Quando il racconto è la vita
di Lea Melandri

L’ultimo libro di Alberto Asor Rosa, Assunta e Alessandro (Einaudi 2010), ha un sottotitolo affettuoso e amaro  -“storie di formiche”, e un’apertura solenne su quella “disumana ingiustizia” che la Storia riserva agli umili, la moltitudine muta e cieca di “unità interscambiabili” che fanno la loro comparsa e se ne vanno come se non fossero mai state. Se per tutti, illustri e sconosciuti, la morte è il “tragitto brevissimo tra due assenze”  -come aveva scritto ne L’ultimo paradosso (Einaudi 1985)-, la notte senza fine è ancora più buia per coloro ai quali è stato negato un destino, un senso,  una funzione. Quando a restare fuori dal recinto della storia sono le vite di un padre e di una madre molto amati, c’è un solo modo per impedire che insieme a loro scompaia “un universo di cose fatte, agite, pensate, sentite”, ed è la memoria di chi li ha conosciuti. Nel tentativo di ritrovare l’unicità di ogni essere umano, di modellarne la presenza collocandola là dove si è venuta a trovare realmente –all’incrocio con la storia comune-, la scrittura si fa gioiosa e tragica al medesimo tempo, libera di muoversi tra presente e passato, come raramente accade nelle autobiografie.

La vita e la morte, la felicità del ritrovamento e il dolore di una perdita irreparabile, la meticolosità dello storico e i ricordi di un bambino, si intrecciano fino a coprire nuovamente di segni – “un volto, un sorriso, una voce”- l’orizzonte che si era fatto piatto. L’ “altrove” di quel nulla che è la fine di una vita è la parola che può risvegliarla, farcela rincontrare non in una miracolosa resurrezione, ma ora. Corpo e linguaggio, destino biologico e ricerca di senso, trovano nella “funzione vitale e vivificante della memoria” una temporanea riconciliazione. Quei problemi fondamentali dell’esistenza, che ne L’ultimo paradosso Asor Rosa aveva affidato a “un quaderno di appunti, note, osservazioni”, sembra aver trovato qui, nel silenzio e nel raccoglimento che fanno seguito a un distacco doloroso, il modo di avvicinare la parola al “mondo delle cose che non siamo stati capaci fino a questo punto di dire”. Nella narrazione che va intorno alle figure centrali della propria infanzia, per afferrare ciò che le rende uniche e simili al medesimo tempo agli altri umani, prende corpo la “biologia dei sentimenti e della conoscenza” che Asor Rosa si augurava di poter legare “alle impercettibili e pur decisive variazioni e sfumature del ciclo vitale”.

“E’ una singolare facoltà del pensiero umano potersi pensare al di fuori del vincolo biologico e costruire su questa persuasione persino dei sistemi. Ma quanto più si ritira o s’affonda,tanto più registra e descrive soltanto ciò che esso stesso è: si avvicina, pur senza ovviamente raggiungerla mai, alla individuazione degli elementi che ci compongono, quegli elementi oltre i quali non c’è nulla di ulteriormente scomponibile, e lo sguardo comincia ad affondare nel buio. Diventa cioè un resoconto, anzi un racconto della nostra propria conformazione materiale, racconta la vita, è la vita”.
Il racconto può andare così vicino alla vita da diventare esso stesso la vita, e questo accade quando riusciamo a far apparire in superficie la nostra interiorità, a farla diventare vita, relazione fra esseri umani diversi. L’ “ultimo paradosso”, come lo definisce Asor Rosa, esce dalla vigilanza armata della cultura e della politica fin qui conosciute per percorrere le strade che sono state finora riservate alla poesia, ma che appartengono in realtà alle “storie non registrate” di una moltitudine infinita di singoli, considerati finora soltanto un residuo dei grandi eventi pubblici. Non è un caso che, nella prospettiva di una società “non-cristiana e non-nietzschiana”, le prima figure a farsi avanti siano una madre e un padre, chiamati a rendere più semplice e più sopportabile lo sbalzo traumatico di un bambino fuori dagli “interstizi della storia”: l’infanzia, gli affetti, le relazioni famigliari.
“Essa sarà una società di relazioni fra uomini, in cui l’individualità intima, profonda di ciascuno costituirà il valore di riferimento universale. Far emergere l’intimità dal sociale, il singolo essere dal collettivo, la parola isolata da quella di tutti  -mettere l’individuo avanti a tutto-, quale grande compito per intere generazioni venture!”

La solitudine del singolo, che molti scoprono solo di fronte alla morte, la consapevolezza che la vita ha in se stessa il suo senso, per il semplice fatto di essere vera, l’invecchiamento e la certezza della propria fine che si disegnano su quella di un genitore, percorrono ogni pagina del libro, ora impercettibilmente confuse col racconto della quotidianità di un interno di famiglia, ora restituite alla riflessione, al pensiero che ricorda e dà senso: il suo senso, non quello di altri. “Un battito di ciglia, un frammento di conversazione qualunque, un dolore al costato  -si leggeva nel libro precedente- possono ridurre in un pulviscolo di notizie insignificanti il Magnus Ordo da cui si vorrebbe  che fossimo sovrastati”. Ma sembra che questi sensi, queste percezioni immediate che precedono la retorica dei segni con cui spesso tentiamo di coprirli, escano allo scoperto solo nel momento in cui si sta per perderli definitivamente.

“C’erano una volta segni riconoscibili: un inconfondibile modo di battere le ciglia, una ruga che si muove amichevole, poi più nulla. I segni non ci sono più. Per qualche lungo istante si avverte ancora un rumore sempre più debole che s’allontana e si fa distante: poi il silenzio assoluto, la calma più totale. Andato. Andata. Andati. Nulla più sopra la linea piatta all’orizzonte. Né un volto, né una voce, né un sorriso; né il fatto né la memoria del fatto. Solo il nulla: anzi, il nulla del nulla: quello che non è mai esistito oppure, a parte il breve momento in cui è stato, è come se non fosse mai stato”. A cancellare progressivamente il senso della morte come momento cruciale dell’esistenza è la sua estensione statistica. E’ ancora un frammento del testo dell’85, ad anticipare l’idea che ora può prendere corpo e nomi. “Della morte si può avere una nozione tragica  soltanto se uno riesce a identificare, non simbolicamente ma emotivamente e psicologicamente il proprio destino individuale con quello del morto: se può vivere la morte altrui come fosse la propria.”

Mentre scrive le ultime righe del libro, il 15 luglio 2009, Asor Rosa si rende conto di avere la stessa età che aveva il padre quando è morto.
Può capitare che la storia, anche quella della gente comune che potrebbe essere raccontata, resti inafferrabile per troppo dolore; contro il vuoto che ci si è lasciati alle spalle, a parte il sogno, non c’è memoria che possa risvegliare voci e volti un tempo famigliari. E’ invidiabile allora chi può riaccostare così felicemente la vita che non è più nel momento stesso in cui ha fermo davanti agli occhi la percezione della propria vecchiaia e della propria morte.

 

Alberto Asor Rosa, Assunta e Alessandro
Einaudi, 2010, pag. 136, € 18