Quell’ibrido che è la madre maestra

Lea Melandri



L’idealizzazione della donna madre non ha mai potuto nascondere l’aspetto ibrido di una figura a cui i teorici dell’amore romantico, come Jules Michelet e Paolo Mantegazza, attribuivano “viscere e pensiero”, “gli artigli del leone”, “gli eroismi del soldato e tutti gli accorgimenti del diplomatico”. Con più realismo, Marina Cvetaeva scriveva: “Amorevolezza e maternità quasi si escludono a vicenda. La vera maternità è coraggio virile”. Che dire allora della madre maestra, figura ancora più scomoda di contorsionista, a cui si chiede di trasmettere un sapere creato da altri, di accompagnarlo, dirigerlo, adattarlo con tutta la sapienza che le viene dal suo essere madre, non importa se reale, di accogliere dentro norme e codici astratti, linguaggi avulsi dall’esperienza, tutte le richieste che si fanno al corpo di una donna: di essere tenero, di piacere, di mediare l’urto tra mondo interno e mondo esterno, tra complicità famigliare e indifferenza sociale?

Il problema di un ruolo che ha le sue radici nel determinismo biologico e la sua estensione nell’allargamento del lavoro di cura a quello di educatrice per un percorso che arriva fino alle scuole superiori, rimanda sicuramente al patriarcato. Ma le ricadute che ha sul rapporto tra la famiglia, la casa e la scuola rischiano, soprattutto in tempo di pandemia, di aprire conflitti e false alternative tra una collocazione e l’altra. In un polemico scambio passato attraverso i social nei mesi precedenti l’estate, alcune madri criticavano come “antifemministe” le insegnati dubbiose sull’opportunità di apertura delle scuole, tenuto conto che ciò significava per loro dover rinunciare al lavoro per la cura dei figli. Una guerra tra poveri, si potrebbe dire, pensando che è stata proprio la pandemia a portare allo scoperto il peso insostenibile di una responsabilità quasi esclusivamente femminile per un lavoro di cura che va dai figli, ai mariti, ai malati, agli anziani, fuori e dentro le mura domestiche

Tra le immagini che l’uomo, protagonista unico della storia, ha attribuito alla donna, quella di madre maestra è senza dubbio, accanto a quella di oggetto erotico, iniziatrice sessuale, la più difficile da smascherare, per la copertura di falsa ‘naturalità’ che si porta dietro, ma anche per l’ambiguo segno che la contraddistingue: esaltata immaginativamente, storicamente insignificante, come ha scritto lucidamente Virginia Woolf. Se la divisione sessuale del lavoro ha ristretto il tempo e lo spazio delle donne alla riproduzione della vita, la loro collocazione nel punto più delicato di snodo tra famiglia e società, quali sono l’infanzia e l’adolescenza, ne ha fatto il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, sostenuto dall’illusione di ribaltare la sottomissione in potere di indispensabilità. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo dipendenti, inermi, ‘bambini’ anche se adulti nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e da cui pensano che dipenda la loro sopravvivenza? Se la cura e l’educazione, la socializzazione, fossero fin dalla prima infanzia responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo perverso di amore e odio che ha segnato la storia dei loro rapporti.

Mi rendo conto che, per la condizione in cui si trova oggi la scuola, attraversata da problemi di messa in sicurezza, rispetto al rischio prevedibile di contagio, disponibilità di aule e attrezzature adeguate, assunzione di nuovi insegnanti, tra cui sicuramente molte donne, per lo più precarie, porre quella che io considero la prima delle questioni di genere, è imbarazzante. Ma mi chiedo se ci sarà mai il momento più opportuno per affrontarlo, tenuto conto che anche per il femminismo il materno incontra pareri contrastanti, mentre nei documenti di una generazione giovane di studenti finisce addirittura per scomparire.

In una Lettera a “car* Prof”, firmata dal Coordinamento dei collettivi studenteschi di Milano e provincia, e altre sigle, tra cui NUDM, si legge:

“Non vogliamo difendere lo status quo, almeno la capacità di sognare e immaginare altre scuole possibili vogliamo tenercela stretta. Non possiamo accettare che le scuole siano state chiuse, ma non possiamo accettare neanche che nulla sia stato detto né tanto meno fatto, su come cambiare una scuola che, molto prima del Covid, fa acqua da tutte le parti a causa dei governi che, uno dopo l’altro, hanno tagliato miliardo dopo miliardo i fondi dell’istruzione pubblica, preferendo il finanziamento del privato.”

Le critiche che seguono colgono nel segno di riforme che hanno progressivamente svilito la funzione educativa della scuola, ridotta a scuola -impresa, consegnata al privato, alla precarietà del personale insegnante, all’affollamento delle aule, alla valutazione quantitativa, alla selezione tra alunni di serie A e alunni di serie B. Si denuncia la mancanza dell’educazione sessuale e dell’educazione ecologica, nonostante l’emergenza climatica. La lettera poi procede elencando interrogativi di indubbia importanza per una “scuola equa, solidale, cosmopolita”: “Come studieremo l’ambiente e la scienza? L’economia? Qualcuno ci spiegherà mai il concetto di Spillover, il legame tra la crisi climatica e il virus che ci ha intrappolati e ci intrappolerà nelle nostre stanze? Chi ci spiegherà come funziona il mondo, a partire dai libri di storia? Come faremo a rispettare tutt*, donne e uomini, senza differenziazione data dal colore della pelle, rispettosi dell’orientamento sessuale di chiunque?”. E si conclude con l’invito a non fermarsi ai loro “diritti di lavoratori”, a non diventare “corporazione chiusa”, a essere insieme a loro nello sciopero e nella ribellione alla DAD.

Non c’è un accenno al fatto che in quella storia, che andrebbe riletta e reinterpretata, non ci sono solo ingiustizie sociali, razzismo, sfruttamento economico, ma prima di tutto il silenzio di quella metà degli umani a cui la cultura maschile ancora stenta a riconoscere un “Io intellegibile”, e la violenza di un dominio che ha contagiato così profondamente la parte oppressa da farne il suo tramite materiale e simbolico più duraturo. Se passa ancora, nelle case come nella scuola, una visione unica del mondo è perché a trasmetterla sono, in gran parte, le donne che l’hanno forzatamente, loro malgrado, fatta propria, e confusamente trasmessa come madri e maestre.

 

Articolo pubblicato su "Il riformista" del 10 settembre 2020