Seminario ‘Il corpo e la pòlis. Il protagonismo del corpo nello spazio pubblico
Primo incontro

Il dominio e l'amore: l'appropriazione maschile del corpo delle donne

Relazione di Lea Melandri


foto di Alexandra Boulat

La proposta di questo ciclo di seminari è venuta da me e da Barbara Mapelli, partendo da una constatazione e da una domanda che crediamo condivisa da molte: le problematiche del corpo, su cui si è mosso il femminismo degli anni ’70, con l’intento di ‘politicizzare’ una materia di esperienza considerata tradizionalmente ‘non politica’  -il corpo, la relazione uomo-donna, la sessualità, il vissuto personale, ecc.-, oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, ha fatto il suo ingresso nella pòlis. Il corpo è in scena, anzi sovraesposto, in tutte le sue manifestazioni, così come sono in scena le donne, che col corpo sono state identificate, e come il corpo incluse nello spazio pubblico attraverso un’esclusione. C’è una evidente femminilizzazione del lavoro, della politica, della comunicazione, sia nel senso di presenza numerica delle donne, sia di utilizzo di qualità, competenze ritenute ‘naturalmente’ femminili. E’ questa la politicizzazione della vita personale che indicavamo con le nostre pratiche? No, e per tante ragioni che provo a indicare.

Noi interpretavamo la nascita della soggettività femminile alla pòlis come uscita da tutti i dualismi, che sono andati confusi con l’opposizione e la complementarietà dei ruoli del maschio e della femmina. Interrogavamo, in sostanza, l’atto fondativo della politica, che poggia su questa scissione originaria: corpo e linguaggio, natura e storia, individuo e società, particolare e universale, casa e città, ecc. Portare nello spazio pubblico il polo cancellato, voleva dire cominciare a leggere la realtà per nessi, anziché per opposizioni o riunificazioni obbligate su un versante o sull’altro (che è l’impianto di ogni dialettica fin qui conosciuta). Quello a cui assistiamo oggi invece si può interpretare come emancipazione del corpo, della sessualità, della donna, della vita intima, in quanto tali. E questo, purtroppo, per chi ha conosciuto finora solo esclusione o repressione, può essere di per sé appagante. In altre parole, vuol dire che il corpo compare sciolto da alcuni vincoli, ma portando comunque i segni della scissione che ha subìto: più libero, ma pur sempre ‘oggetto’, sottoposto al controllo dei massimi poteri (Stato, Chiesa, scienza, mercato, media). E’ il ‘corpo merce’, il ‘corpo biologico’, il ‘corpo immagine’, la ‘nuda vita’, ma non il corpo pensante che era nel nostro intento e nelle nostre pratiche. Sotto un altro aspetto, non meno deformante, quello che si prospetta è l’amalgama dei due poli  -la casa e la città che si divorano a vicenda. Di questo impasto è fatta l’antipolitica e, in particolare, quel suo frutto molto pericoloso che è il populismo.

 

Il dualismo dunque oggi è allo scoperto, ma conserva i tratti con cui lo abbiamo ereditato: quelli prodotti dalla complementarietà e subordinazione di un polo all’altro, e dalla conseguente spinta alla riunificazione, o inglobamento, sull’una o sull’altra sponda. A questo impianto antico e particolarmente duraturo della storia umana, non è sfuggito neppure il femminismo, nonostante fosse partito con un assunto radicale: modificazione di sé e del mondo, riattraversamento delle “acque insondate della persona” (Rossanda) per arrivare a costruire una “cultura altra, antagonista” rispetto a quella dell’uomo, “che non la completa, ma la mette in causa”, sovvertendo isituzioni finora “finalizzate a un sesso solo”. La domanda dunque è: se oggi, che la cultura femminista avrebbe tanto da dire, è così silenziosa, non è forse perché non siamo riuscite a dar seguito a quelle pratiche che miravano a uscire da ogni tipo di contrapposizione dualistica? Pensiamo, per esempio, al rapporto vita e politica, sessualità e politica, persona e società, corpo e legge, ai ‘nessi’ che volevamo trovare e che ancora appaiono così lontani.

Le nostre pratiche più radicali, quelle che indicavamo con lo slogan “partire da sé”, sono state abbandonate troppo in fretta, forse perché, portarle nella vita pubblica, nelle sue istituzioni, avrebbe comportato aprire conflitti difficili da sostenere, o forse perché ci sono ancora nodi profondi, nel rapporto delle donne con la visione del mondo maschile, che non abbiamo indagato abbastanza. Un rinato movimento femminista, con una forte componente generazionale nuova, ha portato allo scoperto negli ultimi anni i dati allarmanti sulla violenza manifesta che si consuma tra le mura domestiche, per mano di mariti, figli, padri, fratelli. Si è tentato, con manifestazioni, prese di posizione, di farne un problema politico di primo piano, in quanto prodotto di un potere che tiene oppressa metà dell’umanità. Eppure, dopo un’iniziale attenzione, la violenza maschile contro le donne è tornata ad essere, nell’informazione, solo cronaca nera. Questa cancellazione la dice lunga sulla protervia della cultura maschile dominante nel nostro paese, ma dovrebbe anche far riflettere, purtroppo, sulla subalternità intellettuale delle donne che oggi si muovono sulla scena pubblica con qualche ruolo di potere. Non serve una massa critica perché una, due, tre giornaliste o parlamentari si prendano la responsabilità di denunciare il vergognoso silenzio su quella che è da secoli la prima delle ‘emergenze’. Serve il coraggio e la scelta di mettere a rischio anche un avanzamento di carriera o il posto di lavoro, serve la forza di disobbedire o di contrastare l’imposizione di un caposervizio, di un dirigente di partito. Ma questo non avviene, e allora si fa strada il dubbio: forse non si tratta di resa al comando del più forte, ma di consenso, condivisione, più o meno consapevole, della stessa visione delle cose.

E’ da qui allora che bisogna ripartire e chiedersi se la facilità con cui le donne, una volta insediate nella sfera pubblica, fanno propria la lingua, la cultura, le logiche di potere, che le hanno escluse, non abbia radici che affondano nel privato, nei legami più intimi; se abbiamo davvero spinto le nostre analisi in quella “materia segreta” che è imparentata con l’inconscio e dove le “acque si confondono”. Per tornare al problema della violenza, non è vero che ‘si uccide per amore’, è evidente tuttavia che l’amore c’entra, che forse è proprio l’amore, apparente “tregua”alla guerra dei sessi, come scrive Pierre Bourdieu nelle ultime pagine del suo libro, Il dominio maschile (Feltrinelli 1998) “la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile” della violenza simbolica.

“L’amore è un’eccezione, la sola, anche se di prima grandezza alla legge del dominio maschile, una messa tra parentesi della violenza simbolica, o la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile, di tale violenza?”
In questa sorta di “tregua miracolosa” , che è “l’isola incantata dell’amore”, il dominio sembra dominato, la violenza virile pacificata e civilizzata, cosicchè possono instaurarsi rapporti fondati sulla piena reciprocità. Nonostante il dubbio iniziale, Bourdieu sembra poi propendere per questa ipotesi: l’ “amore puro”, la fusione che permette agli innamorati di “perdersi l’uno nell’altro senza perdersi” esisterebbe, soprattutto nelle donne.


Negli anni ’70, la grande svolta del femminismo rispetto alle lotte di emancipazione che l’avevano preceduta, è stata quella di spostare l’attenzione dalla sfera pubblica al privato, di capire che l’ “espropriazione di esistenza” delle donne cominciava da una sessualità negata e confusa con la funzione generativa. Ha preso avvio allora un processo di riappropriazione del corpo, che ha interessato, oltre alla sessualità, la salute e la maternità, anche se vista soltanto come libertà di scelta  -la questione dell’aborto-, e non per le implicazioni profonde che legano l’esperienza originaria della fusione con la madre, al desiderio di appartenenza intima a un altro essere, quale si ripropone nella coppia adulta. E’ stato certamente un grande passo avanti, nella coscienza storica, rendersi conto che il dominio maschile non passa solo attraverso l’esercizio del potere –leggi, istituzioni, saperi-, ma per aspetti meno visibili della vita e delle relazioni personali, scoprire che la libertà per le donne è, prima di tutto, ‘libertà di essere’, un tema, come disse allora Rossana Rossanda, “irrisolto nel giuridicismo delle nostre democrazie: la questione della inalienabilità della persona. Esse sanno che la persona resta violata al di là delle dichiarazioni di diritto: dalla miseria, dal comando, dalla ideologia, da quella proiezione dell’oppressore che stinge anche all’interno di noi”. (R.Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1978).

Oggi, con una visione di insieme che abbraccia entrambi i poli di una dualità che ha perso via via confini e differenze, verrebbe da dire che occorre un’altra svolta, per certi versi più ‘spudorata’ e più ‘oscena’, se è vero che ‘fuori scena’ sono oggi i sentimenti, le emozioni, la memoria del corpo in ciò che trattiene di più remoto e di impresentabile. Resta da chiedersi quale “alienazione profonda dell’Io” passa attraverso l’amore, così come lo abbiamo conosciuto, teorizzato e insegnato dall’uomo, e dalla donna stessa, che si è fatta tramite della rappresentazione maschile del mondo. Dell’appropriazione che l’uomo ha fatto del corpo femminile, si è ragionato finora quasi esclusivamente in termini di violenza, sfruttamento, controllo; del dualismo sessuale si è visto soprattutto il privilegio maschile, molto meno l’aspetto seduttivo dell’amore come luogo di una ideale ricomposizione di parti disgiunte e complementari, la realizzazione di un desiderio ‘preistorico’, il modello di ogni felicità. Parlare di “possesso” in termini amorosi ha, almeno all’apparenza, un significato molto diverso da quando lo applichiamo al potere.

“Possedere e essere posseduti  -scriveva Paolo Mantegazza in un libro molto amato dal pubblico femminile,  Le estasi umane (Paolo Mantegazza editore, Milano 1887)-, formula prima ed ultima, scheletro psicologico di ogni amore”. E aggiungeva, a sostengo della sua affermazione, l’esempio dell’abbraccio, tanto più appassionato quanto più la donna ha “piedi piccoli, piccole mani”, vita stretta, mani che scompaiono nella mano dell’uomo, e che assicurano un “assorbimento completo”.

Nella “fusione amorosa” gioca una parte ambigua l’apparenza della “reciprocità”  -“rapiti e rapitori”-, che impedisce di vedere chi è realmente il soggetto dell’appropriazione e di come il ‘far proprio’ si traduca in assimilazione, ‘riduzione al medesimo’.  Da questo punto di vista, più esplicito era stato Jules Michelet (L’amore, 1858, Rizzoli 1987 ), un altro adoratore delle madri, più sottilmente e violentemente misogino di chi, come Otto Weininger ha svelato, pagando giovanissimo con il suo suicidio, la follia sessista e razzista insita nella cultura occidentale. “La donna si impregna nell’intimo, si compenetra dell’amato fino a diventare lui”, “intuisce che l’amerai di più, sempre di più se diventa tua e te stesso”. La reciprocità è l’effetto illusorio che viene dalla sovrapposizione immaginaria tra nascita e coito, dal capovolgimento che sembra far rivivere, nella “diade amorosa”, come scrive in tempi molto più vicini a noi Bordieu, un “creatore”, non più “Pigmalione egocentrico e dominatore”, ma “creatura della sua creatura”. Sulla presa che ha ancora questa rappresentazione ambigua della madre, che nell’amore si farebbe figlia, creatura debole “per natura”, desiderosa di protezione, pronta a negarsi per rivivere nell’altro e attraverso l’altro, sia esso marito, figlio o amante, non si è riflettuto abbastanza. Allo stesso modo, stentano ad arrivare alla coscienza gli aspetti diversi, contraddittori che si mescolano confusamente nel sogno d’amore: la memoria del corpo – i segni che lascia la vicenda originaria-, la nostalgia dell’uomo-figlio di ricomporre in armonia ciò che la sua ‘civiltà’ ha separato, e il dominio dei padri che hanno non solo sottomesso, violato, sfruttato il corpo femminile, ma fatto passare per amore il sacrificio di sé della donna, chiamata, come si legge nell’Emile di Rousseau, “a vivere in funzione degli uomini”.


Siamo sicure di aver sbrogliato questo annodamento perverso di amore e morte, mascherato dall’illusoria ricomposizione di un intero, di cui il femminile e il maschile rappresenterebbero solo le due parti complementari e indisgiungibili? Quanto è ancora forte e inconsapevole quello che Virginia Woolf , nel saggio Una stanza tutta per sé, chiama “un profondo, benché irrazionale istinto a favore della teoria che l’unione dell’uomo e della donna provoca la massima soddisfazione, la felicità più completa”? La mente androgina, l’uomo-femmina, non è solo un mito della cultura maschile, se Sibilla Aleramo, lucida coscienza femminile anticipatrice, può dire di sé, della sua ricerca di un’autonomia dell’individualità femminile: “Mi riconosco incompleta, come Adamo prima che Eva gli sorgesse al fianco, come l’innamorato nel mito platonico.” La femminilizzazione del lavoro non parla ancora il linguaggio della complementarietà? Non è leggibile in questo senso anche il “pensiero della differenza” che costruisce in parallelo le identità di genere, così come le abbiamo ereditate, limitandosi a “risignificarle” positivamente e a ribaltarne la gerarchia, per cui viene portato in auge il regno delle madri, sia pure come “ordine simbolico” usurpato dai padri?

Quanta strada c’è ancora da fare nella ‘costruzione di sé’ delle donne? Quanto è ancora lontana la loro “libertà di esistere” ? Che posto occupano nel nostro percorso di liberazione le leggi  i diritti,la difesa di elementari principi costituzionali? Siamo ancora convinte che per la donna l’ “alienazione della persona” passa, prioritariamente, dall’espropriazione del corpo, delle sue energie fisiche, psichiche, intellettuali, dal suo essere sempre e comunque “rigeneratrice” dell’altro sesso, complemento della loro traballante ‘civiltà’? Quanto suona ancora attuale quanto si leggeva in un documento, del 1974, del Centro della Salute della donna, di Padova: “strumento di lavoro domestico, di riproduzione materiale e cioè fisica, affettiva e sessuale del marito, e di riproduzione biologica dei figli”?

Siamo sicure di non aver abbandonato troppo in fretta la pratica dell’autocoscienza, la forma che ha preso il discorso del femminismo sul corpo e sulla sessualità  -come ha scritto Manuela Fraire (Lessico politico delle donne. Teorie del femminismo)-, e che come tale non si chiude di certo con un’epoca? Non si tratta di riproporla oggi negli stessi termini, tanto più che ormai la vita personale è divorata dal discorso pubblico (della medicina, della legge, dello spettacolo, ecc) e non si può quindi prescindere dal cercare ‘nessi’, ma basterebbe riconoscere che, senza un ancoramento a domande che vengono dal ‘vissuto’ di ognuna, il discorso si fa inevitabilmente astratto e poco convincente, molto simile all’ozioso ripetitivo dibattito mediatico della politica maschile.

E’ solo tornando a far attenzione a quel corpo pensante che siamo, segnato dalla falsa ‘naturalità’ delle forme e dei ruoli che l’uomo gli ha dato, identificabile per la sua singolarità irripetibile, ma anche da ciò che si porta dentro di universale, che possiamo sperare in una appropriazione del nostro essere più autonoma dai modelli interiorizzati.

 

11-11-2008

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