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Lea Melandri, Dialogo tra una femminista e un misogino Manuela Fraire
«L’aver reciso il pensiero dal corpo che lo ha generato, aver dimenticato la sua origine carnale, ha reso la cultura luogo di dominio». In queste parole, tratte da L’infamia originaria (1977), possiamo riconoscere il cuore della battaglia che attraversa tutta l’opera di Lea Melandri : la lotta contro la misoginia che nasce dal terrore del corpo, dal bisogno di purificare la mente dal suo peso. La sua scrittura nasce dal movimento inverso: riconduce la ragione al corpo che la sostiene, la parola alla carne che la pronuncia. Nel Dialogo tra una femminista e un misogino (BollatiBoringhieri, pp. 96, euro 12), Lea Melandri sceglie come interlocutore Otto Weininger autore di Sesso e carattere (1903), libro che alla sua uscita ebbe ampia risonanza tra grandi pensatori tra cui lo stesso Freud. Nel testo l’autore riduce il corpo femminile a macchina di riproduzione, materia inconsapevole, priva di forma: «La donna è solo sesso, materia senza forma, una mera possibilità a cui solo l’uomo può dare compimento». Nasce come tesi di laurea, infatti il linguaggio è tipico della dissertazione accademica e sostiene la tesi secondo cui è umano nel senso pieno del termine solo l’uomo, il suo Io cioè, mentre non riconosce alla donna altro possibile sviluppo, addirittura altro Io possibile, che l’imitazione dell’Io maschile.
SE IL DISCORSO di Weininger suona come superato, è all’orecchio dei più informati che non lo si può considerare solo come il manifesto di una misoginia che ha fatto il suo tempo. Le affermazioni che appaiono superate anzi paradossali hanno un «profumo» che ancora oggi è possibile annusare nel linguaggio comune, fin nelle opere di pensatori insospettabili. La misoginia, infatti, non è scomparsa: ha solo cambiato scena e casacca. Sopravvive come paura del corpo femminile non più muto, non più solo materia che l’uomo può plasmare secondo il proprio bisogno — prima ancora che secondo il proprio desiderio. È la paura di un corpo attraversato da un nuovo discorso, quello aperto dal femminismo, che lo ha reso insofferente al vincolo del possesso e allo sguardo che lo definisce. È una paura che si trasforma spesso in odio: l’odio che ancora oggi alimenta la violenza contro le donne che cercano di sottrarsi al dominio e alla definizione dell’uomo. Come in passato, attraverso questo Dialogo Lea Melandri assegna alla scrittura la capacità di incrinare il muro della misoginia. Lo fa sottolineando una volta di più come umano è chi possiede un corpo attraversato dal linguaggio. Non pura materia biologica dunque — come Weininger vorrebbe per la donna — bensì corpo pulsionale che onora peraltro anche la scoperta di Freud, per cui la pulsione, a differenza dell’istinto (compreso quello materno), si colloca al confine tra psiche e soma, tra corpo e linguaggio. Ogni corpo umano è tale perché attraversato dal linguaggio: ogni parola porta con sé la memoria di un corpo, del respiro che la sostiene, del limite che la fonda. La scrittura di Melandri — non solo la sua, bensì quella di altre donne, come Sibilla Aleramo infatti evocata nel Dialogo — si è appostata all’interno dell’ordine simbolico, urtandolo, incrinandolo, terremotandolo.
IN UN TESTO scritto per il suo intervento alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (2018), dal titolo «Il corpo e la parola», riprende materiali tratti da L’infamia originaria (1977) e dai suoi corsi sulla scrittura: E ne La perdita (1991): «Il corpo dimenticato dal pensiero è ciò che torna sotto forma di potere sull’altro». È il corpo che ritorna nella parola, ma anche il pensiero che si lascia sconvolgere dal corpo. Nel 1975, nel saggio Kafka. Per una letteratura minore, Deleuze e Guattari scrivevano «Una letteratura minore non è la letteratura di una lingua minore, ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore». Il tedesco di Praga, quello nel quale è nato e cresciuto Kafka, non è una lingua maggiore, ma una lingua minore per eccellenza: un tedesco straniero a sé stesso, perché l’ebreo praghese non appartiene né al mondo tedesco né a quello ceco. In una scrittura così, ogni parola è già politica, non perché lo voglia, ma perché parla da un luogo che ancora non aveva avuto voce.
LA SCRITTURA diventa allora il corpo attraverso cui quella voce si fa udibile, pur restando sempre altra. Qui si può intravedere, in anticipo, il modo in cui Lea Melandri usa la scrittura: come apertura del linguaggio ad una lingua che non è né quella maggiore dell’universalità patriarcale né quella del lessico familiare. È una linguano madica. È lì che Melandri intesse il suo Dialogo con il misogino: nel punto in cui il pensiero si interrompe, nel punto in cui la pretesa di universalità del linguaggio si incrina. Quando dimentica i corpi che lo alimentano e lo sostengono. Da questa dimenticanza la scrittura, ancora una volta, riporta in scena ciò che la lingua del sapere accademico tende a espellere: la vita stessa che la sostiene. All’epoca della pubblicazione, Sesso e carattere (1903) avrebbe forse suscitato un interesse limitato se, pochi mesi dopo, il suo autore non si fosse tolto la vita. Il suicidio di Weininger trasformò il libro in un caso, richiamando l’attenzione su un testo che univa rigore accademico e delirio morale, e che proprio nella morte dell’autore trovò la sua tragica risonanza riportando brutalmente l’attenzione su quel corpo che il pensiero di Weininger aveva tentato di espellere.
HO LETTO il generoso lavoro che Melandri ha dedicato al pensiero di un misogino come un ritorno radicale dentro la propria ricerca, un modo di rimettere in moto la parola là dove sembrava essersi sedimentata. È un invito alla conversazione, nel senso che Montaigne dava al termine: non disputa né vittoria, ma cammino reciproco delle menti, un intreccio che tiene aperto il luogo del non sapere. Nel dialogo, come nella scrittura, l’autrice non toglie la ragione a Weininger: gliela lascia, per mostrarne il limite, e per far emergere un’altra forma di sapere — quella che passa dal corpo e dalla relazione. La scrittura, allora, non viene prima di tutto: è «il retrobottega» di una conversazione che non ha più la presenza viva dell’altro, ma ne trattiene la traccia, la risonanza, il ritmo.
Articolo apparso su il manifesto del 23-10-2025 Bollati Boringhieri, 2025, pp.83, €12 |