Alchimia dell'impuro

Conversazione con Ermanna Montanari



Lea

I lavori del Teatro delle Albe suscitano sempre in me un coinvolgimento emotivo profondo, un abbandono al piacere che si prova solo da bambini ma, dovrei anche aggiungere, un’affettuosa riconoscente invidia. Tu e Marco siete riusciti a mettere in scena, o, come dite spesso, a “mettere in vita” quell’origine contadina  -il dialetto, la terra, le voci e i gesti di vecchie famiglie patriarcali- che nella mia esperienza sembra essersi inabissata, quando sono fuggita dal paese. Tutta la vostra ricerca è all’insegna della ‘contaminazione’, del meticciato, di una coraggiosa alchimia che può tenere insieme elementi diversi: l’italiano, il dialetto romagnolo e il wolof degli attori senegalesi, che sono con voi da anni; frammenti di testi classici e improvvisazione; l’idea del drammaturgo e la scrittura che vive attraverso i corpi; il paese d’origine e le città del mondo, dove siete stati a portare la vostra “testardaggine asinina”, la convinzione di poter cambiare qualcosa, “piantare il melo anche se scoppiano le bombe”. E’ questo “teatro impuro”, che fa giocare insieme i vivi e i morti, i drammi della storia e le tempeste dell’anima, ad affascinarmi, forse perché un po’ mi appartiene.

Ermanna

La definizione ‘impuro’ è la risposta alla domanda cosa significa essere nel mondo facendo teatro. Il teatro non è qualcosa che si fa sul picco di una montagna, sotto una campana di vetro, non riguarda solo l’estetica. E’ anche una questione di etica. La purezza dell’artista, quando abbiamo cominciato, alla fine degli anni ’70 era una parola-slogan, per dire che l’artista deve ‘tenersi fuori’, mentre noi volevamo essere nella pòlis, e la pòlis ha delle ‘impurità’. Se sei un artista che vuole essere in relazione col mondo, in qualche modo ti devi ‘sporcare’, devi impastare le mani. Noi oggi, a differenza del passato, abbiamo un teatro, un luogo di ritrovo e quindi anche rapporti con le istituzioni. Lo spettacolo è l’apice di una vita, il teatro comincia prima, succede all’interno di una città, delle sue relazioni politiche. Non ci siamo mai riconosciuti in un partito, piuttosto in un’idea gandhiana, francescana: ‘politica’ con sette ‘t’ per dire che molteplice è il modo di essere nel mondo.

Lea

Questo per quanto riguarda la pòlis, ma la contaminazione che mi interessa di più è quella che ti ha permesso di traghettare l’origine, la memoria che il corpo si porta dietro da quegli inizi, in un ambito così esteso, come le città del mondo.

Ermanna

Il ‘locale’, il dialetto romagnolo, che ora si parla in pochissimi, una lingua, diciamo, di morti, una lingua fantasma, diventa paradossalmente ‘ultralocale’. E’ quello che succede quando vai in profondità nella questione dell’origine, quando ti addentri nei terremoti dell’anima. Nella cultura contadina si sfiorava l’animismo, l’antropomorfismo. Io ho fatto più volte figure di asino, perché anche l’asino è un nostro emblema, mutuato dalla campagna ma anche da Giordano Bruno, dai suoi dialoghi filosofici. E’ un linguaggio balbettante, che contrasta con la pedanteria intellettuale, con tutto ciò che rappresenta la cultura ufficiale. Ci siamo addentrati nel profondo, decisi a farci cavalcare dai sogni, da visioni che hanno a che fare con i terremoti di una natura scomparsa.

Lea

Detto così sembra un progetto culturale, mentre mi sembra che il legame con l’origine  abbia qualcosa che attiene alla tua personale esperienza, alla fuga dal villaggio dove sei nata e al fatto che lo hai in qualche modo portato con te.

Ermanna

L’uscita da Campiano, e per Marco dalla sua famiglia, è stata una vera fuga. Eravamo adolescenti che avvertivano in quegli anni un grande vuoto attorno, la mancanza di una comunità. Sono fuggita anche perché Campiano era per me la puzza, la bruttezza, la famiglia patriarcale, il villaggio, la chiacchiera, il costume che diventava legge. Ho messo una saracinesca: non volevo più dire una parola in dialetto. Poi io e Marco abbiamo cominciato come coppia a fare teatro. L’abbiamo imparato facendolo, e quindi facendo errori, provando. Abbiamo ‘messo in vita’ le nostre vite, non abbiamo mai recitato un testo, al massimo il testo veniva frantumato, polverizzato. Rendevamo tutto polvere, perché sentivamo il teatro museificato. Nel momento in cui ho cominciato come attrice, mi sono trovata nel corpo ‘quel’ linguaggio: il dialetto scaturiva così, in forma poetica. Vuol dire che ne ero invasata, che il mio corpo era ‘quella cosa’. I gesti venivano da soli, erano i gesti di mia nonna già vecchia, quel movimento del collo, tutti i gesti inutili che nel teatro diventavano comunicativi erano i suoi. La cosa meravigliosa che mi accadeva era di essere parlata da dentro; la ‘merda’ era tutto quello che pensavo intellettualmente. Da questo ritorno all’origine è venuta la consapevolezza che facevamo davvero teatro. Per Marco, che non è romagnolo e che non sa una parola di dialetto, usare un’altra lingua è stato un esercizio di lucidità, di pensiero e di scrittura molto importante. Le figure inventate, incarnate sulla scena, erano anche persone reali, nonne a cui devo molto, perchè è come se mi avessero donato i loro gesti. Io nel corpo sono tremendamente ‘etnica’, è stato un continuo lavoro di affinamento. Ogni volta che inizio, nel palcoscenico vuoto, quello che mi salta addosso è la mia lingua, il dialetto.

Lea

Il corpo, e tutte le storie, i volti, le impressioni che conserva ed esprime senza bisogno di parole, è al centro dell’originalissima drammaturgia di Marco: una scrittura inscindibile dalle membra vive degli attori, dalle ferite e ‘infezioni’ della pòlis, dalla esuberanza dionisiaca dei Senza Parola, gli allievi della vostra “non scuola”. Ma la tua presenza scenica è piuttosto quella di una “voce-corpo”, una voce-carne che fa vibrare un corpo immobile. E’ nella tua voce che si realizza la più straordinaria delle alchimie tra parola, suono, gesto, memoria e senso; è in quella tua ‘lingua di carne’, che arrotola le parole fino a renderle incomprensibili, che il dialetto romagnolo, ruvido, fatto di suoni gutturali e di terra, si fa canto, musica, mescolanza di sensi e azioni, partitura materica capace di comunicare al di là di Campiano fino ai più lontani paesi del mondo.
Tu distingui nettamente corpo e voce: il corpo, dici, è “un soldatino” che “a volte mi abbandona”, un corpo di cui non ti sei mai sentita sicura, che non riesci a vedere nella sua interezza. E’ la voce che fa da guida, che muove il tutto. Nella voce c’è il tuo carisma, la tua capacità di estendere il corpo oltre i suoi confini, di uscire da te stessa, diventare altro, animale, fiore, sporgerti su quel pozzo di segreti che è il nostro organismo e ripescare, in una estrema lucidità, i tuoi fantasmi contadini. Non c’è nulla, tu dici, che “io possa insegnare alla voce, come se appartenesse alla semplice legge delle zolle”, a quel nonno patriarca che scandiva le parole lentamente come macigni. Su quel suono hai modellato la tua voce, mentre nel corpo in scena hai ritrovato piuttosto gesti di donne conosciute nell’infanzia. Non è forse una mescolanza riuscita di maschile e femminile, tratti solitamente contrapposti che, in quella specie di “plus-vita” di breve durata che è l’azione teatrale, si abbracciano?

Ermanna

Nella voce, non so perché, trovo una sorta di infinità, sono collegata al prima e al dopo. La voce è aria, non è del tutto Ermanna, mi porta fuori dal biologico. Come materia scenica è incandescente, smisurata, sproporzionata, una materia con cui è bellissimo lavorare, perché è un atto creativo. E’una cosa che in me scaturisce da sola, un elemento che avanza, che si relaziona. Il mio corpo invece non lo sopporto, perché è finito, ha un perimetro, un’altezza, che posso misurare. E’ questa misura che mi blocca, tanto è vero che non mi specchio mai, o mi specchio a pezzi. Ho timore di questa finitezza. Nella voce, al contrario, c’è libertà. Il corpo lo penso femminile, la voce maschile: il corpo mi da la misura dei gesti delle donne, gesti che subiscono, gesti inutili di non comando, di sottrazione, un terremoto interno che non può apparire. Per questo io lavoro spesso nell’immobilità, ma è un’immobilità che dentro freme, che da un momento all’altro può scoppiare, come un vulcano sonoro, pieno di fuoco. Il pubblico deve percepire questa potenza che erompe come una lava nella voce. Il collegamento è nel punto più basso della terra, ma il movimento porta verso l’aria. La voce è terribilmente carnale, ma è anche ciò che si libera. Quello che mi fa ogni volta timore è che si tratta di un fuoco prepotente, che mi può incenerire, a differenza del corpo, prepotente solo perché mi da il limite. In questo modo finisco per essere terribilmente limitata e terribilmente libera, in quanto sono corpo e voce. E’ chiaro che l’uno e l’altra non si possono distinguere, la voce è parte del mio corpo, ma è l’aria che la costruisce.

Lea

Mi viene in mente una frase scritta da te: “rendere luminosi gli antenati”. E’ la voce che opera questa lucidità estrema, disperata?

Ermanna

Se la voce è al centro, il corpo non è tuttavia secondario. Che immagine abbiamo infatti degli antenati? Ce n’è una primaria, rappresentata dalle fotografie al cimitero: una figura ferma, incastonata nel marmo. D’altro canto invece, gli antenati sono anche quel calderone dei sogni che ci appartengono, e il sogno è privo di contorni, richiama l’aericità. E’ tutto ciò che è pulviscolo a interessarmi, è la voce che mi da questa incredibile libertà, mentre il corpo trattiene gesti che hanno la fissità dell’abitudine, un corpo che non amo, che non immagino mai, che non vorrei, che ho sempre tentato di rendere artificiale. Il corpo è banale, non mi dice nulla. Non è un caso che ho cominciato facendo un’asinella, mettendomi semplicemente due orecchie di asino. Ho sempre cercato di modificare la biologia di questo corpo, la sua finitezza e riconoscibilità. In più, è un corpo femminile e quindi, non appena mi metto in scena, capisco che è un corpo che subisce. E’ qualcosa che non tollero, ma che c’è. Come liberarsi? La voce è selvaggia, anarchica, estremamente mobile. E’ lei che fa da guida, è lei la mia disciplina. Lei sa cantare. Ne parlo in terza persona perché, se la pensassi come mio possedimento, sarei già una gabbia, sclerotizzata. Perciò cerco di non tarparle mai le ali. E’ così: qualcosa che mi vola dentro. Credo sia un dono, e le sono molto grata.

Lea

E’ una voce che trae alimento dalle profondità dell’organismo, da quell’abisso in cui affondano i nostri pensieri. Penso a quella tua nonna che aveva l’abitudine di affacciarsi ai pozzi…

Ermanna

Io sono sedotta da tutto ciò che appartiene all’interno del corpo, più che dall’esterno. La voce manda fuori il mio fegato, gli organi, l’intestino, le mucose, la spina dorsale; è lei che fa visitare e svela tutto quello che è carne vivente interiore. Questo interno dell’umano che “mi arriva”  ha su di me una seduzione terrificante.

Lea

Posso dire allora che la voce è il luogo in cui hai potuto tenere insieme corpo e parola? Faccio il confronto con Rosvita, uno dei tuoi primi spettacoli che ho visto, dove il conflitto era invece tra il corpo e la scrittura. Lì, quello che mi aveva colpito e affascinato era che tu a un certo punto, nella difficoltà di piegare il corpo a quella misura che è la parola scritta, che ne è lontana e che lo congela, mettevi in atto una resistenza proprio attraverso il corpo, le braccia, le ginocchia. La voce è entrata in un secondo tempo?

Ermanna

La resistenza rispetto alla parola scritta c’è tuttora. La subisco anche quando sono parole scritte e recitate da me, sia quando sono testi di altri. Il mio corpo fa opposizione, cosicché io sono costretta a cercare tutto quello che non è parola, la ‘carne’ di quelle parole. Se non succede questo per me non c’è teatro, non c’è ‘messa in vita’. La voce è la carne della parola. Bisogna rendere vive la voce e il corpo insieme. Con L’isola di Alcina e con i Polacchi mi sembra che questa alchimia si sia perfezionata. Molto importante è il rapporto con chi non è attore, per esempio gli adolescenti, i senegalesi. Per una decina di anni io ho lavorato nascostamente; è stata una disciplina, un lavoro in solitudine, finchè ho pensato che dovevo veicolarlo attraverso la scrittura, dire pubblicamente che cosa significa essere attore e che cosa è la ‘naturalezza’ dell’attore, come ci si può arrivare senza essere un bambino, un asino, un vecchio. Adesso penso che dovrei ancora cambiare, polverizzare tutto e cominciare a costruire di nuovo.

Lea

Tu hai scritto di essere rimasta per Marco “una donna di Campiano”, il villaggio dove sei nata, quelle donne “a cui muore la parola in gola”. Campiano è il dialetto, che hai parlato prima dell’italiano, è la terra, sono ‘teloni-utero’ che i contadini mettevano sopra i pagliai a protezione del raccolto, sono gli antenati, nonne furiose e passionali, l’umanità selvatica a cui hai cercato di dare una “misura”, incerta se vergognartene o esserne orgogliosa. Dal paese d’origine ti sei allontanata a vent’anni ma hai anche scritto: “Campiano mi ha attanagliata ogni volta che soffiavo un parola, che facevo un gesto, e con questo fastidio sono iniziati i miei lavori”. Hai detto anche: “E’ la luce che mi devasta, che trova sempre un buco dove infilarsi”. Io non sono riuscita, se non indirettamente a ‘rimettere in vita’ le mie radici, un passato che si è fatto deserto di memoria alle mie spalle e che non riesce a entrare, se non nascostamente, neppure nella scrittura più vicina alla vita. Ma, occupandomi con la stessa vostra tenacia ‘asinina’ del tema delle origini, so di aver cercato anch’io di estendere quel pezzo di terra dove sono nata, oltre i confini segnati da un canale, da una frazione di case, per ricongiungerla con tutte le campagne del mondo e con la vitalità dei Senza Parola che le abitano, con le loro narrazioni antiche, le loro lingue fatte di suoni incomprensibili. E’ così che voi avete potuto scoprire che la Romagna è un pezzo d’Africa e che i griot senegalesi non sono poi così diversi dai fulèr delle stalle romagnole.

Ermanna

Il luogo d’origine può anche aprire l’orizzonte, anziché chiuderlo. Entrambe parliamo di uno strappo, anche se tu lamenti l’impossibilità della memoria. Questa esperienza, nel mio caso, è entrata a far parte di una comunità, di una ‘compagnia’ che mi ha permesso di riattraversarla. Compagnia, in senso etimologico, vuol dire ‘lo stesso pane’, le stesse idee, creazioni, ma anche attriti, strappi. Eppure l’allargamento è possibile. Siamo stati da poco in Africa e prima ancora negli Stati Uniti. Sia nel villaggio senegalese che a Chicago abbiamo portato Ubu re di Jarry, lavorando con adolescenti del luogo. Ubu re è una figura riconoscibile universalmente, un’icona del potere. Questo è l’assunto iniziale, poi tutto viene agito in quella disciplina quotidiana che è il Teatro delle Albe. Nessuno ha una proprietà di linguaggio precisa, per cui l’interstizio attraverso cui si è passati è stata in entrambi i casi la musica: a Chicago avevamo il rap, in Sènegal i tamburi. Da lì scaturisce l’azione energetica. Tra l’altro, in Sènegal, abbiamo fatto tutto col sole che ci bruciava i corpi, mentre a Chicago eravamo dentro al teatro. Con lo stesso spettacolo siamo andati anche in Iran, in tutto il mondo. E’ sempre l’orda selvaggia degli adolescenti del luogo a creare le maschere universali del potere: padre e madre Ubu. Non andiamo a proporre qualcosa di astratto, ma una realtà che si vive lì e che lì può essere riconosciuta. A Chicago, per esempio, siamo andati subito dopo l’attentato alle Due Torri e abbiamo montato lo spettacolo come il sogno di un bambino di dodici anni che doveva assumere su di sé la questione della guerra, che gli stava accadendo intorno.
Così nel villaggio senegalese il problema della guerriglia. A noi interessa la costruzione della maschera dell’autorità e a crearla è l’adolescente. Ubu roi è un testo che Jarry ha messo in scena quindicenne. Perciò sono gli adolescenti l’elemento scatenante, visti non come i giovani da educare, ma come selvatichezza, capace di sbeffeggiare il potere.

Lea

Tu hai portato in scena quasi sempre figure femminili dell’ “eccesso”: guaritrici, assassine, decerebrate, figure di madri e figli stretti in un rapporto di amore e odio, donne furiose e imperturbabili, di una “lucidità terrifica”. In Bonifica, Daura sogna di essere un mostruoso drago d’acqua, che come la mucillaggine invade le spiagge della Romagna, mentre Arterio, il figlio, appare come il cavaliere che la vuole ammazzare. E’ un immaginario femminile che mi è famigliare, ma che ho sempre pensato di aver assorbito inconsapevolmente dalle fantasie e dalle paure degli uomini. La conferma potrebbe essere che sono, nel tuo caso, personaggi usciti da scritti maschili. Quando ti sei data tu una partitura, come in Rosvita, ne è uscita una figura femmine diversa. Eri appena uscita dall’ospedale, dove avevi toccato con mano la sofferenza femminile nascosta, e avevi tentato di dare voce al “gemito di un abisso” che si oppone alla legge, alla ‘misura’ scorporata imposta dall’uomo.

Ermanna

Sicuramente Rosvita aveva anche dei riferimenti autobiografici: il fatto di non avere parole, quel tipo di parole che, dicevo allora, sono parole maschili, perché la scrittura teatrale è fatta soprattutto da uomini. Quelle parole potevo solo balbettarle. Ora le parole le ho e, anche se scritte da uomini, sono state pensate per me e le posso cantare. Quello che un tempo era balbuzie ora è canto. C’è stato un tempo in cui io e Marco abbiamo cominciato a ideare figure femminili: la scrittura era sua ma incarnata nel mio corpo e nella mia voce. Una ‘coautoralità’. Mi piacciono le figure in eccesso perché non sono consolanti.

Lea

“Essere attore  -hai scritto nei tuoi appunti legati a Rosvita- è vivere in un breve tempo contemporaneamente la vita e la morte. Condizioni eccessive. Spasimare, bruciare. Tessere la vita di un essere invisibile che tra poco morirà…Essere attore è una mancanza. E’ carne riempita e paurosa…Fare del proprio corpo una croce. Corpo a pezzi. Corpo misurato. Ossessionato dalla misura, dalla misura della vita, dalla misura del tempo”.  Quanto ha a che fare questa immagine del corpo terremotato con l’attore, o meglio, con te, donna e attrice?

Ermanna

Ha a che fare col mio modo di essere attore, perché è l’assunzione quotidiana del vivere nel teatro, una condizione contraddittoria, di allegrezza ma anche di terremotamento. L’assunzione psichica a volte è estremamente dolorosa. L’immagine che ho è quella di doversi ‘purificare’: svuotamento fisico e psichico. Sai che non si va a ‘rappresentare’ ma a ‘mettere in vita’ quel fantasma. E’ una ‘plus-vita’, un eccesso. Libertà è farsi invadere da una “cosa” che non è del tutto tua, che ‘ti arriva’. Penso che anche tu l’abbia provato scrivendo: in alcuni momenti c’è la tua volontà che interviene, in altri è una grazia, e noi dobbiamo essere pronti a riceverla.

Lea

E’ vero, anche nella scrittura c’è un lungo lavoro di preparazione, poi però, hai la sensazione che tutto fluisca da sé, che la scrittura abbia bisogno, al di là delle tue intenzioni, di fare il ‘suo’ corso.

pubblicato in D La Repubblica il 13 settembre 2008