Il populismo di Sarah Palin

di Lea Melandri


 

Il dibattito che si è aperto intorno a Liberazione, su “quanto siano importanti per un quotidiano di partito” i problemi della corporeità e del sesso, se abbia senso porli sullo stesso piano dell’economia, della politica estera, delle questioni ambientali, meriterebbe quanto meno di essere accompagnato dalla consapevolezza che si tratta di un tema al centro di vicende politiche nazionali e internazionali.
Ha ragione Giuliano Ferrara quando, a proposito della campagna elettorale americana e della candidatura di una “madre antiabortista”, Sarah Palin, alla vicepresidenza, scrive che “le questioni di etica pubblica, la considerazione politica dell’esistenza umana moderna come problema, non dipendono da una forzatura clericale verso l’autonomia della società secolare. In America non c’è un concordato, c’è una ferrea separazione tra Stato e Chiese, eppure in questo modello civile la questione del significato e della verità del vivere ha una incredibile fortuna, gode di una altissima considerazione”. (Il Foglio, 8.9.08).

Ma sono davvero solo gli americani che “votano sulla vita”? I temi della sicurezza  -del corpo, della persona, della casa, della città-, la questione della moralità pubblica  -gli sprechi, la corruzione, i privilegi della casta politica-, ma anche la prostituzione, i gay pride, le ‘famiglie’ anomale lesbiche e omosessuali, non sono forse tra le principali motivazioni ‘soggettive’ del consenso al governo di Berlusconi in Italia e, pur in versione opposta, di Zapatero in Spagna?
Del resto, chiunque non abbia cancellato la storia dell’ultimo mezzo secolo sa che non si tratta di una “svolta culturale e antropologica” dell’ultima ora. Il “tramonto della politica” non è solo conseguente al trionfo dell’homo oeconomicus, come va ripetendo da anni Mario Tronti, ma ha a che fare con quello spostamento del confine tra sfera personale e sfera pubblica che ha subìto una accelerazione evidente con la società dei consumi, e che i movimenti non autoritari degli anni ’70, in particolare il femminismo, hanno messo al centro delle loro pratiche: dagli asili autogestiti all’autocoscienza, al rifiuto della delega, all’esperienza di nuove forme di convivenza, di solidarietà.

Se c’è un aspetto di novità, di sorpresa, caso mai è questo: la smemoratezza, l’affossamento di un tratto di storia che sulle questioni del corpo, della persona, delle relazioni primarie tra uomo e donna, adulto e  bambino, individuo e società, ha avviato una idea radicale di cambiamento a partire dalla coscienza individuale, ma destinata a sovvertire saperi, poteri, istituzioni della vita pubblica. La vera “svolta”, rispetto alla concezione tradizionale di politica, cultura, potere, rivoluzione, è stato il ’68, e i movimenti che vi si sono successivamente ispirati.
Non è un caso che, dato per morto dagli stessi protagonisti di quella stagione, sia tutt’ora il fantasma vivo e inquietante contro cui si accaniscono sia le pulsioni vendicative e conservatrici della destra, che le preoccupazioni di ordine della sinistra.
Gli incubi della ministra Gelmini, che vede la scuola tenuta sotto scacco da sessantottini libertari,  adulti permissivi, non sono tanto diversi da quelli del lettore che vede Liberazione come un giornale  “editorialmente scombinato e culturalmente fricchettone”, soffocato da lobbies “tematiche” femministe e glbt. (Liberazione, 9. 9. 08)

Osteggiata dalle piccole formazioni partitiche di ispirazione marxista-leninista, ma anche dal più grande partito comunista italiano degli anni ’70, la ‘politica della vita’ ha preso poi altre strade, più larghe e più facili, è diventata, per una rovinosa ritorsione della storia, il paravento di ‘modernità’ delle forze più reazionarie.
Il protagonismo femminile –da Gelmini, Carfagna a Sarah Palin- ha poco a che fare con la cultura femminista, ma nasce sull’onda lunga di un movimento che ha favorito la valorizzazione della donna, su versanti opposti e contraddittori: per la forza di mettere in discussione un ruolo imposto di moglie e madre, o, al contrario, per aver deciso di rivestirlo nell’agone pubblico, in occupazioni tradizionalmente maschili.
La sinistra laica, progressista, ferma all’idea di una emancipazione femminile tutta interna ai modelli dettati dall’uomo, non ha mai deposto paura e diffidenza nei confronti delle donne  -come ha scritto Ritanna Armeni-, ha lasciato che il femminismo si consumasse nello sforzo di “fare e cambiare la politica”. Ha permesso, soprattutto, che la figura femminile diventasse il sostegno più forte del populismo, “il momento di congiunzione rapido e immediato con un mondo sommerso, ma vivo e lontano dalla politica alta”. (Liberazione, 6. 9. 08)

Là dove la sinistra ha visto solo miseria, debolezza, svantaggio, marginalità, e quindi bisogno di riscatto, la destra ha saputo cogliere e usare quella contropartita che è stato il potere di indispensabilità delle madri, la competenza domestica e relazionale, il supporto fallico, fecondante,  che viene dalla creatività non solo biologica delle donne alla civiltà dell’uomo, soprattutto quando è in declino.
La destra si è dimostrata capace di “valorizzare” le donne, ma è il valore ambiguo che si attribuisce a quell’ibrido, bifronte, che formano insieme la figura del guerriero e la “dea della fecondità”, il coraggio virile e la saggezza terragna della donna, il carisma di un “capo” e l’autorevolezza del sottoposto che glielo conferisce, gli scenari di guerra e la tranquilla quotidianità delle cittadine di provincia.

Il discorso di Sarah Palin, da questo punto di vista, è un capolavoro di intarsio, fusione perfetta, androgina, degli stereotipi di genere su cui si sono costruiti poteri, gerarchie, ma anche false complementarietà tra i sessi. Non importa molto che altri abbia scritto per lei: Sarah lo ha incarnato perfettamente, tanto che è ormai solo di lei che si parla e si discute.
Sulla linea continua di un tracciato che si snoda armoniosamente tra privato e pubblico, casa e città, anonimato e ruoli di rilievo, si vanno a collocare alcuni dei passaggi essenziali con cui si può oggi definire l’ “antipolitica”, o la sua versione più accattivante: il populismo.
Scorrono in perfetta sintonia immagini di forte impatto emotivo, evocative di vissuti personali quotidiani, su cui gravano pregiudizi antichi, ideologie forti, e richiami espliciti a una attualità inquietante. C’è, soprattutto, l’attenzione ad avvicinare chi sta per raggiungere un ruolo unico nel mondo a tutto ciò che è umile, piccolo, sconosciuto.
La presa di distanza dalla élite di Washington sposta entrambi i candidati, MacCain e Palin, sulla sponda opposta, là dove si consumano risorse umane indispensabili e non adeguatamente riconosciute: “quelli che fanno alcuni dei lavori più duri d’America, che coltivano il nostro cibo, mandano avanti le nostre fattorie e combattono le nostre guerre”.

La credibilità che Sarah si è costruita sul versante pubblico attinge a piene mani dal suo ruolo femminile, domestico; la “differenza” femminile storicamente data transita, senza alcuna inflessione critica, dagli interni di famiglia alla pòlis, dalle periferie al centro dell’impero, e va a incunearsi perfettamente nella figura di un “comandante in capo”, cancellando anche l’ombra del conflitto tra i sessi.

Si poteva mantenere ferma la barra di un cambiamento, che avrebbe richiesto una formazione sentimentale e intellettuale lenta e profonda, ma suscettibile di successo nella continuità, nell’accomunamento di esperienze, nella condivisione di sconfitte e vittorie?
Tra le ferite che la civiltà ha inflitto e infligge tutt’ora ai corpi, alla sessualità, al piacere di vivere, ci sono quelle più visibili, più socialmente condivise  -come la fame, la miseria, lo sfruttamento nel lavoro-, altre che hanno radici più remote nel tempo.
Il populismo si fa forte di luoghi comuni diventati, per lungo silenzio, ‘naturali’ e che hanno perciò una cattura facile, immediata, acritica, capaci di impastare insieme confusamente economia domestica ed economia politica, gesti quotidiani e grandi responsabilità pubbliche.
Non erano questi i “nessi” tra vita e politica, individuo e società, su cui avevano cominciato a riflettere i movimenti antiautoritari degli anni ’70, ma oggi è da qui che bisogna ripartire per dare credibilità alle nostre analisi e pratiche politiche.

pubblicato in Liberazione del 14 settembre 2008

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