Un socialismo da caserma, una psicanalisi impotente
L’altra sinistra di Elvio Fachinelli

di Lea Melandri


Elvio Fachinelli

Dal 1966 al 1968, Elvio Fachinelli, insieme ad un gruppo di intellettuali che si sentivano “all’opposizione sia dell’ufficialità del sistema borghese, sia del Partito comunista”, aveva dato vita alla rivista “Il Corpo”. Uno dei suoi primi articoli, dedicato allo scritto di Wilhelm Reich, Materialismo dialettico e psicanalisi, terminava con queste parole:
“Il rifiuto operato nei confronti di Reich e di posizioni analoghe alle sue comportò la scissione radicale (e finora non risolta, né teoricamente né praticamente) tra intervento sull’individuo e intervento sul collettivo, cioè la costituzione di due campi separati di fatto, se non di diritto. La psicanalisi continuò inarrestabile a espandersi come conoscenza a posteriori di individui sofferenti, staccata da ogni possibilità di intervento sulla genesi concreta di queste sofferenze. Il movimento rivoluzionario diventava a sua volta, nel giro di pochi anni, protagonista di una rimozione individuale che gli faceva perdere il senso stesso del suo essere rivoluzionario. Per molte e complicate ragioni, a un socialismo da caserma, attivo e cieco, veniva a corrispondere una psicanalisi privilegiata e impotente”.

Oggi, a vent’anni dalla sua morte, e lontani dall’esplosione antiautoritaria del ‘68, che indusse la redazione della rivista, più che alla chiusura, a uno “spostamento di campo”, una constatazione analoga potremmo farla per il suo pensiero, radicale “nel senso marxiano di prendere l’uomo alla radice”, ma rimasto estraneo a una sinistra incapace di dare ascolto a logiche e ritmi della politica che non siano quelle dell’oggettività dei bisogni.

Commentando, nel 1976, in occasione della ristampa del “Corpo”, la fine di quella esperienza, Fachinelli collega il disagio che aveva provato fin dai primi numeri al fatto di aver visto comparire anche lì “la necrofilia della cultura italiana”. “Mi era sembrato che ‘Il Corpo’ si fosse andato smaterializzando (…) Può darsi che il marxismo ‘classico’, tranne Lukàcs, ignorasse il ’68. Ma questo è il marxismo della cattedra: nel marxismo vivente, invece, il ’68 aveva avuto dei precedenti. Se noi siamo stati sorpresi da questo fenomeno, è perché in effetti il marxismo era diventato una specie di cattedra armata o di burocrazia del castello, se no non avremmo fatto fatica a riconoscere quel movimento per un processo rivoluzionario in atto.”
Una sorpresa illuminante era stato, per Fachinelli, già nel 1967, il libro di Don Milani, Lettera a una professoressa: la scuola che non boccia, l’utopia dell’uguaglianza, che confusamente si avvicinava da molti punti dell’orizzonte, “da Berkeley fino a Barbiana”. Durante la manifestazione di Palazzo Campana, all’Università di Torino, a colpirlo è “l’acutezza della contestazione” e la risposta dei professori, che “sembravano statue di sale”.
Una scuola che non era più il luogo della trasmissione autoritaria di contenuti, ma della ricerca dell’autonomia e della libera espressione dell’individuo, non poteva che essere “affascinante” per uno psicanalista che già guardava con preoccupazione la tendenza della psicanalisi a massificarsi, a entrare come una nebulosa in espansione in tutti gli spazi della società, per tamponare i conflitti, dar ragione dell’esistente.

Psicanalisi e marxismo, individuo e società, biologia e storia, inconscio e coscienza, sono i poli intorno ai quali Fachinelli viene costruendo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, la sua figura unica, nel panorama della sinistra italiana, di pensatore capace di tenere insieme campi di esperienza e di sapere tradizionalmente separati, legati da “nessi” che ci sono e che hanno solo bisogno di essere esplorati.
Sono queste connessioni profonde che lo portano a trovare vicinanze, analogie insospettate tra Freud e Marx, due “conquistatori” di zone di frontiera, paesaggi che la ragione e la cultura tradizionale hanno tenuto a lungo nell’ombra.

“Freud vede emergere lentamente, al di là della barriera della coscienza, l’essere mutilato, conculcato, che siamo costretti a chiamare corpo, con i suoi bisogni, i suoi desideri. A questo viluppo di rapporti egli diede il nome di sessualità (…) affinità profonda con la critica della coscienza borghese elaborata da Marx, una cinquantina di anni prima, sulla base del disvelamento di un altro rimosso, l’inconscio socioeconomico.”

Due teorie fondamentali per portare la politica “alle radici dell’umano”, per effetto della vulgata che ne è stata fatta, sono diventate costruzioni ideologiche, destinate a innalzare nuovi muri tra la politica e la vita, proprio nel momento in cui si andavano intensificando i rapporti tra individuale e collettivo, all’interno delle strutture materiali di una società di massa.

“L’enunciato freudiano, o marxiano, costituisce una teoria nel momento in cui scopre e produce, si può dire, ciò che manca al discorso della propria epoca (la determinazione pulsionale, i rapporti di produzione) e rapidamente decade ad ideologia, nel momento in cui ritiene di potere e dovere colmare ciò che si sta scavando nella nuova esperienza.”

Alla vulgata marxista, Fachinelli rimprovera di aver cercato la verità degli individui fuori dagli individui stessi, nell’insieme dei rapporti sociali “oggettivi”, cioè l’idea che, tutto sommato, gli individui avrebbero seguito il cammino della Storia. E’ questa la ragione per cui la sinistra marxista aveva stentato a cogliere la novità del ’68: quella “logica del desiderio”, su cui si era mossa la dissidenza giovanile, che cambiava il rapporto col “reale” e il “possibile”, la tensione utopica con cui si era inteso prefigurare nel “qui” e “ora” quello che Franco Fortini chiamava un “benefico sovrappiù”, che si da solo a rivoluzione compiuta, cioè la gioia, il cambiamento della vita.
Il ’68 aveva portato in primo piano masse che chiedevano la rivoluzione e contemporaneamente non erano ancora entrate nel sistema della produzione sociale, non inquadrabili, perciò, in termini di classe.

Alla psicanalisi, d’altro canto, Fachinelli riconosceva di aver elaborato uno specifico campo di osservazione di alcuni aspetti essenziali dell’individuo, ma di trovarsi “disarmata” di fronte a processi sempre più totalitari di intervento diretto sulle condizioni di formazione degli individui. Ciò che viene sentito come disturbante, “sia dai rappresentanti della psicanalisi istituita, sia da marxisti più o meno ortodossi”, è proprio l’aver tentato di uscire dalla “rovinosa dialettica” che ha separato biologia e storia, famiglia e società, aver visto dietro la società dei consumi l’emergere di un fantasma di madre “saziante e insieme divorante”, che offre cibo, liberazione dal bisogno, in cambio di una dipendenza incondizionata e perdita dell’identità personale.

La “logica del desiderio” è la prospettiva nuova, originale, da cui Fachinelli osserva il ’68, un’esperienza “breve, intensa, esclusiva”, transitoria come una improvvisa folata, ma “inevitabile e imprevedibile”, proprio come il desiderio che torna ogni volta a sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni. La rottura, rispetto alle posizioni della sinistra marxista, era evidente:
“Basta pensare a quante volte si tende a rifiutare ‘teoricamente’ da sinistra un movimento nuovo, perché non vi si riscontra l’immediata urgenza dei bisogni; o quante volte ve lo immette a forza, per poter assimilare la nuova forma di rivoluzione a vecchi schemi. Come se la spinta del desiderio fosse meno ‘materialistica’, o addirittura un’astuta invenzione dell’avversario.”

Nella percezione acuta delle esigenze radicali del presente, del “possibile attualmente impossibile”, Fachinelli riconosce la predilezione che ebbe, per l’utopismo di Walter Benjamin, una generazione che si era trovata davanti istituzioni in deperimento, ma che perduravano su tutto l’orizzonte. Di contro a questa realtà immobile, il ’68 si presentò come il tentativo di incarnarsi in nuove istituzioni d’amore.

Nel 1987, tra gli articoli giornalistici che Fachinelli continuò a scrivere per un trentennio, fino alla sua morte nel 1989, il ’68 inaspettatamente ricompare, e i tratti con cui lo descrive – la logica del desiderio e della libertà- sono gli stessi  per cui negli anni ’70 era stato attaccato dalla sinistra tradizionale, e presto dimenticato dal settarismo delle formazioni marxiste-leniniste, i gruppi extraparlamentari. 

“Gli anni ’70 si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia, vista come luogo chiuso, coatto, defecatorio. Ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria, che vanno avanti un po’, poi si dissolvono, spariscono, per ricomparire eventualmente un po’ più in là  -è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la pratica di nuove armonie e disarmonie amorose. Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non c’è fallimento né scacco, né può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà (chi ha mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine vi siete dissolti in ciò che è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando”. (Che bella “rivoluzione”: oggi siamo tutti soli, “L’Espresso”, 12.4.87)

 

articolo apparso su Gli altri del 23 dicembre 2009

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