Complicità femminile o ipocrisia maschile?

di Lea Melandri

 

Delusi! I commenti alla vicenda di Natascha Kampush non riescono a celare la palpabile delusione di chi si aspettava lo scoperchiarsi di un girone infernale, dietro la porta blindata della stanza in cui Natascha ha trascorso otto anni della sua vita, e ha visto invece comparire un interno di famiglia: gesti, abitudini, occupazioni che si potrebbero considerare “normali”, se non fosse per quell’ingresso sbarrato. Ma più sorprendente ancora è parso il comportamento della vittima, una volta uscita dal controllo del suo aguzzino. “Ci sono stati casi di vero e proprio rapimento amoroso per il sequestratore da parte della ragazza sequestrata  -scrive Edoardo Boncinelli (Corriere della sera 29.8.06)-, ma qui non c’è nemmeno questo incapricciamento. C’è una presa di distanza, una strana aria di maturità, un’assenza almeno apparente di odio verso chi le ha fatto subire un rapporto estorto e distorto, negli anni dello sbocciare della sua femminilità”.

Di complicità femminile i giornali hanno scritto a lungo anche a proposito della madre di Hina, sorpresi che una donna potesse privilegiare la fedeltà a un marito, a una tradizione, a una comunità di appartenenza, piuttosto che la legge del proprio cuore di madre. Ma si può credere sul serio che siano così sorprendenti i molti modi con cui le donne hanno fatto fronte a secoli di schiavitù? E’ davvero così difficile comprendere le ambiguità di un dominio che, come ha scritto Virginia Woolf, ha fatto della donna “un verme con le ali di un’aquila”, “lo spirito della vita rinchiuso in casa a tagliare il lardo”?  Tempi lontani, ombre del passato  -qualcuno potrebbe dire. Neanche tanto, per la verità. Le sacche di resistenza sono ancora numerose, disseminate ovunque sul pianeta, e, per la mescolanza mai interrotta di popoli e costumi, presente anche nelle pieghe di civiltà ‘avanzate’ come la nostra.

Dietro la sorpresa, la delusione, il visibile disappunto, non si può non sospettare la difesa a oltranza di quello stesso potere o privilegio maschile, che molti vorrebbero confinare nelle sue forme estreme, “abnormi”, “mostruose”, chiedendo che a combatterle siano le donne che ne subiscono le conseguenze. Il “mostro” e la “bella”, il predatore e la preda, uniti da un legame di amore e odio, attrazione e repulsione, che li proietta fuori dalla storia, finiscono per essere una di quelle invarianti che la società patriarcale si scrolla ogni volta di dosso, per non dover riconoscerne la matrice al proprio interno, e assumersene in qualche modo la responsabilità.

Rientra in questo tentativo di stornamento anche la “spiegazione” che Edoardo Boncinelli ha dato delle “vie” insospettabili della “complicità femminile”. Dopo averci aperto, assieme ad altri “audaci navigatori” della scienza, le “strade dell’immortalità”, promesso invecchiamenti meno rapidi, rigenerazione di organi in disuso, nascite perfette, esenti da ogni rischio, e dopo aver salutato nella lettura del genoma umano il manuale necessario a “costruire un uomo (E.Boncinelli, G.Sciarretta, Verso l’immortalità?, Cortina 2005), lascia alquanto perplessi il ritorno in campo di una “natura” animale, istintuale, chiamata a supporto dell’ “amore romantico”.

Le “componenti essenziali” del rapporto sentimentale sarebbero, per Boncinelli, la sessualità “finalizzata alla riproduzione” e “un attaccamento reciproco” modellato sul legame madre-figlio, “presente in molte specie animali” e fondamento delle “cure parentali”: nutrimento, protezione, sicurezza. L’unica differenza, rispetto al mondo animale, sarebbe che i “cuccioli” dell’uomo restano tali molto più a lungo, tanto da contagiare ruoli, affetti,vincoli, della coppia adulta. Dai “recessi del cuore umano” sarebbe affiorato in Natascha, bambina e adolescente segregata da un uomo più anziano di lei, un “barlume di istinto materno verso il figlio discolo ma in fondo bisognoso di protezione”.

Sulle radici “preistoriche” di ogni amore felice, sulla beatitudine dell’originaria fusione del figlio e della madre, Freud ha scritto pagine di innegabile verità. Ma, guardate attraverso una soggettività femminile capace oggi di pensieri e parole propri, si è fatto chiaro anche l’immaginario che le sostiene, il ricongiungimento armonioso che l’uomo ha continuato a sognare, come riparazione a tutti gli strappi e gli steccati che ha messo tra sé e il corpo che l’ha generato, perché restasse sempre tale, aperto alle sue nostalgie di bambino, e perché, al medesimo tempo, non potesse nuocere alla sua autonomia di individuo.

Il determinismo biologico, calato qui con rara pesantezza e ingenuità a fronte di una esperienza effettivamente singolare, ma per ragioni opposte  -di maturità, saggezza, comprensione dei bisogni umani-, dovrebbe far riflettere sulla discrepanza profonda che si è aperta tra una cultura maschile arroccata sui suoi pregiudizi, le sue rimozioni, i suoi privilegi, e voci femminili straordinariamente lucide, capaci di aprirsi un varco e un ascolto pubblico, anche attraverso una semplice “lettera”. E’ il breve scritto con cui Natascha ha voluto zittire curiosità morbose di cronisti, giudizi affrettati e deformanti di “esperti”.

Nel “guazzabuglio” dei suoi pensieri, e nella “tomba” che l’ha vista comunque crescere “giovane donna con un interesse verso la cultura e la lettura”, Natascha dimostra di aver conosciuto quei tratti umani, come la pietà, l’amore, la sottomissione, la forza, la solitudine, l’angoscia, che molti, cresciuti all’aria aperta e nella libertà ancora stentano a considerare come bisogni ugualmente presenti, pur nella loro contraddittorietà, nell’esperienza di ognuno.

Il discrimine tra l’amore e la violenza, che la legge disegna in modo netto, ha linee molto più aggrovigliate quando lo si riporta all’esperienza vissuta, e, soprattutto, quando non si ha fretta di cristallizzarlo entro schemi preconcetti e semplificatori. E’ lì, su quell’ambiguo confine tra sentimenti opposti, che sfumano i concetti di “normalità” e “anormalità”, innocenza e perversione, tenerezza e rabbia. “Io ero più forte. Mi teneva in palmo di mano e ai suoi piedi”, dice Natascha, del suo sequestratore. Una metafora che esce, è vero, dall’oscurità di un crimine odioso, ma che scopre, per così dire, “l’acqua calda”: una generalizzata e ancora largamente condivisa rappresentazione del rapporto tra i sessi.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 30  agosto  2006