Giovanni Zaccherini intervista Lea Melandri
Che cosa ha rappresentato per te Milano e come la vedi cambiata, oggi, rispetto a cinquant'anni fa? A Milano sono approdata avventurosamente dopo la fuga improvvisa, anche se nel profondo meditata a lungo, dal paese, dalla famiglia, da un matrimonio sbagliato, dal ruolo appena assunto di insegnante di liceo. Che cosa poteva rappresentare una grande città per una figlia femmina di contadini che aveva avuto il singolare privilegio di studiare, ma non la possibilità di sottrarsi alle convenzioni, ai condizionamenti, agli obblighi morali o solo abitudinari di una collettività di provincia ristretta, vitale come lo è la gente di Romagna, ma chiusa e impietosa con chi trasgredisce le sue regole? Era il 1966 e per me, che arrivavo ignara dei movimenti che già stavano trasformando il mondo, è stata all’inizio solo il luogo di un anonimato protettivo, della libertà da un destino precostruito. La sensazione felice e inquietante di una nuova nascita, sia pure tra tante difficoltà: mancanza di casa, di soldi, di lavoro, timore e senso di colpa rispetto a quelli che avevo abbandonato. Hai scritto della Romagna che hai lasciato e delle tue radici fatte di terra, servitù e fatiche oscure … come vedi, adesso, questa tua terra e, in particolare, quali modificazioni ha subito, secondo te, la donna romagnola? Risalendo alle tue origini fusignanesi e alla successiva lusinghiera affermazione come scrittrice, si pone il problema della lingua: come tu stessa hai suggerito, nella diade italiano-dialetto si riflette città-campagna, maschile-femminile, mente-corpo; il graduale abbandono del dialetto non ti sembra il segnale di una progressiva egemonia del pensiero sulle “passioni”? Non c’è dubbio: il passaggio dal dialetto, la lingua parlata in famiglia, all’italiano imparato a scuola, ha provocato fin dalle elementari una separazione destinata a durare tra la fisicità dominante, per la classe sociale e il sesso “senza storia” a cui appartenevo, e un pensiero che non poteva raccoglierla, tradurla nei linguaggi colti della letteratura, dell’arte, della filosofia. Il dualismo, corpo-mente, natura-cultura, è diventato non a caso il filo conduttore di tutta la mia formazione intellettuale. Il mondo emotivo, legato alla mia infanzia e adolescenza è rimasto in gran parte consegnato al dialetto, e ho invidiato il mio amico, compaesano, Giuseppe Bellosi, che di quella nostra prima lingua è riuscito a fare opera poetica. E’ come se avesse scritto anche per me.
I tuoi libri sono “compositi”, “tragitti di pensiero”, anche l'ultimo “Amore e Violenza” è nato così? Ho detto spesso che i miei libri nascono “strada facendo”. Non so cosa vuole dire mettersi a tavolino, avere un’idea in mente articolata in capitoli, comporre le argomentazioni secondo un ordine prestabilito. Forse questo fanno gli studiosi. Io ho avuto la fortuna di non avere una formazione accademica, anche se ha fatto l’università, e di aver cominciato la mia scrittura pubblica con un movimento antiautoritario che mi permetteva di fare della vita, dell’esperienza personale, non più il “fuori tema”, come era stato al liceo, ma “il tema”. Mi considero una pensatrice libera, solitaria e socievole tanto da poter tenere insieme una pratica politica fatta di incontri, riflessione collettiva, e momenti in cui il pensiero torna sui propri passi, e ritrova il silenzio necessario per scavare nel profondo della vita personale, inseguendo quei tracciati remoti che accompagnano l’individuo come un destino. Se per un verso il mio impegno nel movimento delle donne mi ha portato ad allargare sempre di più il cerchio delle amicizie, degli interessi, delle conoscenze, gli scritti –relazioni, articoli, saggi-,
Una delle “idee forti” del libro è la figura dell' “uomo-figlio”, per eludere questa inermità, l'uomo ha costruito la figura del marito e del padre-padrone: c'è una via d'uscita? Sul capovolgimento che si può ipotizzare all’origine tra la posizione di dipendenza, debolezza, inermità del figlio e quella dell’uomo, padre, marito che sottomettendo il potente corpo che l’ha generato, fissando la donna nel ruolo di madre, si è assicurato le sue cure, la sua dedizione, non si riflette mai abbastanza. La violenza maschile scatta quasi sempre quando una donna si separa, o pretende di decidere autonomamente della propria vita. E’ il momento in cui le parti sembrano di nuovo invertirsi, tornando al punto d’origine: la libertà femminile va a confondersi col fantasma della potente genitrice che può decidere della tua vita e della tua morte, che mette in scacco sicurezze virili, e per ciò stesso fa emergere fragilità e dipendenze insospettate. A volte, intollerabili. Come uscirne? Un dominio di secoli, che ha visto confondersi l’amore e la violenza, non può che comportare tempi di cambiamento tanto più lunghi quanto più restii sono gli uomini a deporre la maschera del “neutro”, interrogare se stessi come appartenenti a un sesso, a una cultura, a poteri che hanno dato loro privilegi ma anche pesi e mutilazioni della loro umanità.
La “femminilizzazione” del lavoro e dello spazio pubblico ha portato alla ribalta il corpo della donna, al contempo seduttivo e materno, ma anche degradato dallo scambio “sessuo-economico”: cosa si nasconde dietro questo fenomeno? Dal momento in cui le donne sono più presenti nella sfera pubblica, è più facile rendersi conto che le identità, i ruoli considerati per “natura” femminili, non sono maschere che si possono mettere e togliere con facilità, ma modi di essere che le donne hanno forzatamente e inconsapevolmente fatto propri. La seduzione e la maternità sono le potenti “attrattive”, come le chiama Rousseau, che l’uomo ha visto fin dalla sua infanzia nell’altro sesso, ma sono state anche per secoli l’unico modo che le donne avevano per sopravvivere e per strappare qualche potere. Non c’è dubbio che attraverso la cura, la dedizione all’altro passa una forma molto insidiosa di potere: quello di rendersi indispensabile all’altro, infantilizzandolo. Non dovrebbe meravigliare il fatto che le donne, in assenza di altri poteri e possibilità di scelte, siano tentate di impugnare attivamente condizioni che hanno subìto, per trarne un vantaggio o quello che considerano tale: denaro, carriere, successo. Lo scambio sessuo-economico è stato da sempre presente nella relazione tra i sessi, nel matrimonio come nella prostituzione: alle donne veniva richiesto l’obbligo procreativo e una sessualità al servizio dell’uomo, e per questo ricompensate, con denaro, protezione, doni o altro. La domanda che oggi possiamo farci è se questa è libertà o una forma di “emancipazione malata”, come preferisco chiamarla. Il protagonismo del “femminile” non significa ancora la piena cittadinanza delle “donne reali”.
Nell'ultimo Incontro Nazionale del Femminismo di Paestum, si è discusso molto a favore o contro il cosiddetto “50 e 50”, cosa ne pensi? La questione del “50 e50” non ha mai destato in me un grande interesse. Ho sottoscritto i primi appelli dell’Udi e di altri gruppi di donne, dicendo chiaramente che lo consideravo solo un modo per incrinare il monopolio che il sesso maschile continua ad avere del potere decisionale nelle istituzioni pubbliche. Non ho mani pensato che la presenza quantitativa potesse produrre di per sé cambiamenti significativi nell’esercizio del potere, e oggi che questa richiesta viene generalmente accolta soprattutto in ambito amministrativo, ne sono ancora più convinta. La ragione è che le donne sono ancora lontane dall’avere un’autonomia di pensiero rispetto ai modelli imposti dall’uomo. Nei luoghi dove è più forte la visione maschile del mondo, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le donne finiscono per assimilarsi, “neutralizzarsi”, o porsi come complemento o “valore aggiunto”, attraverso la messa in campo delle doti femminili tradizionali. Il paradigma domestico, la cura, spostate fuori dalla casa, finiscono per riprodurre complementarità e gerarchie che conosciamo. Così le donne, oltre che curare bambini, malati, anziani e uomini in perfetta salute, cureranno anche il corpo in crisi delle aziende. Tu che hai vissuto da protagonista lo sviluppo del movimento delle donne, come vedi i suoi obbiettivi e il suo ruolo in un contesto sociale assai diverso da quello di fine anni sessanta, quando era nato? Il contesto sociale è cambiato ma si potrebbe dire che sono venuti allo scoperto oggi processi che erano già in atto negli anni ’70. Penso alla modificazione dei confini tra privato e pubblico, alla crisi della politica sempre più separata dalla vita, all’invasività della società dei consumi, alla spettacolarizzazione dell’esistente. Il femminismo è stato allora il sintomo di questi cambiamenti e al medesimo tempo, come intuì lucidamente Rossana Rossanda, “l’embrione di un ripensamento della politica”. A Paestum, un incontro nazionale del femminismo italiano che si è ritrovato 36 anni dopo nel luogo dove si era tenuto l’ultimo convegno degli anni ’70, è stato chiaro a tutte che oggi si può affrontare una crisi, che non è solo economica ma di un modello di civiltà, solo riprendendo le intuizioni radicali degli inizi: “primum vivere” - la vita, i bisogni, ma anche la creatività, e tutte le possibili manifestazioni dell’umano, poste come fine e non come mezzo-, e “partire da sé”, mettere al centro la soggettività, l’esperienza personale, modificare se stessi per modificare il mondo.
da La voce di Romagna
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