Il ritorno alle origini per non tornarci più
di
Ambrogio Cozzi
In un celebre quadro di Magritte, due amanti si baciano, ma nessuno vede
l’altro, entrambi hanno la testa ricoperta da un velo, ignorando chi sia
in effetti il partner. L’amore è cieco come si suol dire, e in effetti i
due personaggi non si vedono. Ma nel bacio, nel contatto delle labbra
provano comunque qualcosa, qualcosa li mette in contatto. Un esterno muove
un interno. Non sappiamo nulla di quel che hanno provato, ma permane un
incontro.
L’inizio ci rimanda all’incontro tra scrittore e lettore, alla sua, per
certi versi, insondabilità, a un esterno della scrittura che muove un
interno alla lettura. Ad un’operazione che permette un incontro tra due
persone velate, la prima che ha messo in scrittura i suoi fantasmi, il suo
reale, la seconda che attraverso quei fantasmi incontra i propri, la
propria trama che tesse i suoi sogni e le sue passioni.
Se a governare la scrittura è la presenza dei propri fantasmi, la stessa
non sarebbe possibile senza una tensione comunicativa che testimoni della
vita, di una narrazione che faccia i conti con la presenza della morte e
ne renda testimonianza. Come in Sherazade, la parola punta ad evitare la
morte, la narrazione coinvolge chi ascolta e permette la salvezza.
Le passioni di Lea. Storia di un incontro
ravennate gode di una singolarità: è il resoconto di un
incontro tra una scrittrice e le sue lettrici. Un incontro in cui non si
cerca di fare della parola della scrittrice il luogo depositario dell’auctoritas
della interpretazione vera, ma si opera un gioco di rilancio, in cui dalla
lettura si è passate alla scrittura, ponendo come oggetto della stessa i
rimandi che la lettura ha suscitato. Ma l’operazione non si ferma a questo
stadio, anche l’autrice entra in gioco, cercando di rispondere a queste
sollecitazioni, legando l’incontro al ritorno della memoria di quei luoghi
che ha abitato nell’infanzia.
Qui però il ritorno non è venato di nostalgia del tempo che fu, l’elemento
autobiografico non diviene consolatorio, e neppure rivendicazione e
racconto di un percorso trionfalistico. Il distacco e le sue ragioni
vengono ribadite, quasi chiose al testo di una vita. Le esperienze non
sono solo registrazioni della memoria, ma in un sottile gioco rimandano a
quel che è stato dimenticato e riappare tra le righe come l’elemento di
fatica che vede nella vita contadina dei genitori e si replica nelle
lunghe pedalate per raggiungere la scuola. Una fatica che potrebbe
inscriversi e trovare senso nei luoghi natii, ma che sente come
soffocanti, stretti. L’incontro con le altre donne che hanno contribuito
al testo non si configura come un ritorno, ma come un riconoscerle
all’interno del nuovo percorso. Il distacco non viene colmato in una sorta
di happy end, ma viene ribadito come occasione che rende possibile
l’incontro, la memoria non pacifica, ma nel rapporto che l’oblio
stabilisce con essa ne rintraccia i confini per cogliere nei ritorni una
separazione da quel mondo, ma anche le ragioni di quel distacco per
potersi incontrare oggi.
Forse sta proprio in questa duplicità, in questa contrapposizione una
radice possibile del sogno d’amore e della scrittura d’esperienza, i due
temi portanti del lavoro di Melandri e del testo collettivo pubblicato di
recente. Se il sogno d’amore è la tendenza a far uno, a superare la
separazione in una linea nostalgica di ritorno all’indistinto, alla
fusione, a quella preistoria che segna il nostro ingresso nella vita, la
scrittura è la ricerca di un’uscita possibile, una messa in scena dei
fantasmi, una ricerca delle parole per dire il reale che sostiene la
nostra esistenza.
Non si cada nell’errore di far coincidere l’esperienza con la scrittura,
esperienza ha qui un duplice senso: tentativo di far entrare nella teoria
ciò che ne è sempre stato espulso, perché percepito come basso, non degno
di parole, ma anche lavoro di scavo, di ricerca su aspetti che si
manifestano in forme mascherate, ad ognuno in modi differenti, ma che
interrogano la presenza al mondo in chi li sa ascoltare.
Se qualcuno può intravedervi il pericolo di uno smarrimento, di una
omogeneizzazione in una storia pubblica e comune, citiamo dalla prefazione
del 1997 a L’infamia originaria quella
che ci sembra ancora oggi la risposta più consona: «Ma se è calata sul
primo femminismo una dimenticanza così tenace - spiega qui Melandri - è
perché la scrittura e la memoria del singolo ….. hanno incontrato da
subito le spinte opposte di una generalizzazione che subordinava a criteri
di universalità e appartenenza la materia concreta di cui è fatta ogni
vita».
Questo rispetto per ogni vita, porta ad una dimensione di ascolto i cui
echi si ritrovano negli interventi di donne che hanno lavorato sui suoi
testi nel corso di alcuni anni. Il rimando alle rubriche di posta su un
settimanale, piuttosto che alla pittura di Frida Khalo, oppure le
riflessioni sulle divisioni nel movimento femminista piuttosto che quelle
sul sogno d’amore costituiscono una esperienza di scrittura in cui la
stessa intellettuale è coinvolta. Testimoniano di un percorso che
creativamente si stacca dalla nostalgia e dai suoi richiami, generando un
ritorno vitale che sfugge a facili illusioni pacificatorie. Di questo
ritorno vitale sottolineiamo due aspetti: quello del corpo e quello della
violenza.
Sul primo Lea Melandri ha scritto molto, ma in un breve scritto che qui
compare compie un salto, all’interno della possibilità della ripetizione
come ripresa. Sono i pochi passi dedicati alla sua infanzia e adolescenza.
Poche righe, ma che calano il corpo in un contesto che lo significa e lo
segna all’interno dei rapporti interpersonali e familiari, dove il corpo
non coincide con il biologico, ma recupera una geografia dai gesti che
leggiamo negli altri, nella fatica e nei momenti in cui la natura ci viene
incontro, nelle urla e nei silenzi dei rapporti familiari, nelle attese
cui possiamo e a volte non vogliamo sottrarci. Questo è il corpo che esce
dal sogno d’amore, segnato dal lutto di un’impossibilità del ritorno,
ritorno che lo consegnerebbe alla consolazione, ad una ripetizione
mortifera che lo fisserebbe nel tempo. Eppure dimensione sempre presente,
rischio ancora attuale: fermare il tempo illudendosi di fermare la morte.
Una vita consegnata all’aspetto biologico e ridotta ad esso, cui nel
distacco Melandri oppone una vita che cerca le proprie ragioni
nell’interrogare la ripetizione, nel cogliere all’interno di essa le
possibilità di una distanza che per quanto dolorosa segna la vita in modo
unico per ciascuno, cercando di evitare il canto delle sirene che ci
inducono al Nirvana. Questo è il lavoro che non permette le
generalizzazioni, anzi le ripudia perché nelle generalizzazioni si crede
che la strada sia già tracciata, senza fare i conti con quel che resiste,
che fa opposizione perché non ha cittadinanza.
Proprio da questa esclusione può partire il discorso sulla violenza, come
forma di ripetizione esterna di un occultamento interno. «La violenza
invisibile che portiamo impressa nostro malgrado nella coscienza del
corpo, nel modo di sentire e di pensare noi stesse e il mondo, non può
essere paragonata a quella che viene da fuori, ma vederla e analizzarla è
importante proprio per capire come sia stato e sia tuttora possibile
sopportare l’altra, anzi talvolta non riconoscerla nemmeno come violenza».
Un invito importante, che rimanda al lavoro soggettivo come scelta non
eludibile, che ci invita ad evitare facili accorpamenti o generalizzazioni
non in nome dell’ideologia, ma della pratica quotidiana, del lavoro di
rappresentazione della violenza interna come incontro con la morte della
vita possibile, nostra e di altri.
Qui la dimensione del sogno originario mostra una duplice sfaccettatura,
per non perdere quel che di positivo esiste attraverso il sogno originario
occorre un lavoro di separazione, di distacco. Ed è qui forse che le
parole si fermano, pur non cessando di tentare di dirne qualcosa.
Piera Nobili,
Maria Paola Patuelli, Serena Simoni (a cura di)
Le passioni di Lea. Storia di un incontro ravennate
pp. 148, euro
12,00
Longo Editore,
Ravenna 2006
per richiedere
il libro: longo-ra@linknet.it
questo articolo è apparso su
Liberazione del 28 aprile 2006
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