Stupro di gruppo alla Fortezza di Firenze

di Lea Melandri

 

Stupri, omicidi, violenze sui corpi delle donne sono diventati ormai da tempo cronaca quotidiana, cambia solo il rilievo che prendono sulle pagine di un giornale e nei notiziari televisivi. L’aggressore, nella stragrande maggioranza dei casi, non è lo sconosciuto, lo straniero, il cacciatore di femmine che attende la preda all’angolo di una strada buia o dietro un portone, come ci dice una iconografia ormai consunta ma ancora radicata nell’immaginario comune, bensì una di quelle figure che la prossimità di un legame di parentela, amore, amicizia, rendono insospettabile: marito, figlio, fidanzato, amante, amico. Il “perturbante”, tutto ciò che nella felice intuizione di Freud, cova nascostamente, ignorato, rimosso, nei gesti, linguaggi, comportamenti che ci sono noti, familiari, una volta uscito allo scoperto non sembra inquietare più nessuno.

Non è più una sorpresa né un mistero la verità che la storia ha celato per secoli, mascherandola dietro l’ordine inamovibile di leggi naturali o divine: il dominio di un sesso sull’altro, l’annodamento di amore e violenza nel rapporto tra uomo e donna, il privilegio che il maschio della specie umana ha riservato a sé, come protagonista unico della vita pubblica, depositario di un potere di vita e di morte che il processo di incivilimento non ha mai cancellato del tutto. I rapporti internazionali, le inchieste, le denunce delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, indicano come luogo primo della violenza contro le donne la famiglia, e, immediatamente dopo, le relazioni amorose e amicali. La minaccia non viene da lontano, ma dalla stessa mano che poco prima ti aveva accarezzato, soccorso, accudito. E’ sempre stato così? La novità sta solo nel fatto che oggi sappiamo, o c’è qualcosa che attiene al nostro tempo, ai cambiamenti sociali, culturali, antropologici, che lo fanno apparire così vistosamente diverso dal passato, una sorta di ‘post-umano’ dominato dalla tecnica, dall’imperativo economico, dal cinismo etico?

Commentando la “notte di violenza alla Fortezza”, lo stupro di gruppo subito da una studentessa nella notte tra venerdi e sabato scorso, da parte di amici, conosciuti all’Università, Antonella Mollica scriveva: “dobbiamo fare i conti con le tecnologie, con l’assenza di codici, con l’ambiguità nella quale ci sprofondano, quasi camminassimo ormai in uno stretto confine tra realtà e finzione tutti i giorni, senza riconoscere in quale parte si è”.
I “giovani cineasti, rampolli di satana e bevitori di tequila bum bum”, come si definiscono nel loro sito, e come si sono presentati nella squallida ‘messa in atto’ di venerdi notte, sembrano effettivamente confermare che il confine tra “scena” e “vita reale” è saltato, che oggi  sono i “residui notturni” a invadere lo spazio della coscienza, a muoversi spavaldamente nelle strade della città, a prendersi la rivincita di un lungo esilio. Ma la giusta attenzione al quadro contemporaneo rischia ancora una volta di lasciare in ombra quanto di arcaico la modernità si è portata dietro a sua insaputa, quanta storia non scritta è rimasta sepolta nelle vite dei singoli, eredità collettiva, senso comune, ignorati come tali.

Il rapporto di potere tra i sessi, il dominio più antico e più contraddittorio, perché confuso con l’amore, con la tenerezza che lega ogni figlio al corpo da cui è nato, si è fatto strada a fatica nella consapevolezza che uomini e donne hanno di sé, ha dato voce a movimenti, culture, leggi, pratiche politiche, modificando istituzioni, linguaggi e saperi, ma molto lentamente si libera dei fantasmi che lo accompagnano da sempre e che ne hanno fatto finora una “evidenza invisibile”.

Il “gioco erotico”, così come la tenerezza amorosa, hanno sempre avuto in sé la tentazione dell’eccesso, dell’estremo, sia pure in forme diverse e all’apparenza contrastanti: la sessualità nelle sue manifestazioni sadiche e masochiste, l’amore come sogno di fusione  con l’altro, l’abbraccio troppo stretto che induce ogni volta a strappi violenti. In modo diverso, l’eccesso che si nasconde dietro “tranquilli” legami familiari, amorosi e amicali, parla del sentimento ambiguo con cui l’uomo ha guardato al corpo femminile che gli ha dato la vita, le prime cure, i primi stimoli sessuali, il desiderio e la paura di tornare a confondersi con esso, la spinta a differenziarsi dietro una maschera di virilità forte violenta, il bisogno di erigere barriere di ‘civiltà’ contro lo ‘straniero’ più prossimo, il ‘diverso’ più simile, il debole più potente, che ha incontrato nel suo ingresso nel mondo.

Non dovrebbe meravigliare perciò il capovolgimento che sempre avviene nei casi di stupro e di altre violenze tra la vittima e l’aggressore, e che riporta ogni volta allo scoperto il fantasma della donna seduttrice, provocatrice, sessualmente avida  -“era lei a voler fare sesso”, “non diceva mai basta”, dicono gli stupratori nella loro deposizione.
Parlare di “consenso” per una donna stordita dall’alcool e costretta ad accoppiarsi con sette uomini dentro un’auto, non è solo una ipocrita, vergognosa menzogna, ma la spavalderia, più o meno consapevole di chi sa di poter contare su un ‘senso comune’ ancora diffuso, sul risentimento di un sesso che ha visto, suo malgrado, venir meno una ‘proprietà’ che considerava ‘naturale’, inalienabile.

Di questa, come di altre vicende simili, veniamo informati con scarne, ripetitive formule, che sottolineano sorpresa, inspiegabilità: le famiglie “tranquille”, rispettabili, da cui provengono gli stupratori, l’eguaglianza di condizione sociale, culturale della vittima e dei suoi aggressori, gli stessi studi, gli stessi interessi, i progetti condivisi, la reciprocità nei rapporti di amore e amicizia.
Nessuno sembra dare peso alla disimmettria  profonda, eredità di millenni di dominio maschile, che oggi appare tragicamente attuale solo perché le donne hanno cominciato a riconoscersi libertà, diritti, piaceri, autonomia di pensieri e di azioni imprevisti, capaci, come tali, di scardinare certezze ideologiche ed emotive, ma, soprattutto, di svelare la sostanziale dipendenza maschile dal corpo che credevano di avere sottomesso, reso docile ai loro desideri, innocuo rispetto alle loro paure.

Dietro la libertà di movimento, di scelta, di parola, che le donne oggi agiscono sia nella sfera privata che pubblica, ricompare l’immaginario antico dell’onnipotenza femminile mai domata, la confusione inquietante tra potere generativo e provocazione sessuale. Districarle, svelare gli annodamenti che ancora imparentano l’amore con la violenza e la morte, è compito della cultura, della scuola, di una politica capace di interrogare la vita nella sua interezza, la società ma anche la persona, i suoi vissuti più profondi.
La giustizia farà i suoi distinguo, accerterà, documenterà passaggi essenziali per il riconoscimento della colpevolezza, ma sappiamo che non sarà la durezza della pena a modificare la ‘barbarie’ che ha segnato così durevolmente la relazione tra i sessi.
Quanto sia ancora lontano, nel caso specifico della violenza sessista, il processo di incivilimento, lo dimostra il commento del sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, che riduce uno stupro di gruppo  a una questione di “controllo sull’uso e abuso degli alcolici”.

 

questo articolo è stato pubblicato dal Corriere fiorentino nell'agosto 2008

24-01-2022

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