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Quel lavoro che non è un lavoro

di Lea Melandri


Rachel Whiteread 2006

Un sesso non riconosciuto come tale  -ha scritto Luce Irigaray- può contare solo “come non sesso”, “negativo, inverso, rovescio dell’unico sesso visibile e morfologicamente designabile”. Se sulla sessualità femminile, cancellata e riscritta in base a parametri maschili, il femminismo ha riflettuto a lungo, producendo cambiamenti significativi nella vita di molti, donne e uomini, non si può dire altrettanto per quel lavoro non pagato che resta in gran parte sepolto nelle case, nelle relazioni private, nella resa inconsapevole delle donne a una consegna ritenuta ‘naturale’.
Il lavoro di cura e il lavoro domestico, confusi con l’amore, con l’altruismo materno, con l’ambigua collocazione dell’essere femminile, sospeso tra sacralità e determinismo biologico, non riescono ancora oggi a essere visti e riconosciuti per quello che sono sempre stati: sostegno materiale e affettivo al potere e la privilegio di un sesso –ma, per estensione, anche di una classe, di una razza- che ha potuto perciò pensarsi autonomo, solo perché sciolto dai vincoli della sopravvivenza, razionale perché alleggerito dal peso del corpo, forte per aver svalutato debolezza, dipendenza, bisogni primari della vita umana, e asservito coloro che sono chiamati a soddisfarli.

L’unico lavoro riconosciuto come tale, sia da chi ne esalta le potenzialità illimitate, sia da chi vorrebbe temprarlo secondo principi di giustizia e uguaglianza, è il lavoro produttivo, associato a ricchezza, potere, successo, sviluppo, proliferazione e consumo di merci. Espressione della supremazia maschile, prima ancora che di un privilegio di classe, la divisione sessuale del lavoro ha attraversato, senza cambiamenti sostanziali, sistemi economici diversi, dal capitalismo al socialismo, dal fordismo al postfordismo, dalle economie locali alla globalizzazione.
Nonostante l’intensificarsi di ricerche e inchieste, che riescono a scandagliare il lavoro non pagato in tutta la sua quotidiana, complessa articolazione, e nonostante i risultati sorprendenti che ne dimostrano la rilevanza quantitativa, in termini di tempo e denaro, l’ordine delle priorità non sembra possa esserne toccato: la cura, componente essenziale della vita umana, continua a macinare energie, intelligenza, saperi, destinati a restare screditati, o riconosciuti per la loro importanza solo da chi ne è protagonista, invisibile e inascoltato. La verità del rovesciamento di parti, che ha permesso ai deboli di farla da padroni, agli sfruttati in fabbrica di farsi sfruttatori in casa, riportata più volte nel cuore dell’analisi politica da alcune componenti del femminismo, già a partire dagli anni ’70, continua a rimbalzare in un vuoto di interlocuzione che, a questo punto, interroga uomini e donne.

“Non sono solo le pratiche i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono –scrive Antonella Picchio-, ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita di uomini compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi”.
Se è vero che la “riproduzione sociale della popolazione” non è una “questione femminile”, che si possa risolvere nel privato, bensì il presupposto imprescindibile della “produzione di merci”, perché è stato così difficile, per non dire impossibile, negli anni in cui si è affermato un diffuso movimento anticapitalista, trovare i nessi tra femminismo e lotta di classe, o, quanto meno, da parte delle donne, “agire un conflitto profondo”, mettendo al centro le condizioni di vita, il corpo, la cultura, le relazioni e tutto ciò che erano venute scoprendo attraverso la loro esperienza?
Si può rilevare il limite di una interpretazione della cura in chiave esclusivamente economica, quale è stata quella di Lotta Femminista –“salario al lavoro domestico”-, e cioè l’assimilazione al lavoro produttivo di mansioni complesse, particolari, profondamente implicate con la vita intima, la maternità, la sessualità, i legami affettivi, che come tali non possono né essere completamente monetizzate o affidate allo Stato.
Ma non c’è dubbio che ogni altro tentativo di affrontare le pesanti ricadute sulla donna della divisione del lavoro ha finito per scontrarsi con la priorità della dimensione produttiva, utilitaristica, assunta come modello unico, neutro, universale, anche quando viene ribaltato e preso dal suo polo opposto e complementare: il dono, la decrescita, la femminilizzazione del lavoro.

Finché viene occultato, il rapporto tra i sessi non può che ricomparire mistificato come “questione femminile”. Non è un caso che la presenza rilevante delle donne nei movimenti  più vicini a quella che è stata storicamente la collocazione materiale e simbolica del femminile  -l’ecologismo, la difesa del territorio e dei beni comuni, la scuola, ecc.- le veda comunque silenziose sul conflitto che le tocca più da vicino, sia nella sfera privata che pubblica. E’ come se, restando intoccata la visione di fondo, in cui si intrecciano, oggi in modo scoperto – per la femminilizzazione del lavoro- i tratti del maschile e del femminile costruiti dall’uomo, e in assenza quindi di un’analisi del sessismo che dica quale rapporto di potere è intercorso tra gli uomini e le donne reali, non restasse anche alle strategie femminili altra scelta che l’altalena tra un polo e l’altro, o lo sforzo acrobatico della loro ‘conciliazione’.
Così è stato il dilemma “uguaglianza/differenza”, per le lotte di emancipazione di oltre un secolo –rivendicazione di parità o richiesta di tutele-, così è oggi la tentazione di una componente del femminismo italiano, la Libreria delle donne di Milano, di volgere i cambiamenti intervenuti nel lavoro in “vantaggio” femminile, l’occasione per imporre nello spazio pubblico valori, saperi legati alla cura di figli, anziani e malati, all’attenzione quotidiana alle persone e ai loro bisogni.
Il “doppio sì” delle donne alla maternità e al lavoro  -come dice il titolo del Quaderno di via Dogana, 2008- si propone come “volontà di stare nel mondo alle proprie condizioni” e aprire orizzonti nuovi di senso per il lavoro tout court. E’ una proposta che sicuramente va incontro ai desideri contraddittori, che nascono, nelle nuove generazioni di donne, da una maggiore consapevolezza di sé, dalla speranza di trasformare un destino in libera scelta, ma la “flessibilità” che si esprime nella richiesta di part-time, di contrattazione individuale degli orari, da cui ci si aspetta di veder emergere il “vantaggio” femminile, si fa fatica a distinguerla dai requisiti che le aziende oggi chiedono a tutti, in particolare a chi, come le donne, sembrano incorporarli, come dote naturale.

Nel libro Le donne non chiedono (Sole24ore, 2004), le due autrici, Linda Babcock e Sara Laschever, dopo essersi interrogate a lungo con saggezza sugli ostacoli esterni e sulle ragioni profonde, storiche e psicologiche, che impediscono alle donne di “diventare parte attiva nella negoziazione della loro carriera”, concludono inaspettatamente: “L’attenzione delle donne alla cooperazione e al consolidamento delle relazioni può essere un enorme vantaggio. Gli esperti dicono scherzando che tanti corsi di negoziazione oggi si tengono per insegnare  a negoziare come fanno le donne…esiste una convergenza tra il bisogno di reinventare le organizzazioni di oggi e lo stile di leadership interattiva propria delle donne…più opportunità per le donne e una maggiore parità tra i sessi, ma anche un rafforzamento della cultura delle imprese, nuove strutture organizzative capaci di efficienza e rendimento molto più alto”. Ciò che fa delle donne per l’impresa un “valore aggiunto”, è proprio l’abitudine al dono, l’altruismo, che tradotto in termini mercantili diventano: “fluidificazione dei conflitti”, “manutenzione relazionale”.

Ancora più esplicito è Pietro Ichino (L’Unità, 14.4.09). La detassazione del reddito di lavoro femminile, presentata come “forzatura” verso un “equilibrio più virtuoso”, rispetto alla “protezione paternalistica”, avrebbe a sostegno molte buone ragioni: l’incentivo al lavoro femminile, più gradito all’economia per la sua “elasticità”, la conseguente produzione, da parte del sistema, di servizi necessari a consentire a tante donne di lavorare, e quindi la trasformazione del lavoro domestico in “lavoro professionale”, pur sempre nei servizi, ma “più produttivo”. Ma, soprattutto, “rimetterebbe in moto il sistema economico”, aumentando il “tasso di crescita”.
Lo spostamento, per non dire la cancellazione, dei confini tra sfera personale e spazio pubblico, che sta modificando rapidamente la politica e l’economia, così come i corpi e le relazioni più intime, pone sicuramente interrogativi nuovi anche alla riflessione sul rapporto delle donne col lavoro.
Altri e più inquietanti vengono dalla recessione, dall’assottigliarsi della famiglia, dall’allungamento della vita associato alla denatalità.
La domanda “chi curerà chi?” cade oggi nel mezzo di un paesaggio confuso, sconnesso, aperto a nuove soluzioni ma anche ad arretramenti verso forme più gravose di oppressioni antiche, soprattutto per quanto riguarda le ‘naturali’ responsabili della sopravvivenza della specie e della salvezza delle nazioni.
Finché lavoro di cura e lavoro domestico non entrano nella teoria politica, con la centralità che hanno sempre avuto rispetto alla polis, e finchè non vengono collocate nel cuore del conflitto che ha a che fare con la supremazia maschile, ma anche con poteri e privilegi di classe e di culture, gli stereotipi continueranno a riprodursi e le soluzioni più diverse a rincorrersi in un cerchio senza uscita.

 

17-05-2009

questo articolo è apparso su "L'altro" cartaceo

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