L'orrore antico

Intervista a Lea Melandri sulle torture in Iraq


Artemisia Gentileschi, Giuditta



Forse sarebbe interessante anche capire perché ci hanno colpito tanto le immagini delle torture ai soldati iracheni. Che ruolo ha avuto il fatto che la protagonista fosse una donna?
Sì, effettivamente sarebbe opportuno chiedersi perché, tra tutte le immagini che sono circolate sui giornali, ci hanno colpito in particolare quelle di Lynndie. Intanto non dimentichiamo che c’è un’altra soldatessa coinvolta nelle torture, e che la responsabile del carcere di Abu Ghraib era anch’essa un generale donna. Ma sono proprio le foto di Lynndie che ci hanno colpito. Si potrebbe pensare che evochino una delle paure maschili più arcaiche che emergono dall’inconscio collettivo: l’archetipo della donna castratrice, della donna evirante, Giuditta, Salomé, le donne che hanno tagliato le teste. Questa è certamente una lettura. Poi, in particolare Adriano Sofri ha riflettuto anche sul fatto che in queste foto c’è una donna che aggredisce e umilia nella propria virilità degli uomini musulmani, cioè persone che hanno un particolare pudore e un atteggiamento diverso dagli occidentali rispetto al corpo e alla sessualità. E quindi, in questo caso, l’umiliazione è diretta a distruggere l’altro non solo fisicamente, ma anche moralmente, in ciò a cui tiene di più, nei suoi valori più alti, con la conseguenza che non potranno che inasprirsi i rapporti tra uomini e donne in quella parte del mondo. Adriano sottolineava, anche giustamente, che la donna occidentale emancipata rivela in queste immagini un ulteriore elemento di quell’aggressività che già mostra nei media, nel cinema e nella televisione, attraverso l’esibizione, appunto, di un erotismo e di una sessualità aggressivi. Aggressivi anche per noi, ma molto di più per quella parte del mondo che ancora pensa alla donna in termini di sottomissione e di proprietà maschile.

Io penso però che questo tipo di lettura non sia esaustiva, ma anzi rappresenti un modo per spostare l’attenzione, per non affrontare qualcosa d’altro che appare molto più indicibile, più difficile da nominare, e cioè che qui siamo in presenza di una tortura legata alla sessualità, alla violenza sessuale esercitata su uomini e su donne. Certo, non è un fatto nuovo, anzi forse è sempre stato così, però qui l’atteggiamento, voluto, esibito dagli stessi torturatori, porta questo legame tra guerra, tortura e sessualità in primo piano come non mai.

Altro aspetto che non va sottovalutato è che qui siamo in presenza di un repertorio, di un aspetto della sessualità che riguarda tutti gli umani. Questo non è l’atto di un mostro, ma un modo di agire la sessualità che appartiene all’umano e che ha al centro gli aspetti del razzismo e del sessismo, dove la svalutazione e l’umiliazione dell’altro si realizzano a partire dal suo essere un non uomo: l’altro è visto come un animale. Di qui le immagini usate dal Pentagono, dei serpenti o dei topi, come già all’epoca del Vietnam quella dei pidocchi, a partire da metafore tipo “prosciugare la palude”, “togliere di mezzo i serpenti”, che improntano un modo di sentirsi e atteggiarsi rispetto all’altro.
 

Perché parli di razzismo legato al sessismo?
Perché l’altro è un essere non umano, ma è anche un essere effeminato, e come tale, è ovviamente un pervertito, un omosessuale. E’ qui che emerge l’aspetto sessista, strettamente connesso a quello razzista. La tortura, la guerra -in particolare le guerre coloniali- e in generale tutte le forme di razzismo, contengono in qualche modo un riferimento alla sessualità, a quella scena originaria dove il diverso, l’altro, il nemico è costituito dall’altro sesso, dal corpo femminile.

Allora mi sembra che, per capire queste foto, non sia sufficiente tirare in ballo categorie inerenti esclusivamente al rapporto uomo-donna -il capovolgimento delle parti, l’emancipazione femminile occidentale, la donna soldato omologata al maschio che tortura, stupra e uccide-; qui si rivela una donna che si rifà su un maschile che è già svilito e può essere umiliato perché appartiene a una cultura e ad una etnia considerate inferiori. E’ questo l’elemento che lega razzismo e sessismo; in fondo l’omosessualità e la perversione sono sempre state associate alle razze “inferiori”. E l’umiliazione avviene su un aspetto ben preciso: l’altro è un essere non virile. Infatti uno degli insulti più ricorrenti, durante le torture, almeno così si è letto, era quello di omosessuale; inoltre molti di questi atti di tortura sono legati alla sodomia, reale o simulata: questi cumuli di corpi nudi messi l’uno sull’altro sono immagini che evocano proprio la perversione, l’omosessualità, quindi un essere che ha in sé una natura femminile e che per questo è svilito.

E perché evochi proprio la donna, il femminile?
Perché il primo “non umano”, la prima cosa o la prima bestia su cui il maschile ha esercitato il suo potere è proprio la donna. E’ lei che si costituisce storicamente come l’altro, il nemico, il diverso, su cui esercitare la violenza razzista. Il maschile e la virilità si costruiscono proprio “contro”, a partire, cioè, da ciò che il maschio non è o da cui fugge, vale a dire il femminile.

C’è un interessante articolo di uno studioso americano, Kimmel, che compare in una raccolta di saggi intitolata Tra i generi, curata da Carmen Leccardi, in cui si analizza la maschilità (quella americana in particolare, ma è un’analisi che può essere applicata alla maschilità occidentale tout court) come paura e fuga dal femminile. La nostra è una società che si è costituta da sempre come società di soli uomini, quindi un gruppo omosociale -del quale l’esercito è certamente uno dei luoghi prioritari-, basata sull’elemento dominante dell’omofobia, cioè la paura dello sguardo dell’altro uomo: bisogna dimostrarsi uomini di fronte allo sguardo di altri uomini, non essere mai colti in fallo, fare sì che nessuno veda in te dei tratti femminili.

Quindi il potere legato alla virilità si costituisce essenzialmente a partire dall’allontanamento da sé degli aspetti femminili. La virilità è un potere basato sulla messa al bando, sulla cancellazione dei tratti che l’uomo ha collocato sulla donna, sul corpo femminile; tratti che tuttavia non può non rintracciare continuamente dentro di sé. Quindi il primo potere che si afferma storicamente è quello della liceità totale rispetto al corpo dell’altro, un corpo da svilire, umiliare, violentare. Ma il corpo dell’altro, quello femminile, così pericoloso e minaccioso, è anche quella parte di sé che l’uomo è stato costretto a tenere più a bada. Questo è un tratto che caratterizza tutta la nostra cultura.

Ad esempio, Otto Weininger, che all’inizio del Novecento teorizzò l’ideologia sessista e razzista, in Sesso e Carattere, aveva accomunato la donna e l’ebreo, quali portatori degli aspetti legati alla materia e alla sessualità, sottolineando, in entrambi, la mancanza di personalità, individualità, volontà, senso morale, tutti attributi legati al maschile. Weininger però diceva anche delle verità su cui dovremmo riflettere. Per esempio affermava che l’odio, come l’amore, è un fatto proiettivo, quindi quando umiliamo e violentiamo l’altro, agiamo su qualcosa che abbiamo dentro di noi, ma che non vorremmo vedere.

E’ evidente, allora, che in tutte le guerre coloniali, dove l’altro è connotato come diverso anche fisicamente, per i tratti somatici o per il colore della pelle, viene evocata una diversità radicale, come quella che il maschio ha visto nel corpo femminile all’origine. E si mettono in moto gli stessi meccanismi: quello che si ha di fronte è un corpo da umiliare, perché è comunque un corpo già degradato. E la nudità dei corpi, nelle foto, esprime molto bene questo elemento: cade ogni parvenza di appartenenza a una comunità umana. E’ nuda vita, per riprendere un’efficace immagine di Agamben, cioè riduzione dell’altro a pura corporeità.

Il corpo nudo è un corpo che è stato spogliato e deprivato di ogni segno della sua storia, personale, sociale e collettiva. E questi corpi denudati, umiliati, collegati con la perversione, con l’omosessualità o con la bestia, sono quella parte di sé che per il maschio risulta estremamente temibile, perché mina la virilità, tanto più una virilità in divisa, interamente giocata dentro un rapporto omosociale, ovvero costituito da soli uomini.

Ma nell’esercito ci sono anche le donne…
Certo, e forse è proprio questa novità ad aver reso più debole e fragile questa virilità: da una parte l’ingresso delle donne nell’esercito è stato accettato, dall’altra, sicuramente ha reso più inquieta una virilità che si è sempre confortata del gruppo dei simili. Allora, ancor più, il femminile viene espulso e proiettato sul musulmano.

Tra l’altro, apro una parentesi, qui non siamo in presenza di foto rubate di nascosto, sono immagini scattate con l’intenzione precisa di farle circolare, di mandarle ad amici e familiari: i soldati si sono messi in posa, esibendo allegramente i propri trofei. Non a caso qualcuno ha parlato di pornografia: sembra il set di un filmino pornografico, ci sono le divise, le attrezzature militari; in fondo tutto l’armamentario delle fantasie sadomaso è legato a questa mascheratura di tipo militaresco. Anzi il mio terrore è che il cd che raccoglie tutte queste immagini entri, tramite internet, nel mercato della pornografia.

Ecco, anche questo è un aspetto nuovo e interessante da analizzare, perché qui c’è evidentemente una liceità totale, che emerge dai sorrisi, dall’allegria dei visi. C’è poi il volto di questa ragazza, che mi ha colpito molto; io non riuscivo a staccare gli occhi da questa faccina…

Perché è chiaro, è lei il bullo, il ragazzotto. E’ facile dire: assimilata, omologata, però, poi, c’è quel sorriso, quell’allegria, quel volto femminile assolutamente innocente; sembra una ragazzina durante una scampagnata. E’ evidente quindi uno scollamento tra la drammaticità, la violenza di quello che sta succedendo, e il vissuto soggettivo che si esprime attraverso lo sguardo, e questo deve far pensare: come sono possibili questa schizofrenia, questa deresponsabilizzazione così totali?

C’è un’allegria nei loro visi che ci comunica la sicurezza dell’impunità: questo non è un omicidio, queste non sono torture, questi sono corpi uccidibili senza che l’altro percepisca di stare commettendo un omicidio.

In un bell’articolo apparso sul Manifesto e intitolato L’orrore e l’orgoglio, Sandro Portelli ha parlato dell’“orgoglioso razzismo” con cui l’Occidente combatte le sue guerre per la libertà, ricordandoci che questo modo di esibire l’orrore, quasi con allegria, è rintracciabile in altre guerre che l’Occidente ha combattuto contro un nemico che era altro da sé, una razza “inferiore” da colonizzare o da riportare alla democrazia. Citava ad esempio una mostra che si è tenuta a New York sui linciaggi di fine Ottocento, primi Novecento, e anche lì, di fronte al corpo dell’altro appeso, la gente attorno si metteva in posa e si faceva fotografare sorridente, per poi mandare le foto ai familiari. Poi ci ha ricordato il Vietnam, anche lì le foto ricordo e i resti umani che venivano tenuti nel portafoglio e portati a casa a mo’ di trofeo...

C’è anche chi ha tentato di minimizzare…
Sì, Panebianco, sul Corriere, ha scritto che l’Occidente, è vero, commette degli orrori, però li riconosce e li condanna. Ma a me pare che così facendo, li legittimi anche. Ciò che oggi mi fa più paura è proprio questo tentativo di minimizzare, giustificare e legittimare la tortura. Non a caso oggi stiamo discutendo di leggi che vanno proprio in questa direzione, e non c’è dubbio che questi soldati si comportino così perché hanno alle spalle il consenso e la legittimazione di un’ideologia che viene da un potere che non rispetta più nessun patto, nessuna convenzione internazionale. Quando Bush afferma che questa è la guerra del Bene contro il Male, che l’altro è solo un demone, un verme strisciante che minaccia l’Occidente e che va catturato, vivo o morto -quindi ogni violenza è lecita- la legittimazione è totale.

Parli di sadismo, ma come va interpretato il fatto che sia proprio una donna a torturare, cioè un essere che è stato storicamente vittima di queste pulsioni del maschile?
Veniamo allora alle donne: veramente scopriamo solo adesso che le donne hanno delle pulsioni sadiche? Che non sono questa razza, tra virgolette, superiore, portatrice di valori etici e di una superiore umanità? Veramente ci accorgiamo solo adesso che le donne non sono questa riserva di umanità, di bontà, di pacifismo, come gli uomini -e una parte delle donne e anche del femminismo- hanno voluto credere per anni? Perché parlare del primato femminile, dell’ordine simbolico della madre, dell’orgoglio di nascere donna, significa mettere un segno più.

C’è un’ambivalenza, una contraddizione di fondo: si vuole vedere e collocare nel femminile contemporaneamente il massimo del degrado e l’attesa massima di salvezza. Non a caso, sempre Otto Weininger affermava che la donna, che è solo sessualità e materia, peccato e colpa, è però anche l’angelo su cui l’uomo ha collocato tutte le sue attese di redenzione. E questo elemento, che attraversa tutta la cultura maschile, è entrato in qualche modo anche nel femminismo.

Quindi dire oggi, come leggo sul Manifesto, che stiamo assistendo all’apocalisse del primato femminile, dell’idea del femminile come portatore di chissà quali valori, mi fa un po’ ridere. A questo primato ha creduto, contraddittoriamente, solo una parte del femminismo, e non certamente quello che a partire dagli anni Settanta ha analizzato la sessualità e ha riconosciuto subito, grazie all’autocoscienza e alla pratica dell’inconscio, come, ad esempio, nei rapporti tra donne non ci sono solo pulsioni di tenerezza, ma anche istanze aggressive e violente.

Eppure torna spesso, oggi, questa demagogia che vede le donne “naturalmente” pacifiste, come se potessero costituire un antidoto ontologico contro la guerra…
Sì, il femminile, che storicamente è stato segnato dalla negatività, è stato risignificato in qualche modo in maniera positiva. Ci sono state nel femminismo posizioni essenzialistiche, che hanno visto nella donna, in quanto madre, la fonte da cui viene la vita, la portatrice per natura di valori positivi. E tutto quello che è connesso alla donna è stato visto come un primato: primato della relazione, come prima forma della pratica politica, primato del linguaggio della madre rispetto agli altri linguaggi storici, ecc.

Poi c’è l’altro equivoco, ovvero che le donne sarebbero portatrici di pace. In realtà, le pulsioni sadiche e violente non sono certamente loro estranee. Come tutti coloro che si sono trovati in una posizione di emarginazione, di umiliazione, di mortificazione, di esclusione dal potere, anche le donne si sono rifatte su altri.

In questa vicenda è evidente: ci sono dei soldati che vengono dalla provincia americana -una situazione dove l’umiliazione e l’emarginazione sono molto forti- che si rifanno su altri considerati inferiori, non umani. E c’è una donna che, a sua volta, si rifà su un maschio, che però è un maschio che non appartiene al suo gruppo, è un maschio degradato, effeminato. Quindi alla fine, si rifà su un’altra donna.

Inoltre sappiamo bene che l’aggressività delle donne si è sempre sfogata sui bambini, perché il sadismo e la violenza non sono legati solo al rapporto maschio-femmina, ma anche a quello tra il grande e il piccolo, tra l’adulto e il bambino. L’amore e l’odio cominciano a prendere forma in quella fase della vita in cui tu sei piccolo e inerme, in mano a qualcun altro.

Anche questa ragazza, del resto, era di umili origini…
Sì, tutti questi ragazzi ormai si arruolano e vanno in guerra per avere i soldi per studiare oppure per viaggiare e vedere il mondo. Siamo ormai di fronte, per così dire, alla privatizzazione della guerra, ad un esercito composto da ragazzi in cerca di occupazione o di una variazione rispetto alla loro vita abituale.

Comunque leggevo che nel paese di Lynndie c’è la sua foto esposta nella vetrina del supermarket locale. Io non credo che questa ragazza immaginasse, mentre compiva quelle violenze, che questo potesse accadere. Ho il dubbio che a lei non sia neanche passato per la mente che quella non era certo un’immagine che la potesse rendere un’eroina o che mostrasse il suo amor di patria. Ha una faccia troppo innocente e troppo soddisfatta. Ma è chiaro: quando dai superiori ti arriva l’ordine di “ammorbidire”… Cioè, appunto, rendere morbido, femminile. Quindi tutto, in questa guerra, nell’ideologia che ci sta dietro, nelle metafore che l’hanno accompagnata, concorre a dare via libera alle proprie pulsioni.

Quindi a me pare che isolare, in questa vicenda, solo la problematica della donna emancipata occidentale che si vendica del maschio stupratore assumendo a sua volta atteggiamenti violenti, oppure quella dell’Occidente volgare e violento che esibisce il suo erotismo a sfondo sadico sia un modo, di nuovo, per tacere l’aspetto più inquietante della vicenda, e cioè che la maschilità occidentale guerriera, e guerriera in una guerra particolare, in cui tutto è possibile, mostra proprio ciò che teme di più, cioè la propria parte femminile, la propria nudità, ciò che non sa affrontare.

Quindi secondo te gli uomini dovrebbero analizzare di più il rapporto con la loro virilità.
Sì, gli uomini non paiono aver meditato molto su questo elemento, tutt’al più si occupano un po’ dei diritti delle donne, del rapporto tra i sessi, ma non riflettono su che cos’è la loro virilità, buona o cattiva che sia, guerriera o pacifista.

E non è un caso che anche nel movimento dei social forum le donne siano pressoché invisibili; la figura del pacifista è un neutro che ha assorbito in sé dei tratti femminili; non problematizza più, non confligge, anzi pensa che non ci siano più conflitti tra i sessi. Ma questo è un equivoco enorme: quello che era il pacifismo “naturale” delle donne ora viene assunto dall’uomo, che va in questo modo verso una femminilizzazione.

Ora, io penso che per l’uomo questo è, di nuovo, un modo per risolvere la questione oscurando e accantonando il nodo più difficile e più duro da affrontare: cos’è storicamente la virilità? Che rapporto ha col femminile e con quelle parti di sé considerate femminili? Parti che vengono espulse continuamente su altri gruppi sociali, altre culture, altri gruppi etnici, considerati inferiori. La pura virilità è solo violenza e umiliazione dell’altro?

E’ evidente infatti che il mucchio dei corpi, o i corpi nudi in fila, sono questo altro da sé che viene proiettivamente espulso e allontanato. Ma è una separazione che non convince. Sappiamo come, negli eserciti, sia forte la paura dei sentimenti omosessuali, il timore che trapeli qualche pulsione verso il proprio simile. E poi io ho insegnato per anni e li vedevo i ragazzini accalcarsi uno sull’altro, e le botte, e questi corpi che si arrotolavano, queste paure: “Sei una femmina, sei gay”. Sono cose che tutti abbiamo avuto sotto gli occhi. Certo, la guerra enfatizza questi aspetti, li mette in scena.

Poi non va dimenticato che tutta quest’analisi sulla sessualità, in qualche modo in chiave psicanalitica, si inquadra in un orizzonte molto più largo, che è quello del razzismo, e di una guerra di quel tipo, fatta da una potenza economica e militare che ormai ha in mano tutto e può fare tutto.

Però resta un’analisi importante da fare, per riconoscere, in quelli che sembrano un abominio e un orrore assoluti, dei tratti della natura umana relativi alla problematica del potere in tutte le sue forme. Perché qui non siamo solo in presenza di un ordine che viene dall’alto e che poi si dirama ai subalterni (la solita scusa usata in questi casi: ho obbedito a degli ordini). No, qui c’è una creatività, una partecipazione che va oltre l’esecuzione di un ordine: siamo in presenza di un individuo che interagisce con una forma di potere, con una cultura e un’ideologia, sulla base di pulsioni che sono già nella sua storia.

E’ per questo che simili foto ci costringono ad uscire dalle spiegazioni riduttive e semplicistiche per interrogarci su noi stessi, oltre che sulla situazione politica mondiale, che ne siamo consapevoli o meno.
 

Articolo apparso sulla rivista Una Città n. 120

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