Una città di uomini e donne

Lea Melandri

 

Non si può parlare della “città”, delle sue istituzioni, della sua stessa conformazione urbanistica, dei suoi spazi, orari, reti di comunicazione, senza tenere conto dell’asse che l’attraversa e che tutt’ora, nonostante il venire meno dei confini tradizionali, divide sfera privata e sfera pubblica. Se ne deduce che un progetto formativo che voglia costruire “sapere, educazione, conoscenza”, non può prescindere dalla messa a tema di quella che è stata storicamente la separazione tra la casa e la polis, la famiglia e la società, in quanto divisione sessuale del lavoro, identità (destino ‘naturale’) dell’uomo e della donna, subordinazione della conservazione della vita al sistema produttivo.

E’ interesse e competenza di chi governa la città preoccuparsi dei problemi formativi ed educativi attraverso i quali nasce  l’idea di “cittadinanza”, il senso di appartenenza e il desiderio di partecipazione alla vita collettiva. L’esclusione storica del sesso femminile dalla sfera pubblica, e quindi da elementari diritti di conoscenza e di esercizio del potere, è il frutto di una cultura maschile tutt’ora dominante in quelli che sono i fondamenti materiali e simbolici della scuola: la stragrande predominanza di insegnanti donne in tutto il ciclo che va dagli asili nido alle scuole superiori; la svalutazione dell’insegnamento, visto come occupazione femminile, lavoro a metà tempo fatto per conciliare il ruolo di maestra con quello di moglie e madre; i contenuti e i linguaggi dei libri di testo, improntati ai tradizionali stereotipi del maschile e del femminile; l’assenza di una educazione dei sentimenti, da intendersi come presa di coscienza dei modelli e dei ruoli che sono stati tradizionalmente imposti a un sesso e all’altro, di come modificarli.

L’educazione alla cittadinanza comincia dalla prima infanzia, dagli asili nido, dai rapporti che il nuovo nato intrattiene con le persone che si prendono cura di lui. Non è indifferente perciò il fatto  che, in un passaggio così essenziale nella vita di un individuo,avente al centro il corpo, le sue pulsioni, la sua percezione del mondo, entrino a pieno titolo sia uomini che donne. Considerando la violenza che ancora si registra nell’ambito domestico (stupri, omicidi di donne, maltrattamenti di bambini), è alla scuola che si deve chiedere la maggiore attenzione alla relazione tra i sessi e tra adulti e bambini, l’abitudine all’ascolto dell’ esperienza particolare di ognuno e l’esercizio della riflessione collettiva, consapevoli che nella vita personale c’è una parte enorme di “storia non registrata”, ancora da indagare e da nominare.

Per avviare un ciclo virtuoso tra scuola e famiglia, evitando che continuino ad accusarsi a vicenda del disagio giovanile, è necessario che questi temi, lasciati in una irresponsabile dimenticanza o rimozione, siano messi al centro delle politiche culturali di un Comune, riconosciuti nella trasversalità che hanno in tutte le decisioni, in tutti gli ambiti organizzativi e programmatici che riguardano la città.
 A un Sindaco che voglia invertire la rotta dell’imbarbarimento a cui stiamo assistendo, e di cui abbiamo un esempio eclatante nelle vicende che vedono oggi coinvolto il Presidente del Consiglio, si chiede una parola pubblica che tolga la questione uomo-donna dall’occasionalità e strumentalità con cui viene di volta in vota alla ribalta, per essere subito accantonata. Per avviare nella scuola un processo educativo a questo riguardo, o per valorizzare il lavoro che già fanno nelle loro classi alcuni insegnanti, è indispensabile che siano la cultura e la politica per prime a fare della critica al sessismo uno dei loro compiti prioritari.

Milano ha conosciuto negli anni Settanta l’esplosione di un movimento non autoritario nella scuola che andava dagli asili autogestiti ai controcorsi nati dalla dissidenza degli studenti nelle università. Portare l’attenzione sul corpo  -e cioè su una materialità di condizioni sociali, sessuali, culturali passate tradizionalmente sotto silenzio dalla cultura dominante- significava ridefinire i confini della polis, l’idea stessa di cittadinanza, riconoscere nelle prime prove di socialità dei bambini l’embrione della futura convivenza tra adulti. Se è vero che dietro la passività, l’obbedienza e il consenso estorto con gli interventi repressivi di un’educazione autoritaria, si nasconde una “società violenta, tra il fascista e il mafioso”, rapporti regolati dalla forza e dalla prepotenza (L’erba voglio, Einaudi 1971), la politica non può che cominciare da qui, dal punto in cui si origina il degrado sociale. Ogni discorso sulla sicurezza delle città suona falso, quando non si accompagna all’analisi e alla presa in considerazione delle ragioni prime da cui nascono i pericoli reali o immaginari.

Dei movimenti che avrebbero potuto aprire la strada a una rivoluzione dei rapporti tra individuo e collettività, sfera personale e sfera pubblica, uomini e donne, sono rimaste solo alcune tracce: manifestazioni che tornano a riempire di tanto in tanto strade e piazze, associazioni, gruppi, comitati che non hanno mai smesso di prospettarsi un’alternativa. Perché potessero diventare visibili e ed estendersi, sarebbe stato necessario  il sostegno di un’assunzione pubblica di responsabilità, sia da parte dei mezzi di informazione, sia da parte di chi ha il compito di governare interessi e buone relazioni tra i cittadini. Si può solo sperare che la presenza di molte donne nelle liste elettorali che hanno come candidato sindaco Giuliano Pisapia sia il segno che qualcosa sta cambiando in una  popolazione che sembrava ormai rassegnata al peggio.

 

19-04-2011

 

 

home