Chi ha paura della cultura femminista?

Lea Melandri


 

In un articolo comparso il 20 aprile 2011 sul Blog27esimaora del corriere.it, dal titolo “Se non ora quando? (Ma il movimento è vivo o morto?)”, Luisa Pronzato scriveva: “Grande movimento di pensiero e discussione avevano, in quei giorni, riaperto l’attenzione sia sulle idee sia sulle questioni concrete: identità femminile e maschile, tempo di vita, disoccupazione, carriere. Dopo la manifestazione e la mobilitazione che ha innescato, sarà impossibile rimettere sotto silenzio la questione uomo-donna”.

A distanza di alcuni mesi dal 13 febbraio, dobbiamo purtroppo smentire una speranza che ogni volta si rinnova: che in questo paese qualcosa possa cambiare.

Se una ripresa di indignazione e di parola pubblica c’è stata, non è dai giornali e dalla televisione che ne abbiamo notizia ma dall’intensificarsi degli incontri, dall’aumento sorprendente delle candidature femminili nelle elezioni amministrative, dalle assemblee che si stanno tenendo in quasi tutte le città., dal moltiplicarsi dei messaggi e contatti via Internet. Nel momento in cui scompaiono dalle piazze, è come se le donne tornassero ad occupare il posto che è stato assegnato loro per destino “naturale”: fuori dalla polis, dai commerci sociali, culturali, politici, o presenti solo quando il privato degli uomini che la abitano da protagonisti fuoriesce inaspettatamente dal recinto domestico. Perché, mi chiedeva giorni fa Rossana Rossanda in uno dei suoi rari ritorni in Italia, le donne oggi presenti in gran numero nella vita pubblica non riescono a cambiarla, perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura? E’ la stessa domanda che ci fece alla fine degli anni ’70 e che torna ancora oggi di sconfortante attualità.

Sono tentata di elencare, come faccio ormai da tempo, le difficoltà e gli ostacoli, esterni ed interni, che ha incontrato il movimento delle donne:  la resistenza degli uomini ad abbandonare poteri e ruoli che considerano “connaturati” al loro sesso, e a cui fa da copertura più o meno consapevole la “neutralità”; l’intuizione, sia pure oscura e tenuta timorosamente a bada dalla sinistra, che mettere a tema la questione uomo-donna, come ricordava Pietro Ingrao già trent’anni fa, “comporta affrontare punti di fondo dell’origine della società in generale, investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro; incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, forme e natura dell’assistenza” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989).

E’ questa “rivoluzione” dell’ordine esistente – e quindi non solo la lotta contro governi conservatori, politici corrotti e antidemocratici- che spaventa? Sono le angosce profonde, le insicurezze insopportabili di chi vede comparire nell’autonomia di pensiero delle donne lo spettro di una rimossa inermità e dipendenza infantile dal corpo che l’ha generato? Qualunque siano le ragioni e le forme che ha preso nel tempo la misoginia maschile, diffusa a destra come a sinistra, tra politici e intellettuali, capitalisti e lavoratori, nativi e migranti, l’interrogativo che più inquieta resta quello che riguarda le donne stesse, la loro rabbiosa acquiescenza, l’adattamento a ruoli tradizionali di ancelle o cortigiane, il profluvio di discorsi lamentosi sui famigliari da accudire, sulle carriere interrotte, sui meriti calpestati, sul doppio e triplo fardello di chi si trova oggi a far da ponte tra privato e pubblico. Se la bontà come virtù ha perso smalto, non si può dire lo stesso per l’imperativo che vuole le donne “brave e belle”. Non è forse questa l’immagine femminile che ci viene offerta indistintamente dagli schermi televisivi e dalla scena politica? Se non sono corpi-sfondo- cornice,  esposti come specchi per le allodole anche in trasmissioni di carattere culturale, sono le diligenti segretarie che filtrano le mail e a cui il conduttore rivolge di tanto in tanto paterni sguardi, chiamandole confidenzialmente per nome. Oppure sono loro stesse conduttrici, preferibilmente di bella presenza, preparate, impeccabili, attente e pazienti nell’ascolto come nella mediazione, in quell’arena di oratori scalmanati che sono ormai i dibattiti televisivi.

Certo, non mancano eccezioni: a Rainews 24, alla 7, c’è una buona alternanza di giornalisti e giornaliste; ci sono donne che hanno assunto ruoli di vertice in settori importanti dell’economia, del sindacato, della comunicazione. Non sono conquiste da sottovalutare, ma rientrano nell’ordine della tradizionale “questione femminile”: le donne viste come una “minoranza” che si batte per diritti di parità o riconoscimento di una “differenza” da tutelare o valorizzare; la loro condizione letta in chiave di ritardo o svantaggio da colmare. Il traguardo raggiunto o da raggiungere resta “neutro”, l’unità di misura a cui adeguarsi è quella dettata dal dominio secolare maschile e mai riconosciuta come tale. Nella lettera al candidato sindaco, pubblicata prima che si tenessero le primarie a Milano, abbiamo scritto: “Il problema di questo paese non sono le donne, ma gli uomini e l’organizzazione culturale, politica, sociale ed economica che hanno messo in piedi”. Con un’immagine un po’ rozza, di tipo idraulico, aggiungevamo: se in casa c’è una forte perdita d’acqua, non serve “tamponare le falle” ma “cambiare le tubature”. In altre parole, non si tratta di “dedicarsi alle donne”, ma “scardinare sistemi obsoleti, riscrivere lo statuto di donne e uomini nella relazione tra loro”. Ciò significa che, se è importante una presenza delle donne nei luoghi decisionali della sfera pubblica che renda giustizia del fatto che sono la metà del genere umano, affinché cadano la falsa neutralità dell’organizzazione maschile del mondo e l’altrettanto falsa naturalità dei ruoli femminili di madre e seduttrice, è necessario che ci siano donne consapevoli di essere tali, portatrici di un punto di vista che assuma la questione uomo-donna per il peso che ha avuto e ha tutt’ora nella storia delle civiltà.

A quarant’anni dalla nascita del neofemminismo, che ha messo in discussione in modo radicale il modello maschile di società  -a partire dalla divisione tra privato e pubblico, identificata col diverso destino di un sesso e dell’altro-, non si può dire che manchino una cultura e pratiche politiche portatrici di questa consapevolezza e responsabilità  nuove. Quelle che Silvia Ballestra ha chiamato sprezzantemente “piccoli cenacoli autoreferenziali”, residui di una “vecchia guardia” femminista preoccupata di mantenere la propria “egemonia” (“Lo straniero”, aprile 2011), sono le centinaia di associazioni, gruppi, centri di documentazioni, biblioteche, librerie, case editrici, collettivi, case delle donne, centri antiviolenza, riviste, ecc., che hanno resistito finora all’arrogante messa sotto silenzio e marginalizzazione da parte della cultura dominante, custodi di un patrimonio di sapere che potrebbe dare  risposte adeguate agli interrogativi del presente: personalizzazione della politica, populismo, razzismo, omofobia, trionfo della merce, esaurimento delle risorse naturali, crisi di un modello di sviluppo. L’indignazione per le donne-oggetto, per lo scambio sesso-carriere, per la prostituzione trattata come opportunità di emancipazione femminile, ha portato un milione di donne e uomini nelle piazze. Come mai allora tanto silenzio sulla cancellazione dell’intelligenza che ha saputo negli anni costruire un’immagine del maschile e del femminile fuori dagli stereotipi di genere, un’idea di individuo “intero”, né solo corpo né solo mente, la prospettiva di una collettività responsabile della conservazione della vita, di quello che è rimasto finora destino di un sesso solo?

Non c’è bisogno di richiamare l’attenzione, come abbiamo fatto tante volte, sui grandi eventi culturali  -la Fiera del libro di Torino, il convegno annuale dei filosofi di Modena, ecc.- dove i libri e le riviste del femminismo sono pressoché assenti. Basta sfogliare in un  giorno qualsiasi uno dei nostri maggiori quotidiani. Giovedì 5 maggio, le pagine culturali di “Repubblica” affrontavano due temi di grande interesse: “Nemico. Quando l’altro è simbolo del male”, “La felicità è democrazia”.
A parte gli autori degli articoli, tutti rigorosamente uomini, anche nella bibliografia annessa  -una quarantina di titoli- nessun nome di donna. Nel suo delirante ma lucidissimo sessismo, Otto Weininger ebbe almeno il coraggio di scrivere che “si può ben pretendere l’equiparazione giuridica dell’uomo e della donna senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale”.

 

pubblicato in Gli altri del 13 maggio 2011

 

home