Perché Marrazzo si scusa tanto?
Lea Melandri


Quando la vita privata con il suo carico di bisogni, desideri, sentimenti, emozioni e fantasie fa la sua comparsa nella sfera pubblica, da cui è stata storicamente estromessa, è inevitabile che sia fatta oggetto di un’attenzione particolare. A maggior ragione se a portarla allo scoperto è persona nota e responsabile di un ruolo istituzionale di rilievo. Non stupisce perciò che l’intervista, rilasciata da Piero Marrazzo a Concita De Gregorio (Repubblica 15.8.2011), a due anni dallo “scandalo” che lo indusse, nell’ottobre 2009, a dare le dimissioni da Presidente della Regione Lazio, abbia aperto il varco a uno di quei discorsi sul rapporto tra i sessi che da alcuni anni attraversano inaspettati la politica, senza peraltro modificarla quanto ci si aspetterebbe.

E’ difficile, innanzi tutto, parlare della sessualità e delle relazioni “intime” senza che prevalga, in modo talvolta esclusivo, il giudizio morale. Forte della sua innocenza -per non aver violato alcuna legge ed essere stato, al contrario, vittima di un reato-, Marrazzo sottolinea tuttavia a più riprese la sua “debolezza”, la sua “fragilità”, il suo errore umano e l’ardire stesso della sua confessione. Di questi aspetti “moralmente condannabili” si scusa con la sua famiglia, ma anche coi suoi elettori e con la comunità che era stato chiamato a governare. E aggiunge, come considerazione generale: “un uomo che assume un incarico pubblico non può avere debolezze.

Maria Luisa Agnese (Corriere della sera, 17.8.2011) fa notare giustamente che Marrazzo sta parlando ai maschi, con una “autodifesa” volta a “riconquistare il loro rispetto”. E lo fa, viene da aggiungere, seguendo il modello di una virilità corredata dei tratti più noti della cultura politica e della morale cattolica: separazione tra privato e pubblico, tra pulsioni e controllo razionale, pentimento e sconto della pena, confessione e redenzione. Ma nel dare voce al vissuto personale, l’intervista si trasforma in una sorta di autocoscienza, dove diventa possibile nominare anche ciò “che non è bello a sentirsi” né “facile da dirsi”. E’ qui che la captatio benevolentiae o la scusa non richiesta, rivolta ai propri simili, diventa al contrario la descrizione rivelatrice di quello che è stato finora il desiderio e l’immaginario sessuale maschile.

A differenza di Maria Luisa Agnese, che vede nell’esaltazione che Marrazzo fa della femminilità dei trans “quasi una provocazione per tante donne”, mi sembra che raramente sia parso così chiaro che il femminile-materno-accogliente è una costruzione dell’uomo, complemento indispensabile –e per questo attribuito come vocazione “naturale” alla donna- di un ideale virile dove si sono mescolati e confusi perversamente il dominio del padre e la tenerezza o la nostalgia amorosa del figlio. Chi abbia avuto modo di vedere lo splendido reportage fotografico di Lisetta Carmi, I Travestiti (Edizioni Essedì, Roma), non avrebbe dubbi che in quella galleria di figure femminili c’è l’incarnazione di tutto ciò che di più desiderabile e temibile l’uomo ha visto nel sesso diverso dal suo. Perché le donne, che hanno cominciato ormai a liberarsi dei modelli imposti e che conoscono il peso della “cura”, della dedizione all’altro, diventata per loro un “destino”, dovrebbero sentirsi “umiliate” e “scavalcate” dall’affermazione che i transessuali esercitano una capacità di accadimento straordinaria? Nella confessione di Marrazzo, la famiglia, la coppia eterosessuale, rimangono sullo sfondo come richiamo colpevolizzante, mentre prendono centralità il corpo mercenario transessuale, i bisogni, le fantasie e i desideri che in esso trovano la loro incarnazione.

Che la prostituzione, qualunque sia il sesso dei protagonisti, risulti più “rassicurante” per l’uomo, è tanto più vero quanto più si è andata affermando la libertà e l’autonomia delle donne, la consapevolezza dei loro desideri, il rifiuto di essere oggetto di consumo, sfruttamento, o materno luogo di sostegno materiale e psicologico di mariti, figli, amanti. Marrazzo non fa che riportare su di sé, con vergogna e scuse, un comportamento maschile diffuso, e che oggi comincia a essere oggetto di analisi e di possibili cambiamenti da parte degli uomini stessi, consapevoli di quanto il loro immaginario sessuale abbia dato forma sia all’amore che ai rapporti di potere tra un sesso e l’altro.

Scrive Stefano Ciccone nel suo libro Essere maschi (Rosenberg & Sellier 2009). “La prostituzione rappresenta l’occasione di sfogo di pulsioni maschili. Con una prostituta paghi e decidi tu: vivi l’illusione di una relazione in cui il tuo potere determina i ruoli, i limiti e le forme del rapporto. Clienti o sfruttatori, oppure salvatori e tutori delle donne: donne da consumare, sfruttare o proteggere”. Ma nella vicenda Marrazzo c’è qualcosa di più e di nuovo che si esprime nell’immagine più volte ripetuta del “riposo” e dell’ “accoglimento”, della porta che si apre a ogni richiesta. E’ questo spostamento della cura materna, ritrovata alla massima potenza in un transessuale, che dovrebbe far riflettere sul rapporto ambiguo tra maternità e sessualità. Se la cultura, il sapere, le istituzioni della vita pubblica, le molteplici forme di controllo, hanno potuto fare da argine alla potenza generativa e accuditrice della donna-madre, con la sessualità si ripresenta all’uomo un corpo femminile aperto, inglobante e minaccioso come all’origine, quando era ancora tutt’uno, indistinguibile, col suo. Rispetto alla figura della madre fallica, innesto immaginario di maschio e femmina, la femminilità trasferita su un corpo maschile non può che essere più rassicurante. Il denaro, che dà forma alla relazione mercenaria, contribuisce sicuramente ad allentare timori ancestrali e dipendenza, ma sarebbe riduttivo interpretarne l’aspetto “rilassante” solo da questo punto di vista. Altrettanto riduttivo è leggere l’insistenza sul tratto materno della relazione come resa al tabù dell’omosessualità, tentativo di rimuovere ciò che sarebbe difficile da far accettare ai propri simili.

La desessualizzazione -cancellazione della sessualità e della individualità femminile-, mentre riduce la madre a funzione di cura e conservazione della vita, permette all’uomo di sentirsi soggetto unico, libero dai bisogni primari, protagonista privilegiato della sfera pubblica. La relazione consumata fuori dalla “normalità” famigliare, eterosessuale, sembra aver costretto Marrazzo a riconoscere che potere e fragilità maschile, desideri sessuali e bisogni affettivi, responsabilità pubbliche ed esperienze personali, sono meno separate di quanto si creda e si preferisca pensare.

Perché allora parlare di “scandalo”, di “privato” innominabile? Perché scusarsi tanto? Se c’è un errore in tutta questa vicenda è non avere avuto il coraggio di porre la sessualità –rapporto tra i sessi, orientamento sessuale- come questione in sé politica. Non è questo che fanno, inascoltati, da anni il femminismo e il movimento lgbtq?

 

13-09-2011

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