal mondo in cui si vive.
Penso, inoltre, che tanta enfasi sulla "libertà femminile"
sia ideologica, che non faccia i conti con le vite reali, le loro contraddizioni;
penso che per un movimento che è partito dalle problematiche del
corpo e della sessualità, non riuscire a parlare dell'invecchiamento,
della malattia, della morte, dei problemi legati alla cura (di un figlio,
un marito, un genitore anziano), del rapporto con le donne straniere che
vivono nelle nostre case, sia una resa, una sconfitta ( e non mi riferisco,
credo sia chiaro, ai numerosi convegni su native e immigrate, dove si
concordano battaglie comuni, ma raramente si parla in prima persona e
per esperienza diretta). Lo stesso si può dire della difficoltà
a esprimersi su un fenomeno drammatico e vistoso come la riduzione delle
persone a nuda corporeità ( i corpi devastati dalla fame, dalla
guerra, dalle malattie, dalle migrazioni), a pornografia, a sommatoria
di organi (biotecnologie, sperimentazione genetica).
Il ciclo produzione-consumo viaggia molto più veloce delle nostre
analisi e delle nostre pratiche, le assorbe e le rimanda distorte, mostrificate,
irriconoscibili. Ma anche il movimento rivoluzionario, quello dei Social
Forum, che è oggi l'espressione più alta del dissenso e
della voglia di cambiamento, ha, a suo vantaggio, o semplicemente a suo
sostegno, una storia di simili, padri e fratelli, che contesta e da cui
prende le distanze, ma che gli ha tenuta aperta da millenni la scena pubblica,dove
gli uomini si muovono con più rapidità e disinvoltura di
noi.
Per concludere:
il fatto che ci siano tanti temi, tante problematiche di ordine privato
e pubblico all'attenzione del femminismo oggi, non significa maggiori
capacità modificative di se stesse e dell'esistente. Invece di
uno slogan ormai svuotato di contenuti, come il "partire da sé",
dovremmo forse provare a chiederci se e quali cambiamenti produce in noi
la relazione con le altre donne (divenuta più solida, più
continuativa, direi quasi "istituzionalizzata"), se ci sono
ancora interrogativi, desideri di conoscenza e di cambiamento legati alle
nostre vite e che lì, nella pratica collettiva, possono trovare
risposte, se il separatismo è diventato solo una rassicurazione
-di appartenenza, identità, storia comune-, o se è ancora
il luogo di modificazioni effettive, riguardo al modo di pensarsi, sentirsi,
agire nel mondo.
Una delle novità più significative di questi seminari sul
femminismo, la sua storia, le sue possibili riattualizzazioni, è
la presenza attiva, dichiarata, di generazioni diverse, capace perciò
di confrontare esperienze, ma anche di capire che cosa è stato
trasmesso della nostra pratica politica.
Se è vero, come si è detto spesso, che l'autocoscienza si
comunica praticandola, allora è importante che, insieme alla proposta
di tematiche, come sono quelle che affronteremo nei gruppi di lavoro,
si discuta anche del modo di affrontarle, perché non restino sospese
nel mondo delle idee, delle acquisizioni teoriche generali, e siano invece
calate nelle nostre vite, nelle domande che più ci premono in questo
momento.
Rileggendo gli Atti dello Sconvegno, che si è tenuto a Milano nel
maggio 2002, ho notato che uno dei punti si cui le donne trentenni presenti
hanno più insistito è il rapporto tra femminismo e femminile.
Il riferimento era in particolare ai modelli di femminilità che
passano nella pubblicità, nei media, nei consumi, ma io lo estenderei
a quella parte di esperienza personale che, per la generazione degli anni
'70, è tornata ad essere un "privato" indicibile nel
lavoro collettivo, e che, per le più giovani, non è mai
stata al centro di una pratica politica.
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