Molto più di un divorzio

di Lea Melandri


Jessie Boswell

La ricorrenza del 12 maggio  -data della vittoria riportata nel 1974 dai ‘no’ nel referendum abrogativo della Legge Fortuna-Baslin sul divorzio- sarebbe sicuramente passata nel generale silenzio, se quello che è ormai un diritto acquisito non fosse balzato al centro della vita pubblica con protagonisti ben più noti e implicazioni politiche più ampie di trentacinque anni fa.

Nonostante venga annoverato tra le grandi conquiste civili del movimento delle donne, insieme alla legalizzazione dell’aborto e alla riforma del diritto di famiglia, il divorzio è stato una vittoria del partiti laici. La partecipazione alle manifestazioni del 1974 ha fatto evidentemente dimenticare che i gruppi femministi, nati negli stessi anni in cui si cominciò a discutere della proposta di legge, si erano mossi su un terreno analogo, l’amore, la famiglia, la vita privata, ma con una specificità inconfondibilmente ‘rivoluzionaria’.
Non era solo l’indissolubilità del matrimonio, voluta dalla Chiesa, a essere messa in discussione, ma l’ordine patriarcale che da secoli aveva assegnato all’uomo e alla donna ruoli, funzioni lavorative e valori morali disposti secondo gerarchie di potere date come ‘naturali’.
Alla famiglia e al matrimonio si imputava la responsabilità maggiore dell’adattamento precoce ai modelli esistenti, la trasformazione della donna in oggetto sessuale e corpo riproduttivo, lo sfruttamento della cura e del lavoro domestico come funzione essenziale al sistema dell’accumulo di capitale.

Inaspettatamente, il dibattito che si è sviluppato intorno all’uscita pubblica di Veronica Lario nei riguardi di Berlusconi  -la critica durissima all’uomo di Stato sui modi ‘imperiali’ di esercitare il potere, e successivamente l’annuncio al marito di voler “chiudere il sipario sulla sua vita coniugale”- ha rivelato echi, riprese, sviluppi interessanti proprio delle tematiche che hanno appassionato il femminismo degli anni ’70, come se, allontanate con fastidio dalla storia politica, tornassero ancora una volta ad affacciarsi dalla porta di casa.
Il fatto che non si trattasse di una porta qualunque, e che a varcarla fosse una moglie e madre insolitamente attenta al governo della res publica, ha dato ali alle tante voci che si sono alzate per approvare o contraddire, impedendo la facile caduta nel pettegolezzo. Lo slogan “il personale è politico” è rimbalzato su bocche insospettabili di simpatie per il femminismo; dell’abuso che il potere maschile ha sempre fatto dei corpi delle donne e dei giovani si è dovuto parlare con riferimento alle connivenze evidenti fra industria dello spettacolo e formazione della classe politica.

Ma, soprattutto, nessuno ha potuto sottrarsi agli interrogativi che pone il venir meno dei confini tra sfera privata e sfera pubblica, ed è proprio su questo spazio nuovo, fatto di amalgami difficili da districare, ma anche di nessi esistenti da sempre che chiedono di essere ripensati, che si sono avvertite le maggiori difficoltà.
C’è chi, come Barbara Spinelli, ha riproposto la contrapposizione tra la casa e la pòlis nei termini classici: “Si vorrebbe dal politico la fuoriuscita dall’abitazione privata, il suo spostarsi nell’agorà dove il privato non entra ma viene pudicamente lasciato in anticamera come il cappotto che attacchi al gancio quando ti metti al lavoro” (La Stampa  6.5.09).
Altri si sono mostrati più attenti alla lucida analisi di una donna che ha avuto modo di conoscere la debolezza del potere maschile, tanto maggiore quanto più forte la spinta a celarla dietro un Io illimitato e onnipotente. Sullo sfondo, accennato da isolate voci del femminismo e da un appassionata lettera-articolo a Berlusconi, “da uomo a uomo”, di Adriano Sofri (Repubblica  1.5.09), è affiorata la consapevolezza di quanto il rapporto uomo-donna, la sessualità, appartengano al contesto delle relazioni economiche e politiche, non meno che ai risvolti più intimi, e destinati a restare tali, della vita di ogni individuo.
Berlusconi è effettivamente “il più grande privatizzatore della politica in Occidente”, fedele all’immagine di sé già perfettamente delineata nel numero speciale, Una storia italiana, inviato a milioni di famiglie alla vigilia delle elezioni del 2001: l’attività politica che si modella sul suo stile personale, sintesi di tutte le sue anime, di padre, imprenditore, uomo di spettacolo, sportivo, l’Io che si dilata in un ‘Noi’ capace di tenere insieme  un intero popolo, un corpo che si espone, volgare e sublime, in modo che tutti vi si possano riconoscere. Il ‘re nudo’ può perfino essere più amato, perché più famigliare, dalla massa anonima dei sudditi.

Più difficile da contenere nel quadro di questa “vita perfetta” è lo svelamento, che poteva venire solo da uno sguardo femminile avveduto, di una costante del rapporto tra i sessi: la trasformazione della sessualità femminile in sessualità di servizio, lo scambio, obbligato o offerto, di sessualità con denaro, successo, contropartite di vario genere.
La qualità nuova delle parole di Veronica Lario sta nell’aver individuato il punto di intersezione tra pratica di alcova e funzionamento della grande macchina statuale. Se ancora si fa finta che la cultura femminista sia morta o silenziosa, non sarà altrettanto facile liberarsi di una spina conficcata così lucidamente nella patologia del potere.

 

17-05-2009

questo articolo è apparso su "L'altro" cartaceo

 

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