Un partito e il ‘suo’ giornale

di Lea Melandri


La ‘vertenza’ che si è aperta tra Liberazione e il Prc pone, oltre al problema occupazionale di redattori e collaboratori, una domanda politica che riguarda entrambi i soggetti: quali rapporti tra un partito e il ‘suo’ giornale? Se l’esigenza di fondo è quella di rinsaldare un vincolo di appartenenza tra le molteplici componenti del partito, offrire al di fuori un profilo ideologico riconoscibile, in tutto aderente al dibattito interno,  non serve un giornale, e tanto meno chiedere a un gruppo di redattori di farsi semplici portavoce di idee altrui. Per questo basta un notiziario o un bollettino: costa meno e può essere affidato a una delle tante commissioni elette dal partito stesso. Se si vuole invece avere un quotidiano, come spazio aperto a tutto ciò che si muove attorno, nella società  - a ciò che conferma la bontà della propria azione e a ciò che la contraddice-, allora è necessario riconoscerne l’autonomia, disporsi ad affrontare rapporti che possono essere conflittuali, aspettarsi cambiamenti e imprevisti.

Non so se è questo il ‘giornale-partito”, di cui parla Piero Sansonetti; preferirei pensare semplicemente che è un luogo di passaggio, un ponte tra forme organizzate della politica, inclini per loro natura a chiudersi, e la massa sterminata delle persone a cui si vorrebbe fare arrivare la propria voce, sapendo che è proprio in quel crocevia, fatto di incontri e scontri, consensi e dissensi, che si costruisce un agire collettivo efficace, perché calato nella molteplicità dei linguaggi, delle esperienze, dei contesti sociali. Non mi nascondo che anche questa scelta va incontro a difficoltà: i militanti del partito non lo comprano, perché li rispecchia troppo poco; i lettori esterni, per la ragione opposta: perché, pregiudizialmente, considerano scontata l’obbedienza alla linea del partito che gli sta dietro. Il risultato è che si resta inceppati, a metà strada tra un’autonomia che stenta a farsi riconoscere e un richiamo all’ordine e alla fedeltà, sempre insoddisfatto e quindi causa di risentimenti e di disaffezione.

Un giornale dovrebbe assomigliare più a una piazza che a una stanza chiusa, abituarsi all’ascolto e alla dissonanza delle voci, prima di allacciare i fili di un discorso, diventare il crogiuolo di idee, di iniziative di cui ha bisogno una società per farsi più consapevole e responsabile di se stessa e del mondo in cui vive. Nella situazione attuale, fatta di una molteplicità di attori, estesa e differenziata quanto lo sono i luoghi, le esperienze, le contraddizioni della vita quotidiana, il pericolo maggiore è lasciar crescere la voglia di un capo, di un nume tutelare, di un’autorità salvifica, qualunque essa sia. Nella scuola, nelle politiche sociali, nell’amministrazione delle città, non si sta facendo fuori l’eredità deprecata del ’68, ma l’idea stessa di educazione, formazione, incivilimento: in altre parole, la possibilità di costruire una coscienza e un’azione collettiva, secondo principi di equità, giustizia sociale, libertà. Fenomeni che possono imbarbarire anche la più democratica delle società  -come la xenofobia, il razzismo, la misoginia e l’omofobia- non si combattono solo innalzando cartelli per dire “No”, ma attraverso un processo formativo lento e paziente, a partire dall’infanzia, che non disdegni di scavare a fondo nelle storie personali e nelle contraddizioni che le attraversano.

Ormai, queste incursioni nei sentimenti, nelle fantasie, nei bisogni e nei nodi irrisolti della vita psichica dei singoli, le fanno solo i media, in particolare la televisione e la pubblicità: una colonizzazione fatta di stereotipi violenti o banali, lontano da ogni preoccupazione educativa.
Eppure il nostro non è un Paese assuefatto, indifferente, arreso. Ci sono segnali di dissenso e di ribellione crescenti, che non nascono dal niente: dietro c’è un lavoro sotterraneo, reticolare, ancora troppo segmentato per trovare momenti ampi ed efficaci di convergenza, un’onda che sommuove la superficie senza riuscire ancora a darsi una rappresentazione propria e visibile.

Come si fa a non riconoscere la posizione privilegiata, preziosa e indispensabile, che può offrire in questo momento un quotidiano, visto come luogo di una collettività consapevole e combattiva che si va costruendo, come punto di incontri e conflitti necessari alla crescita di un movimento più solido e duraturo di quelli che abbiamo conosciuto finora? Per un partito, che sostiene economicamente e politicamente il ‘suo’ giornale, non si dovrebbe porre l’alternativa o sparire o sostituirsi al gruppo redazionale, quanto piuttosto cogliere l’occasione per muoversi tra le presenze ‘altre’ e diverse, note e sconosciute, che affollano il giornale, senza paura di perdersi.

Questo articolo è uscito su Liberazione dell' 1 ottobre 2008
 

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