Le aporie della differenza

Lea Melandri

 


 

Differenza” è una parola che ricorre comunemente quando si parla del rapporto uomo-donna, ma l’uso che se ne fa è quasi sempre generico. Manca un riferimento preciso al significato che ha avuto e ha tutt’ora nelle teorie e nelle pratiche del movimento delle donne. E’ mia intenzione mostrare gli aspetti contraddittori, ma sarebbe meglio dire le aporie, a cui va incontro ogni volta che si è tentato di ridefinirla, mutarla di segno rispetto a come l’abbiamo ereditata dalla cultura maschile: dal negativo al positivo, dalla svalutazione alla valorizzazione.

Aporia è quando si possono attribuire allo stesso concetto ragionamenti contrari. Sotto questo profilo non è difficile trovare analogie con altre “differenze” - di “razza”, di etnia, di cultura, ecc.-, a cui la differenza tra i sessi si può pensare che abbia dato l’impianto originario.

Quando si parla di “differenza femminile”, il riferimento non unico ma prioritario ed essenziale, è il materno -maternità reale, simbolica,“virtù del cuore”, Valore D, ecc.- anche perché la sessualità della donna è stata a lungo cancellata, misconosciuta, confusa con la funzione riproduttiva. Persino nei testi di fondatori della psicanalisi, come Freud e Ferenczi, non è raro trovare la sovrapposizione utero/vagina, coito/reinfetazione. E’ solo in tempi relativamente vicini a noi che comincia ad affiorare la distinzione tra la donna e la madre- all’inizio del Novecento fece molto discutere il romanzo autobiografico di Sibilla Aleramo, Una donna (1)-, e il conflitto è tutt’altro che risolto se in Francia l’uscita del libro di Elisabeth Badinter, La femme e la mère. Le conflit (2) è stato accompagnato da un acceso dibattito.

Non intendo addentrarmi in una ricostruzione storica, che richiederebbe molto più spazio, ma solo mettere a fuoco la problematicità del tema, le valenze diverse, a volte contrastanti, che ha preso la “differenza”, riferita specificamente al materno, in varie fasi del femminismo italiano. Si potrebbe anche restringere il campo a quelle che sono state finora le due componenti dominanti -ora prevalenti l’una sull’altra ora compresenti- nel movimento delle donne: l’emancipazione e la liberazione. Sotto la voce emancipazione penso si possa collocare, sia pure in senso lato, anche il “pensiero della differenza sessuale” (Libreria delle donne di Milano) e la femminilizzazione attuale dello spazio pubblico (3). Riservo invece l’idea di liberazione al femminismo degli anni Settanta.

Le aporie in cui si è imbattuto il dilemma della cittadinanza mancata o incompleta delle donne sono già inscritte nel processo di differenziazione che ha contrapposto e subordinato un sesso all’altro. Rispetto al polo che si è posto come “misura”, “norma”, “vita superiore”, il femminile appare al medesimo tempo sotto il profilo della “mancanza” e dell’esaltazione immaginativa: è il corpo da cui l’uomo è nato e che ritrova nella vita amorosa adulta, ma anche la parte naturale di sé, la corporeità, il limite biologico di ogni vita, aspetti dell’umano tutt’altro che insignificanti.

La differenziazione non segna perciò un distacco, la presa di distanza dall’altro da sé necessaria per vederlo in ciò che ha di simile e di diverso, ma ha piuttosto l’apparenza di un capovolgimento: è il più debole che sottomette il più forte, il figlio inerme e dipendente che assume su di sé la priorità e la potenza generatrice della madre, sottomettendola, sfruttandola e svalutandola, ma mantenendo ciò nonostante vivo il desiderio del ricongiungimento con una originaria felicità perduta. Di qui l’ intreccio o la confusione di amore e violenza che è all’origine del dominio maschile e della sua altrimenti inspiegabile durata. Dietro le figure della differenza non si è mai eclissata del tutto l’ombra di un minaccioso inglobamento: è la primordiale indistinzione o “co-identità” con il corpo della madre, e poi, a seguito del capovolgimento delle parti, la collocazione della donna dentro l’orizzonte disegnato dalla civiltà maschile.

Sul femminile l’uomo ha proiettato la sua debolezza, la sua animalità, la sua caduta nella “vita inferiore”, il suo peccato d’origine, ma non ha potuto allontanare dalla sua storia l’oscura coscienza di aver alienato nella donna una componente fondamentale del suo essere: la radice biologica, ma anche tutte le esperienze che hanno il corpo come parte in causa –la nascita, la sessualità, gli affetti, la conservazione della vita, la sofferenza, l’invecchiamento, la morte. L’altro da sé, il diverso, prima che essere un umano dimezzato, è l’onnipotenza del corpo femminile che è parso, allo sguardo dell’uomo-figlio, generare da sé, è la forza soverchiante della natura ancora incontaminata, è il destino della mortalità di ogni vivente.

Rispetto a questo primo “straniero” che l’uomo incontra nascendo si mescolano dunque paura e desiderio, pericolo e ricerca di protezione. La spinta al dominio non viene solo dalla superiore forza fisica dell’uomo, dall’invidia del potere generativo femminile, dal controllo della prole, ma anche dal desiderio di prolungare l’infanzia, di continuare a disporne nella vita adulta. Nell’idea romantica del matrimonio, la donna è vista da principio come “un tenero bimbo” affidata alle cure di un premuroso marito-padre, ma subito dopo le posizioni si ribaltano e diventa la moglie maternamente dedita al suo uomo e così compenetrata dei suoi desideri da diventare “tutt’uno” con lui. La riduzione della donna a “oggetto”, “proprietà” dell’uomo, parla un’altra lingua quando si tratta dell’appropriazione amorosa. Troppo spesso si dimentica che le figure della differenza di genere, nella loro complementarità e gerarchia, strutturano rapporti di potere ma conservano dall’enigma delle origini la seduzione del sogno d’amore : fare di due nature diverse un solo essere armonioso.

La spinta alla riunificazione su un polo o sull’altro è la molla che spiega la tentazione del ribaltamento, ma è anche il segno più evidente che a dar forma al dualismo sessuale è una scissione interna all’individuo umano maschile: tra corpo e pensiero, natura e cultura, infanzia e storia. Se la comunità storica degli uomini ha messo al bando le donne, identificandole come un tutto omogeneo con il sesso di appartenenza, non si può dire altrettanto della “differenza femminile” -Eros, creatività, capacità di accoglimento, tenerezza, ecc.-, che ha da sempre abitato la polis, non fosse altro che come attesa salvifica, possibilità di cambiamento o di rigenerazione. Come scrive Genèvieve Fraisse nel suo libro La differenza tra i sessi : “L’uomo greco esclude le donne mentre si appropria del femminile”.(4)


Questa ambigua presenza-assenza delle donne nella sfera pubblica si fa evidente quando viene posta dall’emancipazionismo tra ‘800 e ‘900 la questione della cittadinanza. Il ruolo materno, inteso come differenza, “natura” femminile, dopo essere stato il luogo in cui si è giocata l’esclusione delle donne dalla res publica, diventa, come scrive Annarita Buttafuoco, “un requisito essenziale per la piena assunzione di diritti”, oltre che un “valore civile” capace di creare forme più umane di socialità. (5)

La contraddizione non tarda a manifestarsi quando alla richiesta diritti uguali di cittadinanza si vengono ad affiancare leggi di tutela, col risultato che “la posizione di debolezza delle donne viene così confermata, normandola.” (6)

Le donne tentano, in altre parole, di ribaltare l’accezione negativa del modello che le ha tenute per secoli in condizione di minorità sociale, giuridica e politica: della sensibilità, della oblatività femminile, della maternità, fanno il loro punto di forza, i “valori” su cui ridisegnare la struttura stessa dei rapporti sociali.

Il dilemma della cittadinanza – uguaglianza/differenza- si va a collocare sostanzialmente dentro la dualità che l’uomo ha creato, ponendo se stesso come misura neutra, universale, e la donna come “differente”. Di qui una serie di incongruenze. Nell’idea che bastasse capovolgere e ridefinire in positivo, e quindi come “valore”, l’appartenenza al sesso femminile, l’emancipazione riproduce in qualche modo posizioni di complementarità e gerarchie note. Le associazioni delle donne, puntando sull’estensione delle “competenze femminili” alla sfera pubblica, finiscono per dedicarsi a opere di carattere meramente assistenziale, anche se non si può negare che abbiano in questo modo contribuito a cambiare l’idea di politica e di società. Più inquietante è l’esito della valorizzazione della maternità in chiave etnica: la missione delle donne nelle guerre coloniali, “nella duplice versione della donna- madre custode del benessere famigliare e della purezza razziale e di educatrice delle donne colonizzate” (7).

Una svolta radicale rispetto alla dualità avviene soltanto col femminismo degli anni Settanta: l’attenzione si sposta dalla sfera pubblica a quella considerata tradizionalmente “non politica”, cioè il corpo, il vissuto personale, la soggettività, le relazioni primarie, la sessualità, la vita affettiva, la famiglia, ecc. Con pratiche anomale come l’autocoscienza, la pratica dell’inconscio, a essere messa in discussione è la “femminilità”, e più in generale la costruzione storica dei ruoli e delle identità del maschile e del femminile, la “naturalizzazione” che hanno subito. La “presa di coscienza”, come svelamento dell’interiorizzazione più o meno consapevole di modelli, schemi cognitivi, pregiudizi imposti dalla cultura maschile – “violenza invisibile”- porta in primo piano l’identificazione della donna con la madre, la confusione tra sessualità e riproduzione, il dramma dell’aborto. La “differenza femminile” viene così letta come destino biologico imposto alle donne e funzionale alla divisione sessuale del lavoro. Si fa strada la consapevolezza che la cancellazione più profonda è quella che ha subito l’individualità femminile, inglobata dentro un’appartenenza omologante come il “genere”, e ridotta a corpo: erotico e generativo.

La figura della madre non scompare, ma viene analizzata dal punto di vista della sessualità (omosessualità) misconosciuta nel rapporto madre-figlia, e come immaginario dell’origine riattualizzato in una inedita socialità tra donne.

A partire dagli Ottanta, anche se una parte del femminismo italiano tenterà di dare seguito alle intuizioni più originali del decennio precedente, diventa nuovamente dominante la spinta a riprendere il tema della “differenza” in chiave di positività e come fondamento di una femminile “voglia di vincere”. Dopo pratiche che sembravano allontanare ancora di più dalla polis -spingendo la politica fino agli estremi confini dell’inconscio- e rinchiudere le donne in una interminabile “tela di Penelope”, gli studi di genere, per un verso, e le teorie filosofiche di Luce Irigaray e di Luisa Muraro dall’altro, appaiono senza dubbio più rassicuranti.

Per uscire dall’inglobamento nell’universo maschile, Irigaray propone di riformulare il patto di cittadinanza dandogli un fondamento oggettivo: l’esistenza di due soggetti, che vuol dire due identità, due visioni del mondo, irriducibili l’una all’altra. Si tratta di pensare a una prospettiva ampia di cambiamento -“un nuovo modo di pensare e di esistere”, di produrre e governare il mondo – che non divida sensibilità e intelletto.

La centralità che riprende il dato biologico è evidente: “l’identità civile” deve essere adeguata, appropriata alla “identità naturale femminile”, che, per Irigaray, non è solo la capacità procreativa, ma la morfologia del corpo della donna (8).

Come era stato per l’emancipazione, il processo è quello dell’estensione delle differenze dal privato al pubblico, e del ribaltamento di un disvalore in valore.

Difficile non vedere nei due soggetti differenti che dovrebbero “condividere il mondo”, il richiamo al sogno d’amore, come ricongiungimento delle nature diverse del maschio e della femmina, o alla “mente androgina” feconda e creativa di cui parla Virginia Woolf.

In Italia il materno, come fondamento della differenza sessuale, assume una forma teorica particolare -filosofica, metafisica, fideistica- nelle posizioni di Luisa Muraro e della Libreria delle donne di Milano. Per la sua esistenza libera la donna avrebbe bisogno di un ordine simbolico che metta al centro la potenza materna, che non spogli la madre delle sue qualità. In altre parole, si tratta di venire a capo di una “usurpazione”. A essere messa in discussione non è la filosofia come tale ma “la filosofia usata male”. Lo stesso vale per il simbolico. L’uso che Muraro dice di farne è “per sottrazione”: “una maniera è di sottrargli il contenuto psicologico”.

La superiorità della madre e la necessità della sua traduzione in autorità simbolica, voglio dire, vanno riconosciute per principio.” (9)

Il riconoscimento della potenza materna avviene così sulla base di quello stesso pensiero -logico, metafisico, rivelato- con cui il maschile si è imposto storicamente differenziandosi dal corpo materno che l’ha generato, ma anche dal proprio, cancellando la vita psichica e svalutando tutto ciò che ha il corpo come parte in causa. L’interezza, l’unità di mente e corpo, non è dunque il frutto di un processo di modificazione di sé, come aveva pensato il primo femminismo, ma una verità logica che si desume dalla figura della madre come quella che dà la vita e la parola. Su questo si basa la sua potenza, il suo primato e la posizione privilegiata della genealogia femminile. La pratica dell’ “affidamento”, destinata a tradurre nella vita adulta l’antica relazione con la madre, e quindi a dare valore positivo alla disparità e alla dipendenza nella relazione tra donne , sarà messa in discussione da un gruppo di appartenenti alla Libreria, in una Lettera aperta , per aver interpretato la differenza sulla base dell’idea corrente di senso e di valore (10). In altre parole: per aver fatto della filosofia un uso diverso, ma solo nei contenuti, da quello che ne ha fatto l’uomo, e perciò ancora una volta interno al dualismo corpo/pensiero. Una sorta di rivalsa nel simbolico.

Nella critica di Maria Luisa Boccia è ancora una volta la modificazione di sé, l’uscita dall’effetto omologante del “genere”, a essere messa al centro dell’agire politico delle donne: “Una donna deve innanzitutto logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la cultura dell’uomo l’ha dotata. All’identità femminile, prodotta dall’uomo , subentra ‘un io non conforme’ alla femminilità ed è da questo movimento della singolarità in relazione che prende forma la soggettività sessuata.” (11)

Oggi, saltati i confini tradizionali tra la casa e polis, assistiamo a una femminilizzazione dello spazio pubblico, intesa non solo come presenza crescente delle donne, ma come valorizzazione del femminile. Che non significa: delle donne reali. Il corpo, la sessualità, la maternità si emancipano in quanto tali, senza alcun ripensamento critico: si sono liberati di alcuni vincoli, ma non hanno perso i segni che la storia vi ha impresso sopra. Se in passato l’emancipazione è stata “fuga dal femminile”, oggi è il femminile a prendersi la sua rivincita. Sono le donne stesse che decidono di impugnare attivamente quelle che sono state le ragioni della loro sottomissione: la seduzione e le doti materne. E’ una valorizzazione della differenza che viene dal mercato, dall’industria dello spettacolo, dalla nuova economia (Valore D) –come “risorsa” e “valore aggiunto”-, ma che le donne stesse, e anche parte del femminismo, sono tentate di considerare una “opportunità”.


Note:

1 Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Milano 1979.

2 Elisabeth Badinter, La femme et la mère. Le conflit, Flammarion, Paris 2010.

3 Lea Melandri, Amore e violenza, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

4 Geneviève Fraisse, La differenza tra i sessi, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p.24.

5 Annarita Buttafuoco, Questioni di cittadinanza, Protagon Editori Toscani, Siena 1997.

6 Maria Luisa Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 135.

7 Catia Papa, Sotto altri cieli. L’oltremare nel movimento femminile italiano, Viella, Roma 2009, p.41.

8 Luce Irigaray, La democrazia comincia da due, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p.150.

9 Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991, p.10.

10 Chiara Martucci, Libreria delle donne. Un laboratorio di pratica politica, Fondazione Badaracco-Franco Angeli, Milano 2008, p.125.

11 Maria Luisa Boccia, op.cit., p.51.

 

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