Giovanni Zaccherini intervista Lea Melandri

 

Che cosa ha rappresentato per te Milano e come la vedi cambiata, oggi, rispetto a cinquant'anni fa?

A Milano sono approdata avventurosamente dopo la fuga improvvisa, anche se nel profondo meditata a lungo, dal paese, dalla famiglia, da un matrimonio sbagliato, dal ruolo appena assunto di insegnante di liceo. Che cosa poteva rappresentare una grande città per una figlia femmina di contadini che aveva avuto il singolare privilegio di studiare, ma non la possibilità di sottrarsi alle convenzioni, ai condizionamenti, agli obblighi morali o solo abitudinari di una collettività di provincia ristretta, vitale come lo è la gente di Romagna, ma chiusa e impietosa con chi trasgredisce le sue regole? Era il 1966 e per me, che arrivavo ignara dei movimenti che già stavano trasformando il mondo, è stata all’inizio solo il luogo di un anonimato protettivo, della libertà da un destino precostruito. La sensazione felice e inquietante di una nuova nascita, sia pure tra tante difficoltà: mancanza di casa, di soldi, di lavoro, timore e senso di colpa rispetto a quelli che avevo abbandonato.
Milano è stata per i primi mesi le sue vie, la sua massa in continuo movimento, i suoi tram dove sapevo che nessuno mi avrebbe ritrovato e costretto a tornare al paese.
Dopo solo due anni, verso la fine del ’68, è stata l’incontro che avrebbe cambiato radicalmente la mia vita, sotto il profilo dell’impegno politico e culturale, con il movimento non autoritario nella scuola, la creazione della rivista “L’erba voglio”, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, e il femminismo, una passione che, è il caso di dire, “ancora non mi abbandona”.
Quello che Milano è diventata dopo la stagione ‘rivoluzionaria’ degli anni ’70 non ha paragone col passato, quando l’attraversavamo con le manifestazioni, ne esploravamo ogni angolo, convinti di averla trasformata in una ideale casa comune. Oggi, a trattenermi qui, è la lunga storia che ho alle spalle, quello che ho potuto realizzare, quanto a progetti culturali, associazioni, impegno politico, che attribuisco alla generosità delle metropoli con i ‘forestieri’ che vi approdano pieni di speranze. Qui la marginalità povera e operosa, quale è stata la mia, come proseguimento delle passioni maturate negli anni ’70, può essere riconosciuta.

Hai scritto della Romagna che hai lasciato e delle tue  radici fatte di terra, servitù e fatiche oscure … come vedi, adesso, questa tua terra e, in particolare, quali modificazioni ha subito, secondo te, la donna romagnola?
 
Quando penso ai 25 anni che ho trascorso in Romagna, alla condizione di povertà, fatica e violenza in cui vivevano allora le famiglie contadine, mi sembra di aver vissuto un’altra vita, fatta di un tempo infinito e di orizzonti lontani solo presentiti, oltre la riva di un canale o un filare di viti. Non posso dire di averne riportato solo dolore e ferite profonde. Quando parlo di “memoria del corpo”, di sedimenti emotivi, immaginari, che non riescono neppure a diventare ricordi, ma che ci sono e muovono pensieri, stati d’animo, sbalzi inaspettati di umore, penso a quella radice di terra, temprata da donne e uomini di straordinaria vitalità, pur costretti a lavori servili, capaci di passare dalla zappa al ballo, dall’ira alla battuta di spirito. Delle donne conosciute allora ho portato con me un’idea contraddittoria, confusa, su cui ho avuto modo di riflettere solo in seguito alla luce della consapevolezza nuova che mi veniva dal femminismo. Le sentivo forti più dei loro mariti e padri, per certi versi emancipate, nel lavoro, nella sessualità, eppure sottomesse, sottoposte a maltrattamenti, lucide e impietose nel mettere allo scoperto le debolezze e la violenza maschile, ma sentimentalmente inclini a perdonarli e a sostenerli, come si fa coi bambini.
Per dire come sono oggi le donne di Romagna, essendo io lontana da tanto tempo e presente solo per brevi visite ai miei genitori, finché erano vivi, non ho conoscenze sufficienti. Le amiche di Ravenna, che mi hanno voluto riportare a radici mai del tutto pacificate, attraverso incontri, seminari, pubblicazioni a più mani, hanno percorsi culturali ed esistenziali così vicini ai miei, che non mi pongo più il problema della loro appartenenza a questo o quel luogo. Sicuramente le differenze tra provincia e città sono molto meno marcate che in passato.

Forse non è casuale che a ‘riportarmi’ in Romagna siano state donne con cui potevo condividere la passione femminista e qualche fugace ricordo della mia storia passata. I primi incontri sono avvenuti a metà degli anni ’90 dietro invito di Ermanna e Marco Martinelli, del Teatro delle Albe, ma è solo nel 2003-2004 che sono stata chiamata da Paola Patuelli, Serena Simoni e Piera Nobili a uno dei seminari che dedicavano già da anni a La storia e il pensiero delle donne, all’interno dell’Università degli Adulti di Ravenna. Da allora è cominciata una relazione duratura, fatta di incontri che si ripetono ogni anno, momenti di studio e riflessione comune, a cui da qualche tempo partecipano anche uomini, e iniziative pubbliche. Insieme abbiamo dato vita all’Associazione Femminile Maschile Plurale, una realtà associativa unica nel panorama italiano, dove domina una cultura maschile poco incline a mettersi in discussione.
Dalle amiche di Ravenna mi è venuto il dono più gradito, un libro dedicato al mio pensiero, al mio lavoro teorico, alle mie pubblicazioni, che abbiamo costruito insieme. Le passioni di Lea. Storia di un incontro ravennate è uscito dalle’editore Longo nel 2006. Un altro libro collettivo è stato l’esito dei seminari tenuti nel 2007-2008 sul “corpo politico”, a cui hanno partecipato esponenti dell’Associazione Maschile Plurale, Stefano Ciccone e Sandro Bellassai, femministe storiche, come Maria Luisa Boccia, Elda Guerra, Antonella Picchio. Abbiamo parlato giustamente di un “laboratorio politico di uomini e donne”, un’esperienza del tutto particolare per la capacità di tenere insieme quella che è stata la pratica innovativa del movimento delle donne, il “partire da sé”, l’attenzione alla vita personale, e l’analisi dei grandi temi della vita sociale. Se volevano “riportarmi a casa”, nonostante le mie resistenze, devo dire che in parte ci sono riuscite. Il tragitto da Ravenna a Fusignano è molto breve e ho ricominciato a farlo con meno ombre del passato.

Risalendo alle tue origini fusignanesi e alla successiva lusinghiera affermazione come scrittrice, si pone il problema della lingua: come tu stessa hai suggerito, nella diade italiano-dialetto si riflette città-campagna, maschile-femminile, mente-corpo; il graduale abbandono del dialetto non ti sembra il segnale di una progressiva egemonia del pensiero sulle “passioni”?

Non c’è dubbio: il passaggio dal dialetto, la lingua parlata in famiglia, all’italiano imparato a scuola, ha provocato fin dalle elementari una separazione destinata a durare tra la fisicità dominante, per la classe sociale e il sesso “senza storia” a cui appartenevo, e un pensiero che non poteva raccoglierla, tradurla nei linguaggi colti della letteratura, dell’arte, della filosofia. Il dualismo, corpo-mente, natura-cultura, è diventato non a caso il filo conduttore di tutta la mia formazione intellettuale. Il mondo emotivo, legato alla mia infanzia e adolescenza è rimasto in gran parte consegnato al dialetto, e ho invidiato il mio amico, compaesano, Giuseppe Bellosi, che di quella nostra prima lingua è riuscito a fare opera poetica. E’ come se avesse scritto anche per me.
Non posso dire tuttavia che il corpo, le passioni non siano entrate nella mia scrittura. Avvicinare la parola al vissuto corporeo è stato un desiderio costante del mio percorso intellettuale, un po’ come ritrovare radici di terra troppo violentemente strappate, e ha comportato una lunga riflessione su me stessa, una ricerca di anni. E’ stato solo nel corso della terapia analitica che ho fatto negli anni ’80, che ho sentito la mia scrittura cambiare, il pensiero teorico lasciarsi contaminare da spinte emotive, la chiarezza del ragionamento dalla densità sentimentale dei ricordi. E’ stato in quegli anni che ho scritto il mio libro più “lirico”, anche se si trattava di una scrittura saggistica: Come nasce il sogno d’amore. Del resto, l’idea di uscire dai dualismi che ci hanno tenuto divisi in noi stessi, è la lezione più originale del femminismo. Il desiderio di ritrovare l’interezza del proprio essere non poteva che partire dalle donne, che col corpo sono state identificate, ma di cui hanno subito al medesimo tempo una violenta espropriazione.

 

I tuoi libri sono “compositi”, “tragitti di pensiero”, anche l'ultimo “Amore e Violenza” è nato così?

Ho detto spesso che i miei libri nascono “strada facendo”. Non so cosa vuole dire mettersi a tavolino, avere un’idea in mente articolata in capitoli, comporre le argomentazioni secondo un ordine prestabilito. Forse questo fanno gli studiosi. Io ho avuto la fortuna di non avere una formazione accademica, anche se ha fatto l’università, e di aver cominciato la mia scrittura pubblica con un movimento antiautoritario che mi permetteva di fare della vita, dell’esperienza personale, non più il “fuori tema”, come era stato al liceo, ma “il tema”. Mi considero una pensatrice libera, solitaria e socievole tanto da poter tenere insieme una pratica politica fatta di incontri, riflessione collettiva, e momenti in cui il pensiero torna sui propri passi, e ritrova il silenzio necessario per scavare nel profondo della vita personale, inseguendo quei tracciati remoti che accompagnano l’individuo come un destino. Se per un verso il mio impegno nel movimento delle donne mi ha portato ad allargare sempre di più il cerchio delle amicizie, degli interessi, delle conoscenze, gli scritti –relazioni, articoli, saggi-,
per quanto all’apparenza occasionali, a guardare bene rientrano sempre in qualche modo nel loro “solco” antico. Sono rimasta la figlia del contadino, che aiutava i famigliari nella semina, che sognava le strade del mondo ma poi si rintanava dentro le braccia protettive degli alberi.

 

Una delle “idee forti” del libro è la figura dell' “uomo-figlio”, per eludere questa inermità, l'uomo ha costruito la figura del marito e del padre-padrone:  c'è una via d'uscita?

Sul capovolgimento che si può ipotizzare all’origine tra la posizione di dipendenza, debolezza, inermità del figlio e quella dell’uomo, padre, marito che sottomettendo il potente corpo che l’ha generato, fissando la donna nel ruolo di madre, si è assicurato le sue cure, la sua dedizione, non si riflette mai abbastanza. La violenza maschile scatta quasi sempre quando una donna si separa, o pretende di decidere autonomamente della propria vita. E’ il momento in cui le parti sembrano di nuovo invertirsi, tornando al punto d’origine: la libertà femminile va a confondersi col fantasma della potente genitrice che può decidere della tua vita e della tua morte, che mette in scacco sicurezze virili, e per ciò stesso fa emergere fragilità e dipendenze insospettate. A volte, intollerabili. Come uscirne? Un dominio di secoli, che ha visto confondersi l’amore e la violenza, non può che comportare tempi di cambiamento tanto più lunghi quanto più restii sono gli uomini a deporre la maschera del “neutro”, interrogare se stessi come appartenenti a un sesso, a una cultura, a poteri che hanno dato loro privilegi ma anche pesi e mutilazioni della loro umanità.
Un passo avanti significativo può essere, da parte maschile, portare nella vita pubblica la fragilità, i bisogni che finora ha consegnato al privato, alle cure di mogli, sorelle e madri, partire dal riconoscimento che la dipendenza è parte integrante della vita di tutti e che è responsabilità collettiva darvi una risposta.
Mettere al centro la persona nella sua complessità porterebbe come conseguenza  la messa in discussione dell’economia e della politica, e in generale delle istituzioni della vita pubblica per essersi pensate libere dalla conservazione della vita. Una ‘rivoluzione’ che dovrebbe impegnare uomini e donne.

 

La “femminilizzazione” del lavoro e dello spazio pubblico ha portato alla ribalta il corpo della donna, al contempo seduttivo e materno, ma anche  degradato dallo scambio “sessuo-economico”: cosa si nasconde dietro questo fenomeno?

Dal momento in cui le donne sono più presenti nella sfera pubblica, è più facile  rendersi conto che le identità, i ruoli considerati per “natura” femminili, non sono maschere che si possono mettere e togliere con facilità, ma modi di essere che le donne hanno forzatamente e inconsapevolmente fatto propri. La seduzione e la maternità sono le potenti “attrattive”, come le chiama Rousseau, che l’uomo ha visto fin dalla sua infanzia nell’altro sesso, ma sono state anche per secoli l’unico modo che le donne avevano per sopravvivere e per strappare qualche potere. Non c’è dubbio che attraverso la cura, la dedizione all’altro passa una forma molto insidiosa di potere: quello di rendersi indispensabile all’altro, infantilizzandolo. Non dovrebbe meravigliare il fatto che le donne, in assenza di altri poteri e possibilità di scelte, siano tentate di impugnare attivamente condizioni che hanno subìto, per trarne un vantaggio o quello che considerano tale: denaro, carriere, successo. Lo scambio sessuo-economico è stato da sempre presente nella relazione tra i sessi, nel matrimonio come nella prostituzione: alle donne veniva richiesto l’obbligo procreativo e una sessualità al servizio dell’uomo, e per questo ricompensate, con denaro, protezione, doni o altro. La domanda che oggi possiamo farci è se questa è libertà o una forma di “emancipazione malata”, come preferisco chiamarla. Il protagonismo del “femminile” non significa ancora la piena cittadinanza delle “donne reali”.

 

Nell'ultimo Incontro Nazionale del Femminismo di Paestum, si è discusso molto a favore o contro il cosiddetto “50 e 50”, cosa ne pensi?

La questione del “50 e50” non ha mai destato in me un grande interesse. Ho sottoscritto i primi appelli dell’Udi e di altri gruppi di donne, dicendo chiaramente che lo consideravo solo un modo per incrinare il monopolio che il sesso maschile continua ad avere del potere decisionale nelle istituzioni pubbliche. Non ho mani pensato che la presenza quantitativa potesse produrre di per sé cambiamenti significativi nell’esercizio del potere, e oggi che questa richiesta viene generalmente accolta soprattutto in ambito amministrativo, ne sono ancora più convinta. La ragione è che le donne sono ancora lontane dall’avere un’autonomia di pensiero rispetto ai modelli imposti dall’uomo. Nei luoghi dove è più forte la visione maschile del mondo, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le donne finiscono per assimilarsi, “neutralizzarsi”, o porsi come complemento o “valore aggiunto”, attraverso la messa in campo delle doti femminili tradizionali. Il paradigma domestico, la cura, spostate fuori dalla casa, finiscono per riprodurre complementarità e gerarchie che conosciamo. Così le donne, oltre che curare bambini, malati, anziani e uomini in perfetta salute, cureranno anche il corpo in crisi delle aziende.

 

Tu che hai vissuto da protagonista lo sviluppo del movimento delle donne, come vedi i suoi obbiettivi e il suo ruolo in un contesto sociale assai diverso da quello di fine anni sessanta, quando era nato?

Il contesto sociale è cambiato ma si potrebbe dire che sono venuti allo scoperto oggi processi che erano già in atto negli anni ’70. Penso alla modificazione dei confini tra privato e pubblico, alla crisi della politica sempre più separata dalla vita, all’invasività della società dei consumi, alla spettacolarizzazione dell’esistente. Il femminismo è stato allora il sintomo di questi cambiamenti e al medesimo tempo, come intuì lucidamente Rossana Rossanda, “l’embrione di un ripensamento della politica”. A Paestum, un incontro nazionale del femminismo italiano che si è ritrovato 36 anni dopo nel luogo dove si era tenuto l’ultimo convegno degli anni ’70, è stato chiaro a tutte che oggi si può  affrontare una crisi, che non è solo economica ma di un modello di civiltà, solo riprendendo le intuizioni radicali degli inizi: “primum vivere” - la vita, i bisogni, ma anche la creatività, e tutte le possibili manifestazioni dell’umano, poste come fine e non come mezzo-, e “partire da sé”, mettere al centro la soggettività, l’esperienza personale, modificare se stessi per modificare il mondo.

 

da La voce di Romagna


14-12-2012

 

 

 

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