"La cura è affare da donne" Il cliché abbattuto dal covid

Lea Melandri

 

In uno dei suoi saggi più noti, “Il disagio della civiltà”, Freud indica come “ i due fondamenti” della vita in comune la “coercizione al lavoro” e la “potenza dell’amore”, riconoscendo in questo binomio anche la differenziazione tra il ruolo del maschio e della femmina, e il rapporto di potere tra i sessi. In realtà, una separazione netta tra amore e lavoro non c’è mai stata.
Oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, a richiedere “competenze” femminili, capacità relazionale, flessibilità, affetto, è il sistema produttivo stesso, la nuova economia incentrata sul lavoro cognitivo, immateriale. Per un altro verso, la progressiva monetizzazione della cura – dentro e fuori l’ambito domestico – non sembra aver risolto l’intreccio di lavoro e affetti, e neppure la svalutazione che porta ad assegnare la cura alla parte svantaggiata della popolazione. Conveniente sembra tuttora per il capitalismo avere una riserva indefinita e gratuita di servizi confinati nella sfera privata, contro l’evidenza che li vorrebbe al centro della responsabilità politica.


A profilare un possibile cambiamento è stata, in tempi recenti, la pandemia nel momento in cui ha portato in primo piano il “prendersi cura” come una necessità degli esseri umani, sia come risposta ai bisogni essenziali quando non si è in condizione di autosufficienza, sia come attenzione, affetto, riconoscimento da parte dei propri simili, di cui ogni individuo ha bisogno per vivere. Di fronte a quello che oggi si pone come un “modo diverso di pensare”, non è più solo la divisione sessuale del lavoro ad essere messa in discussione, ma il lavoro stesso, la categoria dell’economico e tutti quei sistemi di sapere “virili” che, oltre ad escludere e marginalizzare le donne, hanno deformato le loro esperienze facendole rientrare negli schemi concettuali in vigore.

Nel libro di Pascale Molinier, “Care: prendersi cura” (Moretti & Vitali 2019) l’uscita dai dualismi che la cultura patriarcale ha “naturalizzato”, si spinge fino a definire un’ “altra antropologia”, capace di mettere in evidenza le nostre vulnerabilità e le nostre interdipendenze “non come punti di debolezza o forme di devianza, ma come costitutive dell’essere umano, questo essere turbato, angosciato, imperfetto, la cui coesione o equilibrio mentale restano precari nel corso di tutta la vita”. Per demolire la “casa del padrone” sono necessari una nuova prospettiva e un nuovo lessico. Tali sono pur nelle loro ambiguità, il “prendersi cura” e l’ “etica dell’amore”, e cioè il coraggio di nominare gli aspetti che restano ancora impresentabili dell’essere umano al lavoro.


“Devo dire – scrive Molinier - che all’inizio ero un po’ reticente all’idea di un’ “etica dell’amore”, trovavo fosse un po’ troppo. Sono un’intellettuale francese, diffido a priori di tutto ciò che può suonare essenzialista, dunque per forza anche dell’associazione tra le donne e l’amore. Ma, attraverso le mie differenti esperienze sul campo, ho cambiato opinione (…) Mi sono rilassata, ho abbassato la guardia, e ho cominciato a parlare d’amore anch’io e ad ascoltare, abbastanza rapidamente in maniera divertita, le obiezioni che mi venivano rivolte da alcuni tra i miei colleghi o amici. In sostanza mi si chiedeva di trovare un’altra parola! Così durante la stesura di questo libro ho sperimentato che è male parlare d’amore quando si è una intellettuale femminista di sinistra: troppo cattolico, troppo femminile, non abbastanza ambivalente, troppo semplice.”

La conclusione a cui arriva - “Dobbiamo imparare, femministe o meno, a non sputare politicamente sull’amore”- è il risultato di una accurata ricerca fatta nel luogo dove la presenza delle donne è massiccia, per non dire esclusiva, una casa di riposo. Pur riconoscendo che il “care” appartiene alle donne “solo perché gli uomini se ne sono sbarazzati, e quindi non per “naturale” estensione del loro essere madri, per ripensare il lavoro in una prospettiva femminista un passaggio necessario era quello che le vede insieme, accomunate e divise da competenze, gerarchie di potere, appartenenze di classe e di razza. “Analizzare i rapporti sociali tra donne, così come le sofferenze che questi rapporti di classe o questi rapporti basati sul colore della pelle, producono, è un obiettivo ai miei occhi prioritario per far compiere dei progressi alle preoccupazioni del care nella nostra società e dunque trasformare radicalmente il lavoro e la società (…)
Il linguaggio dell’amore crea malintesi, innanzitutto tra le dipendenti e le loro superiori. Crea disagio nel campo delle scienze del lavoro, all’interno del femminismo e nel pensiero di sinistra, dove è considerato come un cedimento al ruolo tradizionale delle donne e una debolezza politica.” A mostrare con evidenza che il lavoro di cura sfugge al valore di merce, è il fatto che assomma le incombenze più umili, ripetitive e sgradevoli con quel lavoro intangibile che sono gli sguardi, i sorrisi, la tenerezza, le “relazioni spesse”, sul modello familiare, l’imitazione, l’autoironia, i tanti modi con cui le assistenti di cura, in una casa di riposo, pur facendo un lavoro sfruttato e sottopagato, cercano di creare per le persone anziane e per se stesse una vita decente.


L’interesse del libro di Pascale Molinier non sta solo nel sottrarre l’etica della cura alla confusione col destino femminile, fatto di abnegazione e sacrificio di sé, nel farne una prospettiva inedita per “rovesciare la casa del padrone”, ma nell’aver mostrato, dietro l’apparente omogeneità della femminilizzazione delle cure, il peso che hanno le differenze di posizione e di prestigio.

“I punti di vista delle sottomesse -scrive – non sono superiori ai punti di vista delle dominanti, non sono più “veri” o meno “alienanti”, devono anche loro essere decodificati, decostruiti, non sono posizioni “innocenti”. Pur avendo ristretto la sua analisi a un ambito specifico, quale è quello dei servizi alla persona, ancora in prevalenza femminile, il riconoscimento di un tratto del lavoro irriducibile alla categoria dell’economico si presta a essere esteso a qualsiasi altra forma di lavoro. La “rivoluzione” che parte dalla cura come responsabilità politica viene a porsi così come uno dei tasselli di quella “democrazia sovversiva” (Francesco Raparelli) fatta di una pluralità di lotte che, pur dotate di straordinaria forza, ancora faticano a trovare i nessi necessari a promuovere alternative durature di società e di mondo.



Articolo di Lea Melandri pubblicato su Il Riformista del 6 gennaio 2022