1975: il ’68 delle donne
di Lea Melandri

 
 

Non saprei dire quale fosse nell’anno 1975 lo stato di salute del sistema capitalistico a livello mondiale, ma non sono così sicura di aver perso quel senso di inadeguatezza che, insieme alla noia, mi prendeva ogni volta che i “metereologi  della fase” – i leader politici capaci di analisi complessive- aprivano i loro discorsi con panoramiche ineccepibili, coordinate sicure entro cui collocare la sequenza degli avvenimenti. Se scorro la nuda cronaca dei fatti, che mi è stata gentilmente fornita, ho l’impressione di essere testimone di un’altra storia, ritagliata e racchiusa entro linee chiare, ben marcate, per non perdere le passioni, le idee, le scoperte, le amicizie e gli amori che l’hanno attraversata. Ai protagonisti di un’epoca di eccezionali rivolgimenti, come ai sopravissuti di grandi tragedie, si perdonano le imprecisioni e la parzialità dei ricordi, ma non è nel mio carattere approfittarne. Così vengo in soccorso alla memoria rileggendo, rimestando tra le carte del mio archivio, sfogliando riviste, articoli di giornale ingialliti,e a poco a poco comincia un viaggio che non ricordo di aver fatto, attraverso tempi e luoghi che riconosco solo per frammenti. E’ come quando, vedendo un film per la terza, quarta volta, capita sempre quell’inquadratura che mi fa dire: “mi pare di averlo già visto”.

E’ così che scorrono, evocando pensieri e emozioni estremamente sfocate, i fatti che ancora occupano il primo posto nelle ricostruzioni storiche di quegli anni: gli scontri tra militanti di opposte fazioni, i morti di una parte e dell’altra, le sortite dei Nap e delle Brigate rosse, la liberazione di Renato Curcio dal carcere di Casal Monferrato, la morte in un conflitto a fuoco della sua compagna, Margherita Cagol pochi mesi dopo. In sottofondo: occupazioni di case a Napoli e a Roma, scioperi operai contro la cassa integrazione e i licenziamenti, autoriduzione delle bollette. La guerra del Vietnam volge verso il suo epilogo, in Libano esplode la guerra civile tra cristiani maroniti e musulmani, in Portogallo si festeggia la ‘rivoluzione dei garofani rossi’. Schegge, frammenti imprecisi che si lasciano dietro l’alone di esperienze toccate solo marginalmente, realtà brucianti, subite con rabbia e dolore, tenute già allora a distanza in quanto impedimento alla “rivoluzione” imprevista che parlava un’altra lingua, nominava altre violenze, manifeste o invisibili, inventava teorie e pratiche sconosciute al materialismo storico e al movimento operaio.

A qualche osservatore meno distratto dal fragore delle armi, l’anomalia del nuovo protagonista, il sesso femminile, che compariva inaspettato sulla scena pubblica, facendo balenare rivolgimenti ben più profondi e radicali di qualsiasi precedente sovversione sociale, non deve essere sfuggita, se leggo qua e là nella stampa considerazioni analoghe: “il femminismo è il fatto più importante che sia accaduto nella società italiana dai tempi della rivoluzione industriale”; “Non si era mai visto niente di simile dal ’47, dalle grandi manifestazioni per il voto alle donne”; “E’ il ’68 delle donne”.

Ma dove trovo finalmente la descrizione di ‘fase’ che mi mancava, è nel n.18-19 de “L’erba voglio”, che compare nel gennaio 1975. E’ una specie di editoriale non firmato, ma in cui riconosco la mano di Elvio Fachinelli. Nel quadro di insieme compaiono: la crisi economica, il passaggio della classe operaia a ‘gruppo protetto’ rispetto ad altri e a scapito di altri; i segnali di una situazione prerivoluzionaria, come faceva pensare il controllo sociale di massa assunto dai sindacati e dal partito comunista, la costanza da parte del Pci “nel cercare l’abbraccio con una formazione politica sempre più disfatta”, la Democrazia cristiana, equivalente “a ciò che in certi fumetti dell’orrore è l’abbraccio tra Diabolik e la Morta Vivente”. In una situazione in cui predominano insicurezza, senso di impotenza, sottoutilizzo dell’intelligenza e della passione degli uomini, “non meraviglia –scrive Fachinelli- che il solo tipo di azione realmente modificativa in corso sia quello promosso da piccoli gruppi animati soprattutto da ciò che a tutti gli altri sembra ‘imprudenza’. Sotto questo aspetto ci sembra legittimo accomunare movimenti diversissimi, come, per esempio, il movimento per l’autoriduzione, le femministe, la sortita radicale per l’aborto”. Liquidato per lo più dagli storici con pochi accenni, o fatto rientrare nelle battaglie per i diritti civili  -divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia-, il movimento che compare da straniero sulla scena pubblica e che per almeno un  anno la fa da padrone, attira l’attenzione dei giornali, che ne seguono gli sviluppi con curiosità, preoccupazione, paternalistici ammonimenti. Una documentazione puntuale, che non arretra nemmeno di fronte ai tortuosi percorsi della pratica dell’inconscio.

Ma è solo verso la fine di un anno del tutto particolare per il movimento delle donne, dopo la grande manifestazione del 6 dicembre a Roma, mentre si discuteva in parlamento una criticatissima legge sull’aborto, che compaiono bilanci entusiasti: il femminismo ha compiuto la sua metamorfosi, dai piccoli gruppi elitari degli inizi alla sortita di massa. Forse, semplicemente, era arrivato là dove era già atteso, in quelle piazze dove la ragione politica di sempre conta i suoi successi e le sue perdite, la sua incisività e la sua debolezza. Dopo aver scavato cunicoli nelle ‘acque insondate’ della persona, del corpo, della sessualità, la rivoluzione silenziosa delle donne, forte di una coscienza nuova di sé e del rapporto con l’uomo, si sarebbe presa la sua rivincita, occupando i luoghi di una millenaria esclusione. L’ “uscita all’esterno” - richiamo all’ortodossia della lotta di classe, nostalgia di ricomposizione contro il separatismo dei gruppi più radicali- portava già un vizio interpretativo: l’idea pregiudiziale di una gerarchia di bisogni e di valori, che le pratiche originali, ‘eretiche’ del femminismo avevano sconvolto. La contrapposizione, sottolineata da storici e sociologi, tra “pratica analitica” e “pratica sociale”, avrebbe tenuto il movimento delle donne diviso tra modificazione di sé e modificazione del mondo, autocoscienza e salario al lavoro domestico, esplorazione dell’inconscio e manifestazioni per l’aborto libero. Ma una lettura più attenta di resoconti di convegni e documenti in circolazione nel ’75, mostra al contrario quanto la rilevanza e la diffusione che ha preso in quell’anno il femminismo sia stata proprio la messa in discussione di ogni falsa dialettica, di ogni fuorviante semplificazione dualistica. I temi del corpo, della sessualità, dell’analisi del profondo, invadono i collettivi di fabbrica, di quartiere, gli ambulatori, tanto quanto la teoria marxista dei bisogni, riportata sulla materialità dell’oppressione sessuale delle donne e sulla ‘critica della sopravvivenza affettiva’, impronta i due gruppi nati dal collettivo milanese di via Cherubini: il Gruppo Analisi, attivo fin dal 1974, e il Gruppo di pratica dell’inconscio. Con quest’ottica inedita, che sposta la politicità del rapporto tra i sessi dalla sfera pubblica a quella ‘personale’, vengono assunti e fatti propri temi come l’aborto, la violenza contro le donne, imposti in prima battuta dall’esterno: il referendum promosso dal partito radicale, la nascita di centri per l’aborto e la contraccezione (Crac), il delitto del Circeo, le polemiche intorno al film Life Sitze.

Il 10 gennaio a Firenze vengono arrestati un ginecologo e 40 donne in uno dei ‘centri di sterilizzazione” sostenuti dai radicali. Arrestati anche Spadaccia e Adele Faccio. Gli fanno seguito, pochi giorni dopo, manifestazioni abortiste in molte città. Nello stesso mese, sulla rivista “L’erba voglio”, n.18-19, esce il documento Pratica dell’inconscio e movimento delle donne, alla cui stesura avevo preso parte insieme ad alcune femministe di via Cherubini. In quel momento, il Gruppo Analisi esiste già, promosso, tra le altre, da Lia Cigarini, Luisa Muraro e Elena Medi, con l’intento di “tradurre nel movimento il rapporto analitico”. Analiste e analizzate, presenti nello stesso gruppo, si impegnano uno scambio continuo tra il sapere che viene dal rapporto analitico e dalla elaborazione collettiva. Non convinta del buon esito della sovrapposizione tra il vissuto personale che entra nel transfert analitico e il dover essere politico di cui si fa portatore il gruppo, do avvio, insieme a una ventina di donne, a un secondo progetto: il Gruppo di pratica dell’inconscio. Ho accostato questi diversi accadimenti non per ragioni di vicinanza cronologica, ma perché è dal loro incontro-scontro che nasce il felice innesto tra sessualità e politica, corpo e legge, individuo e collettività, presa di coscienza e azione pubblica. Di questa ricerca di nessi, fuori da astratti dualismi, esempio insuperato resta, a mio avviso, il convengo che si tiene al Circolo De Amicis a Milano l’ 1-2 febbraio ’75, la cui trascrizione compare nel “Sottosopra rosso”, insieme ad altri documenti. “Il movimento delle donne da anni ha una pratica politica che investe la sessualità e quindi anche il problema dell’aborto…è una questione che ci riguarda in prima persona e tutti vogliono in questo momento coinvolgerci, dai preti ai partiti della sinistra extraparlamentare. Il ritrovarci tra noi significa che affrontiamo questa tematica nei modi politici che sono nostri. Non è nel nostro interesse trattare il problema dell’aborto per se stesso. Il nostro sforzo è invece di legarlo a tutta la nostra condizione, e in particolare alla nostra sessualità e al nostro corpo.” Pur nella scelta diversa di aderire o non aderire alle manifestazioni abortiste, quello che nessuna vuole è che “l’aborto come il divorzio venga ridotto a un pezzo di riforma isolato dalla sessualità dominante e dalla struttura sociale che ha fatto della donna una macchina per la riproduzione”.

Nei mesi successivi la ‘lezione’ che viene da Milano vince la diffidenza e l’esitazione dei collettivi femministi delle altre città, in modo particolare dei gruppi romani. A San Vincenzo, sulla costa toscana, nella tarda primavera, avviene la prima verifica collettiva  a livello nazionale, presente la Commissione psicanalisi del collettivo di via Pomponazzi. Raccontare oggi di centinaia di persone che si trovano a condividere per alcuni giorni stanze, bagni, pranzi, passeggiate, e, soprattutto, ore e ore di discussione senza nessun ordine del giorno, nessuna relazione introduttiva, nessun leader delegato in quanto tale a condurre il lavoro, desta incredulità. Ma ancora più sorprendente è sapere che, come è accaduto a San Vincenzo, è bastato che alcune donne di Roma si sdraiassero sulla spiaggia a prendere il sole senza reggiseno, attirando l’attenzione di alcuni ragazzi del luogo, perché di questa ‘provocazione’, nei suoi risvolti inconsci, si parlasse animatamente per due giorni. Al confronto di tanta passione, le nostre riunioni attuali, composte e asettiche, mi fanno pensare che i corpi si siano di nuovo eclissati, costretti nella posizione di spettatori muti. Benché la pratica dell’inconscio sia rimasta esperienza di poche, la sua rinomanza, la curiosità e le fantasie che ha scatenato nei media, hanno sorpassato di gran lunga altre iniziative che intanto facevano del femminismo una coscienza diffusa: i gruppi di medicina delle donne, i primi consultori autogestiti, i collettivi nei luoghi di lavoro e persino nelle fabbriche (Ibm, Face Standard, Siemens). Nascono librerie –la Libreria delle donne di Milano di via Dogana 2 apre nell’aprile- case editrici, riviste, teatri. Eppure l’occhio vigilante di una stampa affamata di novità non si fa distrarre né confondere. “La mina antiuomo”, come titola l’Espresso all’indomani dell’uscita dell’ Erba voglio n.18-19, è che “dopo aver denigrato per anni la psicanalisi, quale scienza borghese e maschile, le femministe se ne sono impadronite e ora teorizzano tra l’altro rapporti completi tra donne per rilanciare il loro attivismo…Siamo dunque arrivati, per dirla chiara, a una svolta del movimento delle donne che porterà alla teoria dell’omosessualità come pratica liberatoria?”

Nell’estate del ’75, nei mesi di luglio-agosto, duecento donne invadono l’isola di San Pietro, Carloforte, sulla punta occidentale della Sardegna, in quella che resterà per me una vacanza memorabile, uno di quei passaggi che allargano gli orizzonti, mi verrebbe da dire ‘marini’, della  vita. Quel ‘trauma benefico’, come lo definì un simpatico giovane assessore comunista, oggi proprietario di uno dei più famosi ristoranti dell’isola, ha un’origine apparentemente casuale: un invito che mi viene fatto, insieme ad altre donne del femminismo a partecipare a un seminario all’Università di Cagliari; la prima volta che prendo un aereo, la prima volta che metto piede in Sardegna; il seminario che si trasforma in una animata assemblea di cinquecento studentesse. Con Betta, Annalisa, Silvana, che mi accolgono nella loro città, si profila l’occasione di una vacanza a Carloforte, mi chiedono di dirlo “a qualche amica”. Per quell’ossimoro vivente che ero allora, e che in parte ancora sono, solitaria e innamorata della collettività, ‘qualche amica’ diventa immediatamente il movimento delle donne. Mi è difficile oggi ragionare sull’ estate ‘75, sui cambiamenti che ha portato nella vita di molte di noi quella quotidianità insolita, fatta di cene, balli, nuotate a grappoli, assemblee serali, risate e lacrime, amori e abbandoni, scoperte liberatorie per chi, come me, conservava il vago ricordo delle spiagge dell’Adriatico, quando l’ ‘acqua alta’, nel grido di allarme materno, era l’onda che arrivava al ginocchio, e che ora invece, con maschere e pinne, esplorava i fondali marini. C’è una parola che esprime con precisione quella felicità inquieta che mi apriva piaceri sconosciuti, che poi avrei ritrovato ogni anno, fino a oggi, come un sogno d’amore riuscito: ‘ebetudine’, sintesi di beatitudine e inebetimento, pensieri che mi attraversavano quando, salendo e scendendo dagli scogli dove si ammassavano come in una scena biblica cinquanta donne nude, intente a spalmarsi di creme e di pensosi discorsi, mi ricordavo degli amici che erano partiti in quegli stessi giorni per il Portogallo attirati, come scriverà Fachinelli sul n.21 de “L’erba voglio”, “da un processo rivoluzionario che coinvolge su scala di massa quei movimenti di base che dal ’68 serpeggiano in Europa e che sono il dato rilevante di nuovi modi di far politica”. Non so che segni abbia lasciato su Elvio il suo “tentativo de amor”, al ritorno non abbiamo più avuto  voglia di parlarne, mentre il nostro sodalizio di anni andava sciogliendosi. So che nell’estate dell’ ’89, a sei mesi prima della morte, ha trascorso alcuni giorni a Carloforte con la figlia Giuditta. Aveva lasciato che ‘il mare entrasse nella reggia di Creta’, come nella suggestiva immagine che compare nelle pagine di apertura del suo ultimo libro, La mente estatica. Della vacanza femminista si continua a parlare nel convegno che si tiene in settembre a Firenze, ma su quella invasione pacifica e conturbante insieme, su cui non aveva pesato il più piccolo gesto di violenza da parte della popolazione locale, cala poco tempo dopo, come un’ombra che si voluto temporaneamente dimenticare, il massacro del Circeo.

E’ il 30 settembre. La violenza contro le donne diventa da quel momento tema di riflessione, di interventi sui giornali, oggetto di un’ampia ricerca di dati e testimonianze raccolti dalla rivista “Effe”. L’uscita del film Life Size, l’articolo di Pasolini sul delitto del Circeo, scritto poche ore prima di essere ucciso a sua volta tra il 1 e il 2 novembre sul lido di Ostia, creano una specie di vortice, con collegamenti azzardati ma inevitabili. L’ultima delle sue “lettere luterane”, Pasolini la scrive il 30 ottobre e la indirizza a Calvino che alcune settimane prima aveva commentato la violenza criminale di Izzo, Ghira e Guido contro Rosaria Lopez e Donatella Colasanti come il frutto di una generazione malata di neofascisti, figli della borghesia parolina. A quel giudizio, che gli sembrava l’eco di “un discorso antico e meccanico”, fatto di “certezze razionali, democratiche, progressiste”, Pasolini contrappone la visione di una cultura e di una umanità che sta cambiando, come conseguenza di un nuovo modo di produrre, che accomuna nell’esercizio della violenza ‘ ‘poveri’ delle borgate e i giovani borghesi. Sui fatti del Circeo e sulla interpretazione in chiave antifascista che ne viene data, scrive anche il Collettivo milanese di via Cherubini, in una lettera pubblicata sul Manifesto il 12 ottobre ’75. “La provenienza sociale degli assassini, figli della ricca borghesia romana sono stati gli unici motivi che hanno fatto apparire questo episodio di violenza carnale sulle donne come un ‘fatto politico’… La violenza dell’uomo sulla donna è di per sé un fatto politico.”

La notizia della morte di Pasolini arriva mentre è in corso il secondo convegno nazionale del femminismo a Pinarella di Cervia. Il gruppo più affollato si è dato come tema “individuo e collettivo: pratica dell’inconscio”. La preoccupazione è quella di trovare legami tra pratiche diverse, evitando che di cadere in sterili contrapposizioni. Come sempre il discorso passa da una donna all’altra, senza nessuna che coordini, senza preiscrizioni a parlare, senza alzate di mano. Fluisce quasi spinto da logiche interne, impercettibili, con quell’ ‘ordine’ entro cui si dispongono le libere associazioni, che le fa assomigliare, come scrive Freud nei “casi di isteria”, ai materiali di un ‘archivio’ fatto per essere esplorato e riscoperto. L’oggetto di tre giorni di riflessione non poteva che essere quello di una pratica politica stretta tra il bisogno di scavare in profondità nell’esistenza singola e la spinta altrettanto forte all’assunzione dell’orizzonte più ampio rappresentato dai momenti collettivi che il femminismo stesso aveva cominciato a darsi. La domanda d’amore, che il piccolo gruppo di autocoscienza era sembrato appagare, si fa recriminazione, voglia di fuga, quando il cerchio  si apre ad altre persone, come se il collettivo fosse impedimento a quell’analisi del rapporto tra donne che vuole avere al centro il corpo, la sessualità, il vissuto personale.

I due episodi successivi, tra novembre e dicembre, con cui si chiude un anno di un’intensità irripetibile, portano già il segno del riaprirsi di una conflittualità tra uomini e donne, che segna la crisi dell’ideologia marxista-leninista, dei gruppi extraparlamentari, ma anche di quell’idea antiautoritaria che aveva tenuto insieme fino a quel momento il gruppo della rivista L’erba voglio. A fine novembre, per iniziativa di Armando Vermiglione, si tiene a Milano un grande convegno che richiama studenti e docenti universitari da ogni parte d’Italia. Il sapere e le pratiche che erano state dei movimenti più originali del ’68 ad allora, passano dai protagonisti diretti agli esperti, dalle piazze alle cattedre universitarie. E’ in quel momento, con un  controconvegno organizzato da me e da altre femministe al Club Turati, che avviene la rottura affettiva e intellettuale con la rivista e con Elvio Fachinelli, chiamato da Verdiglione tra i relatori. Nel volantino distribuito davanti all’ingresso ai partecipanti al convegno ufficiale, riconosco la rabbia e il dolore dell’inspiegabile incapacità di amore tra uomini e donne. In modo più violento, durante la manifestazione abortista del 6 dicembre a Roma, una ragazza, che si era opposta all’irruzione dei compagni di Lotta continua, contrari al corteo separatista delle femministe, finisce in ospedale. Alcuni mesi più tardi, al convegno di Lc a Rimini, le donne decideranno di uscire dall’organizzazione. E’ ancora una volta la sessualità a chiedere il conto di una rivoluzione mancata: “Vorrei partire proprio dalla mia sessualità… è dalla coscienza di questo che è venuta in me la voglia di ribellarmi, di cambiare le cose, di fare la rivoluzione”.

 


Questo scritto è stato pubblicato in “70 gli anni in cui il futuro è cominciaton.6/1975. 
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