Fuori dalla palude del rancore
di Lea Melandri


In tempo di facili, quanto astratte, contrapposizioni  - noi e gli altri, i giusti e i corrotti, la civiltà e la barbarie- sono doppiamente apprezzabili le analisi che riescono a descrivere al medesimo tempo la profondità del male e le tracce di nuove possibili convivenze che, sorprendentemente, si profilano sullo stesso terreno. Per capire i mutamenti prodotti dall’ “apocalisse culturale” che ha cancellato i confini tra individuo e società, economia e politica, quotidiano e mondo, immaginario e reale, destini dell’uomo e della donna, occorre  -scrive Aldo Bonomi nel suo ultimo libro Sotto la pelle dello stato  (Feltrinelli 2010)- “mettere al lavoro il proprio “sentire”, con tutti i rischi del caso”.

Categorie del “sentire” sono quelle già indicate nel sottotitolo: “rancore, cura, operosità”. Nel momento in cui si dissolvono i legami che per un secolo hanno strutturato le relazioni sociali, la partecipazione  politica e l’azione collettiva  -lo stato, la nazione, la classe, il partito, il sindacato, ecc.- a venire allo scoperto è una moltitudine di singoli, esposti “al cortocircuito tra immaginario dei flussi e pulsioni basilari dell’uomo”. Le ricadute della globalizzazione sui luoghi della vita quotidiana, la scomposizione del lavoro in una miriade di impieghi, la comparsa di figure sociali sempre più “fragili”, muovono paure, insicurezze, spaesamento, bisogno di protezione, e conseguente ripiegamento su identità e appartenenze pre-politiche.
La “psiche individuale”, per una sorta di rivoluzione copernicana, diventa così il campo attraverso cui passano tensioni politiche di un’epoca sospesa tra rancorose chiusure verso il nuovo che avanza, e prefigurazione di forme comunitarie più libere e più aperte che in passato.
L’espressione “comunitarismo libertario”, che Bonomi usa per indicare i nuovi legami sociali che si intravedono all’orizzonte, sembra riferirsi ai movimenti che negli anni ’70 hanno messo al centro delle loro pratiche la consapevolezza della “politicità” della sfera personale. “L’ipermodernità, epoca di una vera e propria “apocalisse culturale”, sta destrutturando le forme tradizionali di convivenza e integrazione sociale (famiglia, vicinato, comunità di paese), lasciando una scia di spaesamento e anomia (…). Occorre esercitare un’archeologia di pratiche di saperi che rimandano a quel comunitarismo libertario e alle sue deboli tracce nei comportamenti collettivi”. Ma, isolato nel contesto complessivo del libro, il richiamo ai movimenti libertari finisce, al contrario, per essere rivelatore di ciò che manca in una analisi che, pur nella sua originalità, resta essenzialmente ancorata a categorie economiche e sociologiche.

L’attenzione a tutto ciò che la politica continua a considerare “altro da sé”, salvo farne all’occorrenza un uso spregiudicato, induce  a trovare analogie, riprese dei temi che hanno attraversato la dissidenza giovanile del ’68 e soprattutto il femminismo. Ma altro è riconoscere la modificazione dei confini tra privato e pubblico, l’affermarsi di nuove priorità  -l’individuo, la vita psichica, il quotidiano, il territorio, i sentimenti, il desiderio di partecipazione-, altro è portare alla coscienza, “partendo da sé”, dal vissuto personale, la storia “naturalizzata” del rapporto tra i sessi, della scissione tra corpo e pensiero, natura e cultura, individuo e società. Da questo “salto” della coscienza storica sono nati saperi, modi di agire, relazioni, forme di socialità che hanno messo in discussione non solo il rapporto uomo-donna, ma più in generale un ordine esistente modellato sulla volontà di un sesso solo. Se la cultura prodotta dal movimento delle donne non fosse stata rimossa o ignorata anche dalla migliore intellettualità di sinistra, si capirebbe che non basta riconoscere il protagonismo che sono andate assumendo categorie ritenute finora “non politiche”, se si tralascia la riflessione critica che su di esse è stata fatta a partire dagli anni ’70.

Limitarsi a registrare la “femminilizzazione” dello spazio pubblico – come dimostrerebbe il prevalere della moltitudine sulla classe, dell’individuo sulle istituzioni, del territorio sulla fabbrica, di “interessi piccoli e freddi” sulle grandi ideologie-, vuol dire far posto nell’analisi del contesto economico, sociale e politico, al polo che ne è stato escluso, ma senza vedere i nessi che ci sono sempre stati tra una sfera e l’altra, le gerarchie, le logiche di potere che le hanno attraversate.

Separando astrattamente la casa e la polis, il corpo e il pensiero, il dominio maschile ha esteso enormemente il destino della donna. Se “territorio” e “comunità” sono, come dice Bonomi, parole “pesanti, da maneggiare con cura”, è perché portano il segno dell’esclusione, dell’asservimento, dell’insignificanza, dell’invisibilità che è toccata in sorte a tutti gli aspetti dell’umano identificati col “femminile”. Come si può pensare di metterle al centro di un “fare società” innovativo delle forme di aggregazione finora conosciute, senza partire dalla nascita dell’individualità femminile, dalla messa in discussione dei ruoli e della divisione sessuale del lavoro, senza dire che la cura è stata fin dall’origine della civiltà destino “naturale” della donna, dono incondizionato di sé, espropriazione di vita propria?

La mancata attenzione al pensiero critico e ai cambiamenti prodotti dal femminismo nell’idea di società, di economia e di politica, ha riflessi evidenti sia nel modo riduttivo con cui viene posta nel libro la questione dei sessi –il femminicidio, la donna vittima di violenza, accomunata come tale ad altri “soggetti deboli” (il povero, il matto, il senza tetto, l’anziano solo)-, sia sulla difficoltà a svincolare la “cura” e “l’operosità” dalla forza pervasiva dell’iperindustrialismo e dal ripiegamento rancoroso verso “localismi produttivi e identitari”.

 “La società diventa accessoria al mercato. Ne emerge una sorta di iperindustrialismo con la fabbrica che, diffondendo sul territorio le sue reti e attività, si “mangia” l’ambiente circostante: paesaggio, rapporti sociali, comunità. Con una scomposizione del diamante del lavoro in una miriade di lavori, di lavori autonomi, di lavoro artigiano, sommerso, in filiera o  disperso (…) oggi il capitalismo è dentro di noi, nel senso che siamo diventati imprenditori di noi stessi per stare sul mercato, per consumare, per sopravvivere. Tempo di vita e tempo di lavoro, prima formalmente separati, si compenetrano sempre più”. “Non possiamo dimenticare le vite di coloro per i quali l’essere ancorati al territorio, allo spazio finito delle reti familiari, della cerchia ristretta del paese o del quartiere, è una condanna (…) o la società cosmopolita sarà anche comunitaria o semplicemente non sarà”:
Come si può pensare che sia la dialettica virtuosa tra “flussi e luoghi”, tra “società cosmopolita e vita quotidiana” ad aprire la strada a legami comunitari immuni dal virus del familismo, della logica amico-nemico, della ricerca del capro espiatorio, quando a confondere gli orizzonti del paese e del mondo è l’assorbimento della vita intera  -affetti, sentimenti, passioni, sogni- dentro il ciclo produzione-consumo? Se il rapporto capitale-lavoro è fuoriuscito dai cancelli della fabbrica e si è esteso tanto da penetrare nell’interno delle case e persino nell’immaginario dell’individuo, non è forse perché viene oggi allo scoperto il dominio che la sfera pubblica ha sempre esercitato sulla “nuda vita” –sui corpi, sulla psiche, sulla sessualità, sugli affetti- sfruttandola, controllandola, violentandola, uccidendola, relegandola nella funzione biologica, riproduttiva, come una qualsiasi altra “risorsa” naturale?

L’insignificanza storica che ha contraddistinto per secoli non solo il ruolo della donna ma aspetti essenziali dell’umano  -come la nascita, la morte, la crescita, l’accudimento, l’amore, la sofferenza-, se non viene vista come la conseguenza del rapporto di potere che ha contrapposto un sesso all’altro, è destinata a perdurare al di là della perdita dei confini tra privato e pubblico.  Non si spiega altrimenti perché la diffusione che hanno oggi le “comunità di cura” e le “comunità operose” –un’azione collettiva a largo raggio, che coinvolge professionisti, piccoli e medi imprenditori, istituzioni pubbliche, cooperative sociali, volontariato-  stenti tanto a prendere il rilievo e la visibilità che merita. Né si può considerare ragione valida l’assenza di una “comunità politica” capace di dare una adeguata rappresentanza al sommovimento che viene dal basso, come desiderio di partecipazione e di democrazia radicale.

E’ vero, come scrive Bonomi, che “tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila il panorama del populismo italiano si è arricchito di nuovi attori, in parte politici, in parte sociali e di movimento, referenti di ceto medio, la cui volontà partecipata rappresenta la vera novità”. Ma è anche vero che questo sussulto di democrazia riconsegnata ai cittadini se, per un verso, si oppone alla politica tradizionale, per l’altro non sembra aprire conflitti là dove i rapporti di lavoro si rivelano sempre più improntati a uno sfruttamento intensivo, perdita di diritti e di protezione sociale. Per non parlare della “conciliazione” tra cura della famiglia e lavoro extradomestico che ancora viene considerato “problema della donna”.

Dovrebbe essere proprio lo spegnimento della conflittualità, che accompagna la “femminilizzazione” della polis, a far nascere il dubbio che l’uscita da dualismi secolari avvenga oggi come inclusione nella sfera pubblica di quel polo complementare e subordinato che ne era stato messo al bando. E quindi senza una modificazione sostanziale degli stereotipi di genere che hanno strutturato ogni forma di potere, e purtroppo anche i legami d’amore finora conosciuti.

 

Aldo Bonomi,
Sotto la pelle dello stato. Rancore, cura, operosità,
Feltrinelli, novembre 2010,
pag.192, €14

 

pubblicato da Gli altri del 19 dicembre 2010

 

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