Lea Melandri, Come nasce il sogno d’amore

Rosaura Galbiati

A Lea

in preparazione delle prossima presentazione del libro a Milano

 

Riprendo in mano il libro di Lea dopo molto tempo e la sua dedica del 2003 mi rivela con stupore che sono passati 20 anni dalla prima lettura. Non mi sembrava così tanto. Però non è l'unica cosa, e certo non la più importante, che mi dicono le parole della dedica: Lea nomina “strade sotterranee e sogni che ci hanno fatto incontrare”. Mi accorgo che è andata così, anche prima di cominciare a rileggere. È così che ci si incontra attraverso i libri, se poi hai la possibilità e la fortuna di conoscere chi li ha scritti, l'incontro si impreziosisce di una relazione più viva, non solo intellettuale, anche corporea.

Il libro ”Come nasce il sogno d’amore” credevo di ricordarmelo, soprattutto grazie agli interventi successivi di Lea che nei corsi a Cernusco, negli incontri in sede, negli interventi in televisione e negli articoli hanno definito il suo femminismo, dove risultava evidente il suo riandare a questo testo per lei fondamentale, come quelli di Sibilla Aleramo che lo avevano ispirato.

Ho riletto tutto con calma, dandomi tempo, e ho continuato a stupirmi. Intanto ci ho trovato le sottolineature, le frasi gialle di evidenziatore ormai sbiadite, e alcune bicolori, giallo e arancio insieme a rafforzare un'idea che aveva impressionato più di altre. Era facile verificare cosa mi colpiva vent'anni fa, mentre mi chiedevo se le stesse sottolineature le rifarei oggi, quelle lì e non altre, oppure altre e non quelle. Avevo segnato interi frammenti del libro, sia delle parole di Aleramo che di quelle a commento di Lea, forse li avevo anche trascritti da qualche parte come ci insegnava a fare lei durante i corsi: trascrivere e commentare con parole nostre, ma prima, assolutamente trascrivere. Ricordo che qualcuna di noi non ne capiva fino in fondo l'utilità, il perché occorresse farlo, e forse anch'io ho nutrito dei dubbi. Adesso lo so. Adesso che il percorso di rilettura di questo libro diventa un doppio e triplo percorso: nella me di allora, nella vita di Aleramo e in quella di Lea. Mentre rileggo cerco di capire le strade sotterranee attraverso cui ci si incontra con sé stessi, con una donna nata oltre un secolo fa, con le riflessioni di Lea e i cambiamenti che l'hanno portata ad essere quella che è.

Nella prima parte del libro, “I Racconti del gelo”, pensieri buttati giù dal gennaio al marzo 1982 mi incantano: sono parole che arrivano dirette alla mia esperienza, e al cuore, si può dire cuore sapendo di essere capite? Credo di sì. Trovo evidenziate parole lapidarie: l'esperienza dell'abbandono, il gelo, il potere dell'assenza, e frasi intere: “essere tutti e nessuno è l'umanità delle donne e la loro miseria”; ” L'onnipotenza è ciò che gli uomini continuano ad attribuire alle donne perché non cessino mai di essere madri…”.

Parla degli orsi nel gelo Lea, non afferro bene, ma non importa capire, gli animali, soprattutto orsi e lupi io li amo da sempre e mi cattura la loro presenza nelle sue parole. Trovo anche qualche punto di domanda messo a matita, che ora mi sembra impossibile aver segnato, è così più chiaro adesso…

Poi c’è la dedica all'analista che mi commuove, forse perché anch'io ho fatto la mia, a suo tempo.


Quando comincio a rileggere la sezione su Sibilla Aleramo, il corpo principale del libro, sono quasi tutte sottolineature; è la parte più consistente e la più difficile da affrontare, me lo ricordavo. Man mano che leggo mi libero un po’ dal continuo confronto con la lettura del passato, eppure, rileggere serve a far rinascere i pensieri e mi si muove qualcosa nella pancia. Con accenti poetici - che forse non avrebbero ragione di stare in un saggio - le parole di Lea mi toccano nel profondo e capisco che lì c'è qualcosa che com-muove; e a muoversi non è solo il pensiero, anche se Lea confessa che ha sempre fatto muovere più il pensiero delle gambe. Resta l'evidenza che le sue riflessioni sollecitate da quelle di Aleramo, ne fanno muovere altre e forse proprio a questo servono i libri. Dice Lea che i suoi pensieri hanno imparato a viaggiare e anche i miei, ognuno fa le sue strade, ma le strade sotterranee poi si incontrano, come ha scritto nella dedica.

Mi stupisco di non avere sottolineato questa frase: “Se una donna guardasse l'abisso sopra il quale cammina, non costruirebbe più strade per gli altri. Le donne conoscono il dolore e la rabbia per partorire un figlio, ma non quanto basta per partorire sé stesse. Provvedo subito: lo sottolineo e lo evidenzio adesso, con vent’anni di ritardo. Anzi, sarebbe senza dubbio un frammento da trascrivere insieme a quest’altro: “Non conoscevo il calore che danno i pensieri quando hanno radici profonde e i fiori a portata di mano”. Il giorno dopo, 2 febbraio ’82, Lea aggiunge: “Si può scrivere anche per strada quando i pensieri non sono più lacci che stringono i piedi e le mani. Ma se il cuore è una bestia impazzita e non basta una stanza a tenerlo, io i pensieri li annodo e gli faccio una gabbia”.

Anche Aleramo ha cercato per tutta la vita di dar voce a pensieri che molte donne vorrebbero tenere nascosti. Ci sono evidenze, soprattutto nei frammenti dove la sintesi è netta e quindi appare assoluta, di qualcosa che disturba chi legge: lo dichiara Lea e lo sento anch'io. Forse è il motivo per cui nel gruppo ci capitava, leggendo alcune affermazioni, di contrapporre reazioni diverse che andavano da “non capisco” al “capisco, ma non è così” fino al definitivo “non mi piace, posso anche capire però lo rifiuto”.

La riproposizione del tema dell'amore come fusione a due e dell'amore come mancanza è di per sé disturbante, è disturbante quel desiderio che è anche la prima modalità del bambino, le sue intenzioni sul mondo intorno a lui. Riguardo alla mancanza - mi sembra che lo abbiano detto in tanti - io ho in mente le parole di Umberto Galimberti, che cito a memoria: la presenza di un corpo non muove il desiderio quanto l'assenza e anche quando un corpo c'è non si ha mai la sensazione di averlo. Più che un rapporto simbiotico una ricerca precisa, una specie di trascendenza come quella che trapela dal linguaggio dei mistici.

Che l'altro non si lasci assimilare né come corpo né come personalità appare chiaro nell'incontro di Sibilla con Lina, due donne.

Il confronto tra vite che nasce dai libri qui ha per tema l'amore e credo sia impossibile restare indifferenti. Gli scritti di Sibilla Aleramo indagati da Lea si possono disapprovare e forse anche detestare. Sicuramente c'è qualcosa che infastidisce, che ha infastidito anche me pure interessata da sempre ai bisogni emotivi, agli impulsi dei desideri e delle paure, sentimenti complessi e importanti che richiedono una guida interna ed esterna per potercisi muovere e magari districare. Mi sembra che infastidisca di per sé quello che crea dipendenza, sia affettiva che comportamentale. Eppure, dipendenza e indipendenza dovrebbero essere dimensioni compatibili.

Credo che sia vero - è stato già scritto - che l'indipendenza autentica poggia sulla capacità di dipendenza, è un po’ come far sperimentare a sé stessi che c’è sì una soggettività, ma in presenza dell'altro. Più o meno tutti hanno bisogno di un'indipendenza sana perché ce n'è anche una che rigetta la realtà e che si esprime nei termini di ”non ho bisogno di niente e di nessuno”. Una pretesa, un'illusione, una sensazione ingannevole che qualcosa minacci la propria integrità e che a volte rende difficile accettare che nei nostri comportamenti si nascondano timori di separazione, abbandoni e solitudini. Certo la dipendenza affettiva produce il desiderio di fusione e quando si fa di tutto per realizzarlo, arrivano il malessere psicofisico e l'annullamento di sé che accompagnano le relazioni negative.

Lo scrive Lea nel capitolo “E la mestissima libertà”: “l'amore per un uomo e l'amore per un figlio, a volte non sono lontani quanto sembrano, percorsi da una richiesta e da un esito che sono sostanzialmente gli stessi: crearsi una situazione di indispensabilità…”.

Lea chiarisce bene che le caratteristiche della dipendenza sono la difficoltà a riconoscere i propri bisogni e la tendenza a subordinarli a quelli dell'altro. Da lì arrivano inevitabilmente il senso di inadeguatezza e la paura di cambiare e il votarsi al sacrificio. Atteggiamenti tanto più frequenti nelle donne, anche per motivi culturali.

Parlare del sogno d'amore e della dipendenza affettiva obbliga a indagare sui rapporti genitoriali e sull’ accudimento ricevuto e dato. Lea lo fa commentando gli scritti di Aleramo, ma evidenzia anche gli eventuali passi per uscire da un eccesso di dipendenza affettiva legata a stili genitoriali ambivalenti dell'infanzia.

Trovo in Lea quella capacità creativa di riconoscere nei pensieri e nelle parole degli altri sempre nuove connessioni - nessi, come li chiama sempre lei - capaci di far partire qualcosa, di portare a un cambiamento.

Riconoscere di avere un problema, considerare il proprio benessere come prioritario, intraprendere un rapporto terapeutico e frequentare gruppi di auto-aiuto sono passi possibili. Il rispecchiamento consapevole credo sia sempre una risorsa, che avvenga con un terapeuta, con l’altro in un gruppo, o con un libro.

Il libro di Lea è scomodo e prezioso, favorisce la consapevolezza di quello che ci può causare disagio perché - è capitato anche a me - leggendo si possono osservare somiglianze e differenze con la propria vita.

Ho sempre pensato che anche attraverso i libri le persone possono diventare specchi, come succede negli incontri in carne e ossa. Le possibilità sono tante e diverse: incontrarsi, incontrarsi e non riconoscersi, come se quell'altro te stesso fosse appunto un altro, oppure non incontrarsi affatto perché troppo presi da quel che si vuole essere. Non è facile far la conoscenza con una sorta di “straniero interno”.


Pensare che Aleramo è morta nel 1960 quando c'ero e forse già cominciavo a pensare, mi procura una strana sensazione, non la vorrei definire. Se non è autosuggestione, mi sembra di aver sempre fatto come lei, anzi come loro, cercare di conoscermi, di spiegarmi, già molto prima della crisi che mi ha portato a un percorso di analisi di cui sono assolutamente grata. Forse da sola non ce l'avrei fatta.

Adesso anche la scrittura è diventata un modo di continuare a riconoscermi e a impiegare energie per cercare nella creatività una specie di interezza. Anch'io ho cercato di capire e tenere insieme parti diverse e magari mi piacerebbe arrivare alla “mestissima libertà” di cui si parla nel libro.

Alla rilettura ho capito di più, ho ritrovato molto di tutto, e mi sono un po’ liberata di quell’ ”orfanità che si nasconde dietro la potenza materna”; in passato non ho voluto figli, più per un'intuizione di quello che sarebbe stato di me da madre che per una scelta consapevole.


È vero, come dice Lea, che gli scritti di Aleramo, soprattutto i diari e le lettere, mostrano anche “l'uomo che trova il suo equilibrio nella complementarità dei ruoli”.

Più di tutti gli uomini ritratti nel libro mi colpisce Boccioni quando scrive a Sibilla: “ …vi siete cullata in un'ispezione, in un'analisi corrosiva cercando di comunicare ciò che non è comunicabile…. mentre vi scrivo mi vengono a fior di mente mille problemi di vita interna, angosce, possibilità, fusioni, affinità, passione, sacrificio e altre belle cose… butto tutto dalla finestra con disgusto”.

Ci ho sentito, oltre al suo espresso con tanta feroce sicurezza, tanti altri giudizi ancora correnti sul modo di porsi rispetto all'introspezione, verdetti che non provano a capire, ma rigettano l’altro con un una certa sprezzatura e un certo senso di superiorità. Mi piace come Aleramo risponde all'accusa di costruire su sabbie mobili, dice: “cercavo unicamente me stessa”. Credo sia quello che ha fatto anche Lea, che continua a fare e che, nel rispetto di una piena libertà di scelte differenti, forse potremmo fare tutte. E fa niente se, come si chiede Sibilla, che non ha mai smesso di intuire, di dubitare e di alternare lucidità e sogno, ” l'essere desta” può rivelarsi più triste del ”lungo sonno”.

 

Cernusco, 24 maggio 2023

 

 

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