Le passioni non sono neutre

di Lea Melandri

 

Quanto deve essere “significativo” l’incremento della violenza maschile contro le donne se non bastano i Rapporti allarmanti dell’ Eures-Ansa e la catena di omicidi ormai quotidiani affinché le istituzioni pubbliche si decidano a riconoscerne la gravità e la portata politica eccezionale, visto che a esserne colpito non è un singolo gruppo ma indiscriminatamente il sesso femminile?
Dove è finita l’indignazione della stampa benpensante, preoccupata per l’uso che media, politici corrotti e affaristi di ogni specie fanno del corpo di donne, peraltro consentienti? Se le veline, le escort, le donne-immagine si possono definire “vittime”, come chiamare quelle che vengono strangolate, sprangate, uccise con coltelli o colpi di pistola dietro la spinta di una logica ben più feroce e primitiva?
Se al posto del potere mettiamo l’amore –o qualcosa che si dice tale-, se allo Stato sostituiamo la famiglia, alla figura pubblica quella intima di un marito, di un padre, di un amante, cosa cambia tanto da far slittare la notizia nella cronaca grigia di “normali”, inspiegabili fatti di sangue?  Dal momento che non sono bastati né gli appelli e le manifestazioni delle associazioni femministe, né l’impegno dei centri antiviolenza ad avviare un’analisi seria e continuativa del fenomeno, non resta che cercare risposte nei resoconti ora scarni, ora infarciti di cattiva letteratura, che si leggono sui giornali.

A parlare del “male oscuro” della famiglia vengono chiamati criminologi, psicanalisti e scrittori, rimuovendo più o meno consapevolmente il dato evidente che non si tratta di  patologie di singoli o delitti occasionali, ma della forma violenta e perversa che ha preso nella storia fin qui conosciuta il fondamento primo della convivenza umana: il rapporto uomo-donna. Intervistata da Repubblica (24.4.10), Isabella Merzagora, docente di criminologia all’Università di Milano, afferma: “Per un omicidio su quattro la spinta è passionale, dettata dalla gelosia, da forme infelici di amore, oltre il 16% per disturbi psichici. Mariti che paiono normali ma che nascondono una bestia dentro”. Segue il consiglio: “Non sposare mai un uomo prepotente né uno dipendente. Spesso è quest’ultimo, incapace  di reggere il rifiuto, che prende un’arma”.
Tanto varrebbe dire alle donne di non sposarsi affatto e di non fare figli, visto che tra un figlio cresciuto nella dipendenza da pressanti cure materne e un marito che pretende il medesimo trattamento da una moglie il passo è breve, la continuità assicurata. La scelta maschile dell’ “oggetto d’amore”, notava Freud, avviene “per appoggio” a un corpo femminile che l’uomo conosce, inerme, alla nascita e che ritrova, armato dal potere di genealogie di padri, nella vita amorosa adulta. Un corpo di cui perciò si ha bisogno, ma che può divenire ingombrante, che può dare la vita o la morte, intenerire o rendere furiosi, un corpo di cui si può temere la presenza quanto l’assenza.

L’indispensabilità della funzione generativa e accuditiva, che il dominio maschile ha trasformato nel destino di sottomissione delle donne  -vivere per l’altro e attraverso l’altro-, non può che essere fonte di pulsioni e sentimenti contraddittori per il sesso che ha creduto di poter fondare la sua “libertà” pubblica su una infantile dipendenza privata, protratta ben oltre i suoi bisogni di bambino. L’ossessione per l’ “amore perduto”, la gelosia, la ferita narcisistica e il dolore intollerante che provoca un rifiuto o un abbandono, sono i motivi che più di frequente vengono addotti per spiegare come maturi la decisione di uccidere “in uomini che mai avrebbero immaginato di farlo”.

“Lo stalker –commenta lo scrittore Donato Carrisi sul Corriere della sera (10.07.10)- non sa di essere stalker. Pensa di averne diritto”. Che sottile inganno! Si inventa una categoria, il “persecutore” –come se i maltrattamenti che le donne subiscono non fossero già una persecuzione, e viceversa-, gli si da un nome straniero che ne copre l’effetto sinistro, e si approva una legge dall’applicazione lenta e spesso imbarazzante per la donna che fa la denuncia.
Eleonora Palazzetti, minacciata da un ex-collega per “cinque anni da incubo”, ha dovuto ricorrere ai giornali e alla ministra Carfagna perché si sapesse quanto è stato difficile farsi ascoltare “da magistrati e forze dell’ordine”, impegnati “in cose più importanti”. (Corriere della sera, 7.07.10)
Non sarebbe più onesto dire che sono gli uomini, nella stragrande maggioranza, inconsapevoli di essere “tali” quali una storia secolare li ha fatti, convinti della loro superiore umanità e della bontà di una legge patriarcale che ha eretto a norma la violenza e trasformato l’amore in possesso?

“E’ il dolore, la debolezza di non accettare un rifiuto –scrive sempre Carrisi- a far subire all’amore una mutazione che lo assimila all’odio, come una metastasi che lo incancrenisce dall’interno”.
Nessun dubbio, nessuna domanda sul fatto che di abbandoni, gelosie, rifiuti le donne hanno sofferto e soffrono tutt’ora molto più degli uomini, ma non uccidono per questo, abituate dalla lunga sottomissione ad attribuirli al diritto e alla libertà dell’altro sesso.

Una parola diversa, staccata dal coro dei compassionevoli commentatori del grande dolore maschile che si trasforma in rabbia omicida, è venuta dal Giornale (12.07.10): “Forse è il caso –scrive Luciano Gulli- che noi uomini ci facciamo un esame di coscienza (dovemmo farcene uno ogni sei mesi, sul punto, vista la recidività)…lo so, viene voglia di spaccare tutto, di fare un macello, anche se siamo diventati tutti più razionali, e non siamo più maschilisti. Bisognerebbe fermarsi a pensare a questa spaventosa idea: e cioè che la donna con cui stavamo non è “roba nostra” e dunque ha diritto di non volerci più, di andarsene. Ripeto: un dolore spaventoso, una ferita che spesso non si rimargina, come sanno tutti quelli che ci sono passati (e siamo in parecchi)”.

E’ come dire che nemmeno le “passioni” sono neutre e che invocarle ogni volta che viene uccisa una donna dal marito, dal fidanzato, da un amante, sa di “giustificazionismo”. Ma quanti sono gli uomini che di fronte alla violenza manifesta dei loro simili sanno dire “ci riguarda”, come ha fatto l’associazione Maschile/Plurale?

Soprattutto, al di là della condanna dell’aggressore e della tutela della vittima, che cosa hanno fatto finora la politica e la cultura perché il sessismo avesse la stessa attenzione che viene data alle persecuzioni razziali, ai delitti di mafia, alle “cricche” degli affaristi?

Non è il femminismo che ha fallito, nel suo tentativo di mettere in discussione i ruoli storici, naturalizzati, del maschio e della femmina, nell’impegno a rendere le donne consapevoli dei loro desideri, libere di decidere della propria vita. 
Nemmeno si può accusarlo – come fa la psicanalista Vera Slepoj su La Nazione (12.07.10)- di aver seguito “un’illusione demagogica”, dal momento che “le nuove generazioni maschili non riescono a farsi carico di queste donne protagoniste”.

La possibilità di disporre del proprio corpo e di se stesse, qualunque sia l’uso pur discutibile che se ne fa, è la conquista preziosa che il movimento delle donne ha trasmesso a quelle che sono venute dopo. Se questa imprevista autonomia sconvolge le menti di maschi “poco cresciuti”, vuol dire soltanto che il cammino per uscire dalla cultura patriarcale e dalle sue ricadute nefaste è ancora lungo e che il cambiamento va preso alle radici: a partire dai risvolti meno indagati della famiglia e dei rapporti di coppia, dai pregiudizi che ancora passano attraverso l’educazione e la scuola, dall’invadenza delle logiche di mercato sul vissuto personale di uomini e donne.

Le leggi, i diritti acquisiti, per un fenomeno che ha ramificazioni così profonde nell’origine della specie e nella memoria del corpo, non bastano e diventano spesso un alibi per lasciare alla vita del singolo una vicenda che ha evidenti ripercussioni nella storia e nella cultura comune.

 

articolo pubblicato su Gli altri del 25 luglio 2010

 

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