Chi ha paura di face book?

Lea Melandri

 

 

Non si può liquidare come trionfo del narcisismo un fenomeno che sta abbattendo tante barriere –pudore, riservatezza, vergogna, banalità, insignificanza, ecc.-, che muove un arco imprevedibile di sentimenti, pensieri, fantasie, desideri, sogni, che gioca sulla dipendenza e la seduzione, sul bisogno di affetto e di condivisione.

 

Il selfie, venuto per ultimo nella sfida al “privato più privato”, forse può offrire una chiave interpretativa meno scontata e liquidatoria. Se lo specchio e l’autoritratto -nell’arte, nella fotografia- rimandano un’immagine fissa, costruita del sé, lo scatto rapido e mobilissimo di uno smartphone si affida alla sorpresa, all’immagine rubata a un “sottosuolo” emotivo, imprevedibile. E’ il tratto che, pur nell’incomparabile diversità, avvicina il selfie alla pratica dell’autocoscienza.

 

Siamo senza dubbio lontano dal piccolo gruppo, fatto di presenza reali, parole legate a un corpo, a un viso e ai mutevoli stati d’animo che vi passano sopra. Chi è invitato a consegnare i suoi pensieri a una pagina solitaria e al medesimo tempo visitata da molteplici possibili sguardi, si muove come un funambolo tra sponde opposte, ma oggi inseparabili: da una parte, l’amore di sé che cerca, come agli inizi della vita, conferme esistenziali e affettive, dall’altra una società che sembra aver perso lo spazio intermediario della famiglia, per cui potrebbe riprodurla, ma anche volerne sperimentare l’assenza.

Una corda tesa tra sé e sé, tra sé e mondo, una sospensione del già noto che non rinuncia tuttavia a mettere in campo, con una libertà finora sconosciuta, quello che c’è di più quotidiano, intimo e particolare in ogni singola vita. Se, come dicono le statistiche, sono soprattutto le donne che fanno uso dei social network, bisogna ammettere che un grande passo avanti è stato fatto da quando una pagina di diario finiva in un cassetto, preziosa e, contemporaneamente, destinata a perdersi come i sogni.




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